Lo Stato asociale e l’industria della povertà
Nell’immaginario collettivo di tanti italiani la Germania è il paese che per eccellenza funziona bene. C’è un bello Stato sociale, un’economia florida, nessuno evade il fisco e sentendosi parte di una comunità tutti vivono felici e contenti. Un simile quadretto idilliaco è spesso e volentieri conseguenza della barriera virtuale che si erge tra noi e una realtà straniera. A dire il vero non basta nemmeno conoscere la lingua per poter comprendere la diversa realtà che ci circonda, bisogna in qualche modo divenirne culturalmente parte. Solo così si incominceranno ad intravedere le falle del sistema, al di là di ogni feticismo dei dati e delle statistiche. Solo in tal modo, magari, eviteremo ancora di parlare della Repubblica federale come un esempio virtuoso in termini di spesa sociale.
L’occasione per questo post ci viene dal recente dibattito scaturito qui in Germania dalla proposta del governatore democristiano del Land dell’Assia, Roland Koch, secondo il quale sarebbe possibile battere la piaga dei parassiti percettori di sussidi sociali, obbligandoli a svolgere una qualsiasi attività di cosiddetta “pubblica utilità”. Beninteso, il problema esiste. Si calcola che nella sola regione di Berlino (sì, quella che vive alle spalle degli altri, essendo tecnicamente in bancarotta da anni) il 60% ottenga il sussidio proditoriamente. Così come è congegnato Hartz IV, erogato a disoccupati e a lavoratori con entrate molto basse, è d’altra parte un formidabile strumento di disincentivo al lavoro, tanto che l’ipotesi che l’entità dei contributi ad oggi in vigore venga tra qualche settimana aumentata ope iudicis dalla Corte Costituzionale di Karlsruhe è uno scenario da film dell’orrore. Come scriveva Frank Schäffler (FDP) qualche tempo fa sul blog della Initiative Neue Soziale Marktwirtschaft tale riforma degli ammortizzatori sociali voluta da Gerhard Schröder, pur partendo da obiettivi condivisibili, ossia la razionalizzazione del moloch welfaristico di stampo bismarckiano, ha prodotto un aumento delle uscite e non una sua diminuzione. E questo persino a fronte di un calo dei disoccupati nel biennio 2007-2008.
Tornando a Koch, la proposta in questione è tutto fuorché innovativa. Queste persone esistono già, sono circa un milione e seicentomila e ufficialmente non appaiono nelle statistiche quotidiane sul tasso di disoccupazione: nel gergo quotidiano si chiamano 1-Euro-Jobber. Al riguardo l’emittente televisiva ARD ha prodotto un eccellente reportage, dal titolo “Die Armutsindustrie”, l’industria della povertà. Per chi sa il tedesco qui il link alle tre parti (uno, due e tre).
In poche parole, dal momento che in passato troppe imprese tedesche hanno delocalizzato in Cina o nell’Est europeo e dal momento che lo Stato tedesco non si può politicamente permettere riforme che consentano una riduzione del costo del lavoro pena una guerra civile scatenata dai sindacati, si è deciso di utilizzare uno schema geniale. A pagare il conto è ovviamente colui che- per dirla con Bastiat- non si vede, ossia il contribuente. L’Agenzia federale per il lavoro manda il disoccupato da un’impresa convenzionata con lo Stato affinché costui possa compiere una sorta di attività di reinserimento o stage di formazione (sic) dai tre ad un massimo di dodici mesi, evitando così che rimanga con le mani in mano. Il disoccupato, già percettore di sussidio sociale, non instaura formalmente alcun rapporto di lavoro con l’impresa, ma di fatto è come se venisse assunto. In questo modo migliaia di società possono godere di manodopera a buon mercato pagata dallo Stato. Solo l’anno scorso l’Agenzia federale per il lavoro ha sborsato circa 7 miliardi per il pagamento di tali minime indennità (tra parentesi: chi è che contribuisce al dumping dei salari?) da versare ai malcapitati. Malcapitati che, come vedrete nel servizio, realizzano perfettamente l’assoluto nonsense insito in questo sistema. Molti non riescono neppure a capacitarsi del motivo per cui, se si manda un normale curriculum con la richiesta di essere impiegati si riceve un due di picche, mentre se si procede attraverso l’Agenzia federale il medesimo datore di lavoro è pronto a farti entrare in azienda…ma come “praticante”. Tutto ciò per dire che se questa è l’alternativa al tanto vituperato “modello mediterraneo”, ebbene no, noi davvero non ci stiamo.
A seguito di recenti chiaccherate con amici tedeschi posso confermare che tra i principali e attuali problemi è presente la piaga dei parassiti percettori di sussidi sociali. Questo sembra che sia dovuto ad un malcostume presente anche in germania, legato alla presentazione di falsi certificati medici nel momento in cui viene chiesto ai percettori di sussidio di presentarsi in un eventuale posto di lavoro.
Un altro grosso problema che si sta verificando in germania è l’abbassamento del livello qualitativo delle prestazioni sanitarie. Queste sono infatti pagate attraverso le assicurazioni le cui lobby sono talmente forti che riescono continuamente ad abbassare il prezzo del risarcimento alle strutture sanitarie senza però diminuire il costo pagato attraveerso la tassazione del cittadino.
Alle Welt ist Stadt, direi in tedesco maccheronico, e siccome non si capirà perché c’è almeno un errore di grammatica e perché è troppo idiomatico: tutto il mondo è paese.
Nel 2005 stetti 4 mesi a lavorare in Germania, in Westfalia, e mi accorsi, girando un po’ ovunque (credo di aver visto circa 30 città tedesche), di tre cose strane:
1) I treni sono spesso in ritardo, tanto che perdere un’ora per aspettare la seconda coincidenza mi capitava una volta la settimana. Solo nel Settembre 2005 i treni arrivavano sempre in tempo: i macchinisti volevano favorire il SPD alle elezioni. Tutto il mondo è paese. Cosa invece inspiegabile con la public choice: il sabato mattina, e solo il sabato mattina, i treni regionali sono così sporchi che mi sembrava di essere reimpatriato.
2) Tutta la Germania dell’Est sembra un cantiere. Probabilmente c’è più gente che lavora con soldi pubblici in Brandeburgo & Co ora che nella DDR.
3) Diversi abitanti dell’est del Mecleburgo-Pomeriana, che è l’equivalente tedesco della Sicilia Centrale come sottosviluppo, andavano a lavorare in Polonia, nella città di Stettino: meglio “solo” 1000 euro al mese (qualcosa di meno) che una disoccupazione enorme, creata dai sindacati.
La Germania socialmente funziona come l’Italia: forse ha solo meno parassiti sociali che esigono mazzette nella Pubblica Amministrazione, ma è una differenza di grado e non di struttura.
@Pastore Sardo
Assolutamente. I tuoi amici hanno capito quali sono i problemi principali. Di sanità mi riprometto di parlare la prossima volta.
@Pietro M.
Pietro. Ahimè è vero. C’è assai meno corruzione e un’adesione ferrea a regole spesso inutili. Dietro all’oro e alle pagliuzze, però, vengono fuori i mostri.
P.S.: Die ganze Welt ist ein Dorf.
Scusate ma non mastico il tedesco… però la citazione è forse “tutto il mondo è paese”?
Il problema tedesco, comunque, rimane e è un problema a livello europeo… già Bastiat (giustamente citato) denunciava la perversione dello stato socialista (oggi definito welfare state, in linguaggio politicamente corretto) che sarebbe andato a foraggiare parassiti e boiardi di stato attraverso la spoliazione legalizzata dei redditi (le tasse) volta non a sostenere la struttura minima a garanzia della società ma a remunerare una forte burocrazia a discapito del contribuente che, così facendo, tornava allo status di suddito: per dirla à la Bernier si assisterebbe a una restaurazione asiatica dove lo stato è padrone (al posto del sovrano) e il cittadino suddito.
Uff… è brutto pensare che buona parte del frutto del prorio lavoro finisca in nulla, nell’illusione keynesiana che per sostenere l’economia basti far scavare buche ai disoccupati per poi riempirle, invece che creare le condizioni per una vera crescita, sia della ricchezza nazionale sia dell’occupazione…
Rimane un fatto incontrovertibile.
Le casse dello Stato sono a posto, quindi, finchè lo sono, si possono permettere lo stato sociale.
Una cosa è sicura, però. Qualora il “SISTEMA” dovesse crollare (per qualsiasi motivo), i tedeschi sarebbero veramente con il culo per terra perchè non abituati a proteggersi dallo Stato. Anzi, una delle cose più evidenti per chi va in Germania è la totale fiducia (per poi lamentarsi dentro le mura domestiche) nei confronti del SISTEMA e, di conseguenza, la spontanea attitudine a “rispettarlo e tutelarlo”.
All’opposto dell’Italia, dove sin dalla culla senti tua madre e tuo padre parlare di come farsi la casa di proprietà, di come “nascondere” i risparmi dalla voracità del SISTEMA e via cantando.
Il mio è un paradosso ma nell’ipotesi di un default statale, si potrebbe dire che l’italiano medio resisterebbe più a lungo del tedesco medio perchè impara sin da piccolo a non contare sullo STATO.
@azimut72
Condivido il ragionamento Azimut. Che le casse dello Stato siano a posto non ci giurerei. Nulla che possa neanche lontanamente essere paragonato con l’Italia, d’accordo, ma anche la Germania si sta avviando su una slippery slope assai pericolosa. Siamo a livelli di deficit e di debito pubblico tra i più alti dal dopoguerra.
Tocqueville diceva che gli americani (del 1830) lasciati da soli riuscirebbero a ricostruire la società ex nihilo.
Ora scopro che gli americani del XXI secolo sono gli italiani: non l’avrei mai sospettato, ma la teoria mi convince. 🙂
AHAHAHAHAHAH sarebbe da sganasciarsi dalle risate. Oppure da piangere.
Credo che il collasso strutturale all’Europa, non glielo tolga nessuno.
Pietro ovviamente mi riferivo al post e non al tuo commento 🙂
@Giovanni: il post dice tutte cose vere anche se non ne concordo su un giudizio e una sfumatura. Il giudizio é un assunzione che non condivido: “in passato troppe imprese tedesche hanno delocalizzato in Cina o nell’Est europeo… e lo Stato tedesco non si può politicamente permettere riforme che consentano una riduzione del costo del lavoro”. Innanzitutto, “troppe” rispetto a chi o che cosa? O girata in altro modo, per colpa di chi? Su spinta dello Stato o del mercato? La riorganizzazione produttiva della Germania post 2001 é la base del suo “successo” presente e futuro. La ragione per cui essa resta competitiva sui mercati internazionali e una delle ragioni per cui essa non necessita di riduzioni del costo del lavoro. Ecco qualche dato da un recente contributo di Commerzbank che ho di fronte a me. Aumento del salario orario dal 2000 al 2008: Ger 2%, Ita 3,5%. Aumento della produttività dal 2004 al 2009: Ger 6%, Ita sotto l’1%. Aumento del CLUP: Ger -0.8%, Ita +3.2%.
Ora le tue assunzioni sembrano suggerire che le cause politiche di Harzt IV siano state la delocalizzazione (indotta o spontanea) e l’opposizione dei sindacati a ridurre il CLUP per altra via.
Che Harzt IV sia una porcata é chiaro, ma a leggere i dati, é più facile che la Germania abbassi le tasse sul lavoro ed elimini in cambio gli 1-Euro jobs, prima che l’Italia esca dalla morsa di bassa produttività, bassi salari e articolo 18. Non credi?
No, ferma, ferma, deve esserci stato un “Missverstaendnis”. In maniera volutamente paradossale ho detto che per la Germania è stato politicamente più accettabile, di fronte alla (e non a causa della) delocalizzazione massiccia, provvedere a sussidiare in questo modo le imprese, piuttosto che procedere ad una riduzione del costo del lavoro ex lege.
Io non intendo affatto assolvere l’Italia, ci mancherebbe. Il mio obiettivo è solamente far riflettere sul fatto che spesso non è tutto oro quel che luccica.
Sul virtuosismo del “modello tedesco”, possiamo discutere. Ci sono (stati) pro -crescita- e contro -squilibri macroeconomici-. Spero di parlarne (insieme con un post sulla sanità) molto presto.
Vorrei dare un’informazione: il debito della Germania è l’80% del PIL, in termini assoluti il terzo al mondo, dopo quello di USA e Giappone.
Altro che “le casse dello Stato sono a posto…”
Altro che “non possa neanche lontanamente essere paragonato con l’italia…”
Grazie per la giusta precisazione. Rimane valido quanto detto da me nel commento più sopra. A presto, Gb