10
Gen
2013

L’Italia non è un Paese civile

Un imprenditore e il responsabile di una comunità per tossicodipendenti sono stati assolti dall’accusa di evasione fiscale, causata dal mancato pagamento di debiti da parte della Pubblica Amministrazione (PA).

Il Giudice ha stabilito che “Se la pubblica amministrazione non paga i propri debiti verso i fornitori, non può poi pretendere che questi, in crisi anche per la mancanza di quei soldi nelle casse, vengano condannati perchè non hanno versato le tasse dovute”.

Giusto: possiamo dunque illuderci che l’Italia si stia trasformando in un Paese civile? No. Un Paese civile è infatti un Paese “rispettoso dei diritti e delle esigenze altrui”, dove chi ne fa parte viene appunto trattato quale civis, dal latino, cittadino. In questo caso, non è evidentemente così.

Le Asl, infatti, continuano a non pagare, sebbene la direttiva dell’Unione europea che stabilisce il pagamento a 30 giorni risalga al 2000. Del resto, in Italia è stata recepita solo a novembre, evidentemente un periodo di tempo troppo recente per permettere alla PA di adeguarsi. Nonostante ciò, i due privati dovranno comunque pagare le tasse. Questo è giusto: si può discutere sull’ammontare delle tasse che strozzano e ostacolano ogni attività imprenditoriale, ma se per legge vanno pagate, la legge va fatta rispettare.

A questo punto, però, è lecito chiedersi: perché va fatta rispettare solo nei confronti del privato e non anche dello Stato? Per quel che è dato sapere, non è stato riportato l’ammontare di un’eventuale sanzione al pubblico, sebbene sia  palese che non ha rispettato il limite di tempo previsto dalla legge. La PA, quindi, non solo non ha pagato, ma ha anche causato un ingente danno economico a terzi, al punto da costringerli a diventare inadempienti pur di sopravvivere. Tuttavia, ora quest’ultimo dovrà comunque versare le tasse, oltre a sanzione e interessi. Con una mano si da – il riconoscimento del comportamento omissivo da parte delle Asl e la mancata condanna – dall’altra si toglie – sanzioni e interessi da pagare restano e vanno onorati. Se non fosse disponibile il denaro a causa delle mancate entrate, solo uno dei due attori in gioco rischia di fallire e dover chiudere, dando origine a un circolo vizioso per cui escono dal mercato le imprese e attività efficienti e rimangono quelle che non lo sono.

Questo non è ovviamente l’unico esempio di come lo Stato trasferisca sui privati le proprie inefficienze: l’Istituto Bruno Leoni ha pubblicato un libro, Sudditi, sullo squilibrio dei rapporti tra Stato e cittadino; più recentemente, ne è un ulteriore prova il redditometro, basato sul principio che i cittadini sarebbero colpevoli – e non innocenti – fino a prova contraria; il caso Arenaways vs Trenitalia rappresenta un’altra dimostrazione: l’incumbent statale ha infatti adottato comportamenti immotivatamente dilatori e ostruzionisti con cui è riuscito a ritardare l’ingresso  nel mercato del potenziale concorrente, e ha poi posto condizioni talmente penalizzanti da portarlo al fallimento. Nonostante questo comportamento ingiustificatamente ed evidentemente discriminatorio, le sanzioni nei confronti del pubblico sono state irrisorie, talmente basse che è difficile illudersi che possano impedire un atteggiamento analogo in futuro.

Questo accade a causa dei conflitti di interesse e delle rendite politiche inevitabili quando chi giudica è lo stesso attore che viene giudicato: del resto, come insegnava il premio Nobel Buchanan, neanche lo Stato è orientato alla ricerca del bene comune, ma alla massimizzazione del proprio interesse, esattamente come accade nel mercato. La differenza è che nel mercato chi non rispetta tale principio viene punito tramite il  fallimento, mentre nello Stato questo non accade; anzi, causa l’uscita di privati che eppure sarebbero efficienti, per cui i mancati fallimenti pubblici hanno conseguenze ben più gravi di quelli privati.

Il primo passo per vivere in un Paese veramente civile è quindi quello di ripensare il ruolo politico su basi liberali, ossia sui principi della concorrenza e della parità di trattamento tra tutti gli attori in gioco.

 

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