9
Lug
2013

Lo Stato pretende di “fare” cultura, ma fa disastri

Non è da invidiare Massimo Bray, il ministro dei Beni e Attività Culturali. Come tutti i suoi predecessori al MIBAC è come se, in un Paese che s’impoverisce, fosse seduto su un mare di petrolio. Perché è un classico ma insieme ben fondato luogo comune, che patrimonio culturale e storico-artistico siano il petrolio dell’Italia. Solo che al ministro mancano trivelle e macchine perforanti. E il petrolio culturale di conseguenza non solo resta inutilizzato. Non manutenuto, decade. Degrada a livelli da farci vergognare davanti a tutto il mondo, si tratti di Pompei o degli scioperi che lasciano per ore al sole i turisti fuori il Colosseo.

Il ministro lo sa benissimo, come tutti coloro che si occupano nel nostro Paese di beni monumentali e storico-artistici, biblioteche e musei. L’Italia vanta ben 47 siti nella World Heritage List dell’Unesco, e la quasi incredibile cifra di 962 siti riconosciuti di “eccezionale valore universale” secondo la Convenzione del patrimonio mondiale Unesco del 1972. Ma la verità fattuale è che come Italia non ne ce ne mostriamo all’altezza.

Ha un bel riconoscere la Costituzione, all’articolo 9, tutela e promozione rivolte a ricerca, cultura e patrimonio storico-artistico. Nei fatti, alle storiche inadeguatezze italiane del passato, gli ultimi anni di dura crisi hanno aggiunto un’oggettiva falcidie di risorse. Per questo Bray non è da invidiare, perché ormai nelle condizioni attuali un ministro deve indicare una svolta di fondo, e non è facile perché le aspettative sono divergenti e, spesso, irrealistiche.

Nel senso più ampio del termine, il binomio di cultura e industria creativa – design, audiovisivi, teatro, cinema, tv, editoria – nel 2012 ha prodotto il 5,4% del Pil, dando lavoro a 1,4 milioni persone. Il turismo culturale da solo, un settore che dovrebbe rappresentare quel che il gas naturale è per la Russia, vale poco più del 3% del Pil, un dato cioè del tutto insoddisfacente.

I segni della decadenza sono tanti, la settimana scorsa li ha richiamati il nono rapporto annuale di Federculture. Nel Country Brand Index che indica l’attrattività comparata dei diversi “marchi” nazionali, l’Italia era al sesto posto mondiale nel 2009, è scesa al decimo scalino nel 2012, e nel 2013 siamo andati giù di altri 5 gradini passando in quindicesima posizione.

Nel 2000 si toccò con Veltroni il picco dei finanziamenti pubblici con 4mila miliardi di vecchie lire, ma nel 2013 il bilancio del MIBAC è sceso a 1,45 miliardi di euro. In 13 anni ha perso oltre il 26%, la ghigliottina vera è venuta da Tremonti in avanti. Il FUS che finanzia l’opera lirica, musica classica, teatro, cinema e danza, da 507 milioni del 2003 è sceso ai 389 milioni di oggi. Se sommiamo i finanziamenti alla cultura di Comuni, Province e Regioni, siamo passati dai 7,5 miliardi complessivi pubblici del 2005 ai 5,8 dell’anno in corso, con 600 milioni in meno solo dai Comuni nell’ultimo triennio (sorvolo sul fatto che nel sostegno locale a manifestazioni culturali i criteri siano spesso, diciamo così, assai discutibili, tra “associazioni amiche” della politica, eventi a scopo non troppo reconditamente elettorale, e sagre espressione dei più vari e diversi filoni della mitologia “chilometro zero”). Al paragone, la Germania è passata da 9,1 miliardi del 2009 ai 12 miliardi di risorse pubbliche nel 2012. L’Italia spende col MIBAC lo 0,11% del suo PIL, la Francia lo 0,24%, il Regno Unito lo 0,17%, la disastrata Grecia lo 0,26%. Al Louvre parigino da solo vanno 100 milioni di fondi pubblici l’anno, al MAXXI romano – qualunque cosa ne pensiate – 4,5.

I fondi privati sono calati anch’essi. Le erogazioni liberali sono scese dell’11% nel 2011, le sponsorizzazioni del 42% in 5 anni. Nel 2012, solo 150 milioni di sponsorizzazioni private sono andate a 4760 istituti e musei, alle 14 fondazioni lirico-sinfoniche, ai 68 teatri stabili. Da un biennio a questa parte è stato introdotto il meccanismo del tax credit per agevolare il finanziamento privato alle produzioni cinematografiche, ma a dicembre scade la copertura del minor introito fiscale per il Tesoro e in queste condizioni nessuno investe. Quanto al finanziamento di progetti culturali dal gioco del Lotto, anch’esso è sceso del 64% in 8 anni, da 135 ai 48 milioni nel 2012.

E’ possibile, in queste condizioni, immaginare un ritorno della spesa pubblica ai livelli di un decennio fa? Bisogna essere onesti: è pressoché impossibile. Nel bilancio pubblico, per avere un’idea, la spesa in previdenza e forniture lievitava di punti di Pil, ma per esempio i fondi statali di carattere sociale anch’essi sono passati dai 2,5 miliardi del 2008 ai 767 milioni 2013, per ridursi nel bilancio pluriennale addirittura a 199 milioni nel 2014 e 2015. Letta e Saccomanni avranno il loro bel da fare, nella legge di stabilità settembrina, a dover quadrare il conto di fronte a tutti coloro che richiedono ripristini di spesa. Ricordate che dal 2015 parte il fiscal compact, e in pareggio costituzionale di bilancio dobbiamo abbattere il debito pubblico di 45 miliardi l’anno…

Non pesa solo l’obiettivo scarso margine per risorse aggiuntive. Il ministro Bray si trova in una condizione di difficoltà aggiuntiva. Di fatto, l’efficienza del suo ministero appare indifendibile. Lo è a livello centrale, visto che un terzo del bilancio se ne va in soli costi fissi, oltre 400 milioni di euro ai dipendenti a fronte dei soli 9 milioni da destinare alla valorizzazione del patrimonio, e a 132 per l’intera loro tutela. Ma peggio ancora vanno le cose a livello decentrato, nella complessa struttura territoriale di Sovrintendenze e Musei: il dato del 2010 è che il 55% delle magre risorse loro assegnate erano finite nei residui passivi, per lentezza, incapacità e sistemica conflittualità amministrativa nell’utilizzarli. Come si fa a chiedere più risorse per una macchina di questo tipo, quando al solo gabinetto del ministro – e Bray non c’entra, il bilancio gli è precedente – va una volta e mezza l’intera cifra annuale devoluta alla valorizzazione dell’intero patrimonio culturale italiano?

Ma allora qual è la strada, per evitare disastri a Pompei, figure penose come la spoliazione della Biblioteca dei Girolamini a Napoli da parte del suo stesso direttore, e per far sì che Expo 2015 a Milano e l’assegnazione all’Italia della Capitale Europea della Cultura nel 2019 non sin traducano in promesse non mantenute, come le Colombiadi a Genova nel 1992, dove i visitatori furono moto meno della metà dei 2 milioni attesi e gli incassi solo di un terzo?

La via è quella di uno Stato che regoli sempre, possibilmente in maniera meno ostile e intrusiva – su questi temi è agguerrito il fronte del “non posssumus”, rivolto al ruolo dei privati da parte della macchina amministrativa – ma gestisca sempre meno. Ideologicamente, molti sono contrari. Ma la Torre Eiffel come il Louvre, il Moma a New York come la Tate Modern a Londra sono tutte entità separate da Stato e pubbliche amministrazioni, hanno proprie organizzazioni privatistiche e spesso marchio e brand depositato, come il Louvre, per tutelarne e promuoverne il valore. Occorre ampliare le agevolazioni fiscali a privati invece di limitarle, equiparando e anzi rendendo più incentivanti le sponsorizzazioni delle aziende, rispetto al più favorevole regime di incentivo che lo Stato riserva attualmente per le donazioni a sé.

E’ una rivoluzione della efficiente gestione privatistica, che non spoglia assolutamente lo Stato dal diritto proprietario dei beni – beni che la Ragioneria generale valutava 3 anni fa oltre 150 miliardi, con criteri assolutamente spannometrici. Ed è una rivoluzione che sicuramente non piace alla burocrazia MIBAC, perché finirebbe per spogliarla di gare e assegnazioni di risorse, per quanto magre. Ma è una rivoluzione necessaria.

Kemal Ataturk, il fondatore della Turchia moderna rimpianto a Istanbul da chi protesta a Gesy Park, capendo di non avere risorse adeguate per gestire e valorizzare gli innumerevoli e straordinari siti archeologici nazionali, ne affidò ciascuno dei maggiori a una grande università occidentale. L’effetto è che da Efeso a Didimo e Priene, i turchi oggi battono Pompei e Villa Adriana.

5 Responses

  1. luciano pontiroli

    Caro Giannino,
    il problema non è di oggi e, verosimilmente, è destinato ad aggravarsi in futuro.
    Lo Stato non può pensare di poter conservare e valorizzare un patrimonio culturale enorme di fronte a costi in crescita inevitabile: ma un cambio d’indirizzo richiede la capacità dei politici di superare le resistenze della tecnostruttura ministeriale e la demagogia dei beni comuni, che intende tenere i beni culturali al riparo dall’ingordigia dei privati.

  2. luciano pontiroli

    Però bisognerebbe avere anche il coraggio di mettere in discussione la stessa capacità della Repubblica Italiana di assicurare la tutela e la valorizzazione dei beni culturali. Il valore di questi è spesso legato al contesto: le collezioni di oggetti d’arte o documenti storici dovrebbero, tendenzialmente, essere mantenute intatte (l’eventuale smembramento è sottoposto ad autorizzazione del Mibac);quanto ai beni culturali immobili, il Ministero può prescrivere tutte le misure dirette ad evitare che sia mess in pericolo la loro integrità, ne sia danneggiata la prospettiva o la luce e ne siano alterate le condizioni di ambiente e di decoro.
    Moltissimi siti d’interesse culturale sono presidiati da bancarelle di venditori di souvenirs – per lo più paccottiglia di nessun valore, priva di relazione con il sito – e da bande di venditori ambulanti, artisti di strada, pizzerie e trattorie di dubbia qualità: tempo addietro abbiamo visto in televisione l’ingresso del sito archeologico di Pompei, di recente Santoro ha trasmesso un lungo servizio sul aptrimonio archeologico di Roma, nel quale era compresa una sezione sugli orrori che circondano il Colosseo. Il mese scorso sono fuggito dalla Piazza dei Miracoii di Pisa, sopraffatto dalal visione del suk che la circonda.
    Come si può pensare che, in tali condizioni, sia possibile assicurare la valorizzazione e la fruizione dei beni culturali, in particolare dei siti d’arte, ai visitatori italiani e stranieri? a quando la revoca dei riconoscimenti di Patrimonio dell’Umanità attribuito a molti siti italiani? Che io sappia, l’UNESCO ha sinora revocato solo il riconoscimento di un sito in Oman, a caratterer naturalistico-ambientale, in seguito al venir meno della garanzia della sua integrità: la prossima revoca riguarderà Pompei?

  3. Claudia Canini

    E parlando di opportunità perse nel’ambito del Programma Operativo Interregionale ”Attrattori culturali, naturali e turismo” (POIn), 39 milioni di euro sono stati revocati dall’Ue per i ritardi nella spesa. 220 milioni sono stati già lo scorso anno certificati ricorrendo ai “progetti di sponda” e cioè a opere del tutto estranee alla filosofia di intervento, già finanziate con fondi nazionali in corso di realizzazione, e utili solo a nascondere le gravissime responsabilità dei burocrati colpevoli della mancata spesa. Infine altri 330 milioni di euro sono previsti quest’anno da spendere: quanto a 130 milioni di euro per progetti non in linea con la filosofia del POIn e quanto a 200 milioni di euro per interventi finalizzati all’assistenza di anziani non autosufficienti e per i giovani. Altro che carenza di risorse, là dove c’erano non sono state utilizzate Insomma mentre il nostro patrimonio Culturale, il nostro Petrolio, unico volano insieme alle nostre coste cade a pezzi, Il Programma Attrattori Culturali «non è andato male: è stato un disastro. Abbiamo restituito a fine 2011 un milione e mezzo di euro alla Commissione europea. Non era un problema di soldi: dunque perché è evaporato quel programma? Perché sono stati spesi tre anni a ragionare di processi, invece che a fare progetti»,Il Programma Attrattori Culturali «non è andato male: è stato un disastro. Abbiamo restituito a fine 2011 un milione e mezzo di euro alla Commissione europea. Non era un problema di soldi: dunque perché è evaporato quel programma? Perché sono stati spesi tre anni a ragionare di processi, invece che a fare progetti»

Leave a Reply