Lo Stato invasore e la città responsabile — di Damiana Conti
La questione dello Stato minimo è assai dibattuta e controversa. In America, dove lo Stato è meno invasivo nei confronti del “diritto dei privati”, comunità contrattuali come le homeowners associations o le neighborhood association (fatte le dovute differenze tra le diverse realtà) sono fiorenti e rappresentano un modo “alternativo” di vivere il contesto urbano, con il fine di massimizzare i benefici che l’individuo e, conseguentemente, la comunità traggono dalla condivisione degli spazi pubblici. In Italia una tale prospettiva non sembra essere possibile, tuttavia può esistere un modo di vivere le città più responsabile.Come sostenuto da Stefano Moroni in La città responsabile (Carocci, 2013), in riferimento alla percezione di ciò che rende una città più o meno vivibile, «ci sono alcune cose che è inevitabile siano espressione della soggettività più spinta e altre che è auspicabile siano invece considerate e garantite in un’ottica eticamente intersoggettiva». Lo stesso Moroni introduce una distinzione tra bene e giusto, dove con “ciò che è bene” per noi si caratterizzano una serie di elementi (servizi, offerte, possibilità, ecc.) che una città è in grado di offrire, ma che possono essere ritenuti indispensabili da me ed allo stesso tempo futili dal mio vicino di casa. Come “giusti” invece vengono caratterizzati comportamenti, servizi, possibilità, di cui la collettività può farsi carico e su cui essa può vigilare affinché nessun danno venga arrecato ad ogni suo singolo membro. Di ciò che è giusto e non di ciò che è bene (che dunque attiene unicamente la sfera privata), il soggetto pubblico dovrebbe farsi carico.
Laddove il singolo accetti e rispetti quell’insieme di regole “giuste” istituite a garanzia di nient’altro se non della libertà d’azione dello stesso, si creerebbe un virtuoso sistema di rapporti a diversi livelli, che, tutelando come fine precipuo il “bene” del singolo porterebbe nello stesso tempo al raggiungimento di scopi “altruistici”.
Le regole devono essere punti di riferimento, e non imposizioni, che scandiscono il ritmo temporale e spaziale delle città.
Ciò che negli anni è stato costruito, e di cui oggi spesso riconosciamo l’invasività estetica e volumetrica, è stato reso legittimo (abusi edilizi a parte) da piani regolatori approvati di volta in volta da soggetti pubblici, che spesso, non tutelando i “giusti” interessi della collettività (dunque contravvenendo ai loro ideali compiti), hanno fatto sì che la percentuale di aree artificializzate negli ultimi vent’anni crescesse del 20% in Europa a fronte di un aumento della popolazione pari al 6%. Tale crescita è avvenuta attraverso una eterogenea dispersione extraurbana (sprawl) i cui effetti si riscontrano, tra le altre cose, in un elevato consumo del suolo, nella riduzione degli spazi verdi, nell’aumento della dipendenza dalle autovetture in conseguenza della dispersione territoriale e di una cronica carenza di adeguate infrastrutture per la mobilità alternativa.
Tenuto conto dello sprawl e, conseguentemente, del fatto che il trasporto su gomma è preferito rispetto alle possibili alternative, il tasso di inquinamento in Italia è elevato. Come Rothbard sostiene, l’inquinamento può essere considerato come una forma di aggressione nei confronti di individui e proprietà: ne consegue che non sempre l’interesse pubblico effettivamente coincide con il benessere dei singoli individui. Non sarebbe dunque più coerente pensare prima al benessere del cittadino che a quello della collettività (che è per definizione l’insieme dei singoli)?
Una tale idea liberista viene talvolta tacciata di egoismo, a discapito di un ben più “salutare” comportamento altruista.
Detrattori di un modello che limiti l’azione invasiva dello Stato nella vita del cittadino sostengono come sia necessario minimizzare l’egoismo e “iniettare” nella società «dosi massicce di altruismo» affinché la convivenza nelle città sia migliore.
Come ben spiega anche Moroni nel suo saggio, Adam Smith teorizza come la spinta del singolo verso l’ottimizzazione dei propri sforzi lo porti «naturalmente, o meglio necessariamente, a preferire l’impiego più vantaggioso per la società». Smith sostiene che il fine privatistico porti linearmente al bene per la collettività. Di contro, fini “altruistici” possono invece arrecare danno all’individuo.
Il ragionamento porta quindi ad una profonda riflessione su come, in fondo, non sia temibile che i privati perseguano i propri scopi, i quali nel peggiore dei casi arrecano danno alla collettività la quale, in quanto numericamente forte, avrà sempre più armi per combattere il singolo che le dovesse nuocere; piuttosto è maggiormente da temere l’altruismo di una collettività, che può danneggiare, talvolta anche piuttosto gravemente, il singolo. Esso, in quanto individuo, sarà “il debole” nel momento in cui sarà chiamato a difendere i propri diritti al “cospetto” della società, e la lotta non sarà mai ad armi pari, ma anzi favorirà sempre quest’ultima.
Se l’altruismo è la difesa del più debole, non è dunque auspicabile che una società che si definisca (o si voglia definire) tale lasci libertà al singolo di perseguire i propri fini, laddove chiaramente esso si muovesse entro l’ambito di ciò che è “giusto” e “bene” (rimando alla definizione di cui sopra)? Se lasciato libero il privato di raggiungere i propri scopi, la collettività ne trarrebbe un doppio vantaggio in termini di “altruismo”:
- il singolo, nell’ottenimento del benessere personale, ne creerebbe anche per la collettività. Dunque lasciare libertà d’azione in questo senso implica il fatto che del benessere creato, ad esempio, da un’industria, ne giovino anche coloro che magari, non possedendo i mezzi per crearne una propria, possono guadagnare un salario da dipendenti dell’azienda stessa.
- laddove il raggiungimento del benessere del singolo fosse anteposto, sulla scala valoriale di una società, a quello della collettività (che diventa qui un unicum a se stante), sarebbe facile per la collettività stessa porre dei freni al privato laddove questo valicasse il confine di ciò che è “giusto” e “bene”. Contrariamente, laddove alle singole individualità venga imposto il “sistema di valori e di interessi” della collettività a discapito del loro, quelle stesse individualità risulterebbero essere il soggetto debole, non in grado di combattere lo strapotere dell’organismo “collettività” al fine di far valere i propri diritti. In una sedicente società altruistica che si fa garante della collettività, non sarebbe allora il debole ad essere tutelato, bensì il più forte. (vedi l’annosa questione dei “crediti vantati nei confronti dello Stato dal singolo” e, per contro, quella dei “crediti vantati dallo Stato verso il cittadino” e la relativa differenza tra diritti e doveri dei due soggetti).
Non sarebbe allora più “giusto” che la società agisca in modo tale da mettere davvero l’individuo (e dunque il soggetto più debole) in condizioni di poter creare benessere per se stesso e per la comunità di cui fa parte avendo ben presente che, laddove esso commettesse degli errori, la collettività si potrebbe sempre su di esso rivalere? Qual è dunque il tipo di “altruismo” più auspicabile se fare il bene degli altri significa innanzitutto poter fare prima il bene per se stessi?
Il tipo di “altruismo più auspicabile”,a mio avviso,è l’introduzione del principio di sperimentazione mediata.Chi può o vuole fare una proposta la presenti al vaglio della comunità.Qualora sia approvata, venga realizzata per il tempo necessario a valutarne gli effetti che serviranno,in caso di richiesta,a stabilire la convenienza a mantenerla o a rimuoverla tornando al sistema preesistente.In altre parole ciò che riguarda aspetti essenziali e identificabili dell’esistenza vengano decisi da referendum popolari senza quorum,così come la loro rimozione dopo averne sperimentato i risultati.
Cosa avviene prima, l’azione del singolo che supera il concetto di ciò che è “giusto” ed è “bene”, oppure l’azione di chi fissa questi concetti, introducendo il principio di una società altruista (proprio perchè limita l’azione dei privati nell’interesse comune), per poi impedire al singolo di superarli?
Infine, ha senso declinare questo concetto teorico in un sistema dove le forze e le condizioni di partenza degli individui non sono nemmeno lontanamente assimilabili?
Sostenere che non si debba fissare dei principi per il bene comune a priori è pura pazzia. Altra cosa è definirli nel più ristretto e necessario ambito possibile, evitando di scivolare in uno “Stato etico”.