Lo Stato Imperialista delle Multiutility e le privatizzazioni-mutuo
Con le ristrettezze di bilancio, le privatizzazioni tornano di moda? La cessione delle aziende di servizi pubblici ai privati, cacciata dalla porta politica del referendum, sembra rientrare dalla finestra delle ristrettezze di bilancio dei comuni. Per fare solo qualche esempio, a Milano si discute della parziale privatizzazione di Sea, a Torino di Gtt, a Roma di Acea (con annesse teorie del complotto), mentre a Genova il tema è tabù per ragioni elettorali ma tutti i candidati sindaci hanno ben presente il dossier su alcune aziende comunali. Intanto tiene banco il dibattito sulla “utility del nord” che dovrebbe coagularsi sull’asse A2a-Iren-Hera-Edipower. Necessità, virtù o illusione ottica?
Per rispondere bisogna prima evidenziare quello che è il vero comune denominatore tra tutte queste operazioni, che non va cercato nella presunta “privatizzazione” ma nel modo in cui essa dovrebbe avvenire. Infatti, nessun primo cittadino ha in mente la vera e totale alienazione delle imprese pubbliche, quanto piuttosto il collocamento di quote di minoranza: quando è possibile i sindaci intendono trattenere il 51 per cento (nel caso di Iren addirittura l’obbligo di restare in mani pubbliche è assurdamente scolpito nello statuto), quando indispensabile sono disposti a scendere al 30 per cento, ma mai sotto. In altre parole, il controllo delle aziende non è mai, neppure in linea teorica. In genere neppure le opposizioni sfidano le giunte comunali su questo terreno, preferendo la difesa dello status quo e il tentativo di lisciare il pelo alle constituencies anti-privatizzazione. Tra le poche eccezioni Carlo Masseroli, capo della minoranza a Palazzo Marino, qui su Sea. Proprio Masseroli dice una cosa giusta che sembra, invece, essere totalmente assente dal dibattito pubblico. Le sue parole si riferiscono agli aeroporti milanesi, ma possono essere tranquillamente generalizzate:
O la Sea resta pubblica e quindi non si vende più nulla. Oppure si affida interamente ad un privato. La via di mezzo, questa situazione di ambiguità che si va prospettando, sarebbe disastrosa e garantirebbe pochi privati: nello specifico, anzi, uno solo, che per altro pagherebbe poco.
Il problema sta nella ragione per cui si sceglie di privatizzare. In senso proprio, privatizzare serve a mettere tutti i concorrenti sui mercati liberalizzati sullo stesso piano (che si tratti di concorrenza nel o per il mercato). Le privatizzazioni propriamente intese sono uno strumento pro-concorrenziale: il fatto che generino entrate straordinarie è incidentale (anche se non sgradito!). La sensazione, invece, è che qui si voglia la moglie allegretta e la botte semipiena: incassare un po’ di soldi, cedere un po’ di potere decisionale, ma mantenere il controllo del gioco.
L’esempio più clamoroso è il progetto della “Rwe italiana” (come la definiscono enfaticamente i suoi sostenitori), cioè la super-utility che nascerebbe dalla fusione delle grandi società quotate del nord a controllo municipale. Non che la cosa sia priva di senso dal punto di vista industriale (anche se, più che un unico soggetto, sarebbe interessante ragionare sulla creazione di due realtà: una focalizzata sull’energia, l’altra sui servizi ambientali). Se l’esperienza dice qualcosa, le fusioni che ci sono state nel passato (come Aem Milano e Asm Brescia in A2a, Amga Genova e Aem Torino in Iride e poi Iride ed Enìa in Iren) hanno avuto principalmente una funzione: rendere non contendibili aziende che, nelle loro dimensioni precedenti, non erano giustificabili. Garantendo, contemporaneamente, un sostenuto flusso di dividendi che i comuni percepivano e percepiscono come un’entrata parafiscale la quale non poteva essere messa in dubbio. Tant’è che sono tutti gruppi stra-indebitati.
Che dietro tali movimenti ci fosse una spinta tutta politica lo dimostra l’incredibile successo lobbistico che essi hanno avuto, facendo leva su ogni forma di alleanza o antica amicizia politica. Per esempio, A2a è riuscita ad avere nella partita Edison un peso sovradimensionato rispetto al suo impegno finanziario. Ma anche su altri fronti si osservano cose che definire strane è dire poco: l’esenzione delle società quotate dalla norma che vieta ai titolari di affidamenti diretti di partecipare a gare per la distribuzione locale gas fuori comune ha un evidente cui prodest. (Per inciso: il trattamento speciale per le quotate è uno dei temi su cui i referendari potrebbero avere la loro quota di buone ragioni). Idem per la definizione di ambiti di gara troppo grandi per essere contendibili.
Detto in termini brutali, la sensazione è che le presunte privatizzazioni di cui si parla siano in realtà una risposta inefficiente alla crisi di finanza pubblica che investe gli enti locali. Banalmente, i tagli mettono in forse la capacità dei comuni di sostenere la spesa pubblica, che neppure può trovare una sponda nell’ulteriore indebitamento, reso impossibile dal patto di stabilità interno. La via d’uscita scelta da molti sindaci è quella di stipulare un “mutuo mascherato”: i “compratori” non acquistano aziende, ma fanno un investimento finanziario in cui concedono la liquidità di cui i primi cittadini hanno bisogno in cambio di un flusso di cassa sufficientemente sostenuto e, verosimilmente, tale da garantire un rendimento superiore al tasso di interesse di mercato. In effetti i rendimenti sono stati, finora, abbastanza generosi, con dividend yield che vanno dal 7,59 per cento di A2a al 10,92 per cento di Iren. Il patto si regge sulla promessa implicita che i comuni, grazie al loro controllo da un lato e la possibilità di esercitare pressioni o influenzare il business dall’altro, siano in grado di garantire l’estrazione di quella rendita monopolistica che è necessaria a mantenere l’equilibrio. Se poi tutto ciò implica lo spolpamento delle aziende, è un problema che si porrà dopo le prossime elezioni cioè, nella testa di un politico, mai.
Il risultato però è assurdo. Per un verso i comuni perseverano nel duplice errore della spesa folle; per l’altro il mercato non si sblocca anche a causa della pervasiva presenza pubblica, che vanifica in particolare la credibilità delle gare; dall’altro ancora l’asse comuni-municipalizzate è così forte da ottenere una serie di favori legislativi che uccidono ulteriormente le prospettive di una vera concorrenza. Così, i tentativi di liberalizzazione finiscono impantanati nelle sabbie mobili degli interessi di potere locale. Siamo destinati a morire soffocati dallo Stato Imperialista delle Multiutility?
Il problema è che nessun politico vuole alienare a se ed amici dell’opposizione una sedia imbottita quando verrà il giorno dei limoni neri e il popolo deciderà di scegliere i migliori per farsi risolvere i problemi esistenziale che questi asini hanno trasformato in personali. Abbiamo bisogno del fanciullo che urli IL RE E’ NUDO
Non molleranno mai le utilities. Ad esempio i teleriscaldamenti.
Con la scusa dell’ecologia (?), ti obbligano ad allacciarti al teleriscaldamento.
In alcuni casi è corretto ma in molti casi scopri che in realtà funziona a gas anche quello. Ma allora, come stanno in piedi?
Andando a fondo scopri che ti vendono l’energia ad un prezzo misterioso e complicato (binomio o trinomio) che è quasi sempre un po’ maggiore di quello del gas a parità di energia utile all’impianto. Ma se fanno almeno il 10% di cogenerazione, tutto il gas loro lo pagano come l’industria, cioè senza l’accisa, cioè a poco più di metà prezzo rispetto a quanto paga Pantalone. Lascio immaginare i margini di profitto che così si creano con questo generoso “regalo” sull’accisa del gas.
Sa un po’ di concorrenza sleale risparmiando sulle tasse.
Pensate che molleranno un osso così molto facilmente?
Non credo sia il margine facile ad elettrizzarli ma la possibilità di distruggere quel margine con un nido di termiti di parenti e procacciatori di voti, per conservare a sè e figlioli (o parenti stretti) confortevoli poltrone e relative prebende come badie e baronie medioevali. Più prosegue il sacco di risorse dei contribuenti più ci avviciniamo ad un confronto selvaggio, tipo lotte di clan in Sicilia o Campania. La punta dell’iceberg è la RAI ma il sottostante è quasi persin peggio.
Marco e Lorenzo hanno ragione da vendere – volete che i politici si falcino l’erba sotto i piedi, non saranno mica matti, ci vogliano altri che gliela rasano per benino e non la fanno più ricrescere.
una domanda.
E’possibile una class-action verso gli amministratori delle aziende municipalizzate che hanno compromesso lo sviluppo delle società quotate spremendo risorse e utili spesso inesistenti per soccorrere i bilanci in rosso dei comuni azionisti?