L’ironica passione della sinistra americana per Thomas Piketty—di Guy Sorman
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Atlas Network.
Capital in the Twenty-First Century (in tutto 700 pagine!), appena pubblicato dall’economista francese Thomas Piketty, è già diventato un best-seller del New York Times. L’autore, che attualmente sta girando l’America per presentarlo, è diventato una star e tutti i principali media hanno segnalato il suo libro. L’editorialista del New York Times, Paul Krugman, lo ha definito il libro più importante degli ultimi dieci anni.
Perché, allora, Piketty, il quale in Francia è conosciuto principalmente per essere il consigliere economico del Partito Socialista, viene accolto come se fosse il Messia negli Stati Uniti (dove, tra l’altro, una volta insegnava al MIT)? Il titolo dell’opera di Piketty è ovviamente una citazione di Karl Marx, proprio come la tesi che porta avanti nel libro, ma in una versione più moderna. Piketty dimostra, con sorprendenti statistiche che coprono gli ultimi due secoli e grazie anche ad aneddoti storici e letterari, che i detentori di capitale riescono sempre – a parte durante le guerre – ad accrescere il proprio patrimonio più velocemente degli operai e degli imprenditori. L’accumulazione del capitale nelle mani di una minoranza crea una aristocrazia di rentier, persone che vivono grazie ai redditi derivati dai loro investimenti e che è improprio definire imprenditori, dal momento che non creano più nulla.
Il conflitto tra investimento “passivo” e impresa conduce, secondo Piketty, a un esaurimento del capitale. Marx immaginava che questo conflitto avrebbe inevitabilmente portato alla morte del capitalismo, destinato così ad essere rimpiazzato dal socialismo. Piketty non condivide questa previsione: la macchina capitalista, che non può essere paragonata a nessun’altra quando si parla di creazione di benessere, può – ci dice l’autore – essere salvata dal meccanismo di redistribuzione del reddito. Lo “Stato sociale”, per usare il vocabolario di Piketty, potrebbe riconciliare il mondo degli affari e l’efficienza del mercato con la “giustizia sociale”. Questo meccanismo di redistribuzione, tuttavia, oggi è prossimo al tracollo, a causa dei valori altissimi raggiunti dalla tassazione sui redditi. Come suggerisce Piketty, allora, bisognerebbe tassare fortemente il capitale per poter finanziare lo Stato sociale. E, dal momento che il capitale non conosce i confini nazionali, l’imposta deve essere globale.
In Europa le idee di Piketty sono state accolte tiepidamente, perché la tassazione dei capitali in Germania, Spagna e Francia ha già causato una fuga degli stessi. La priorità della politica europea, inclusa quella della sinistra, non è lo sviluppo dello Stato sociale, ma una sua ridefinizione e limitazione. Negli Stati Uniti, al contrario, dove le tasse per i contribuenti rimangono relativamente basse, i Democratici sono alla ricerca di un modello che li distingua maggiormente dai Repubblicani, un modello che riesca a conciliare eguaglianza di reddito e capitalismo. Il libro di Piketty permette loro di rimanere fedeli a una economia di mercato pur volendo aumentare le tasse. Questo spiega il successo di Piketty, che ha anche il “pregio” di essere francese. (I libri che spiegano come le donne francesi riescano a rimanere magre sono stati degli enormi successi editoriali in America). Le teorie di Piketty, inoltre, si sposano bene con il movimento Occupy Wall Street, quello dello slogan “Siamo il 99%” (che, dobbiamo supporre, viene sfruttato dal restante 1%).
Esiste, tuttavia, una grande lacuna nell’opera di Piketty, come è stato fatto notare da molti economisti americani che appartengono alla scuola del liberalismo classico: in nessuna sua parte vengono considerate le cause della crescita economica e il ruolo-chiave di questo 1% (che negli Stati Uniti è costituito per la maggior parte da imprenditori e non da rentier).
Per spiegare perché è inevitabile la trasformazione degli imprenditori in rentier improduttivi, Piketty ricorre a una nuova interpretazione di Marx. Le guerre e le crisi globali – gli “shock”, per dirla con le parole usate dall’autore – spazzano via la ricchezza accumulata, e permettono così ai veri imprenditori di iniziare ad accumularne di nuova (Piketty riporta a questo proposito, in modo convincente, il caso delle due guerre mondiali). Un’analisi più onesta e meno ideologica, invece, mostrerebbe che, senza considerare eventi così disastrosi, è l’innovazione – o la “distruzione creativa” descritta da Joseph Schumpeter – ad aprire il campo ai nuovi imprenditori, che così subentrano ai rentier. Non vi è pertanto bisogno degli shock descritti da Piketty.
A prima vista le statistiche di Piketty possono colpire, ma non possono essere prese davvero sul serio. Ad esempio, i grafici sul reddito lordo non tengono conto della redistribuzione e dei programmi di assistenza. I grafici sulla diseguaglianza susciterebbero molto meno clamore se li avesse calcolati – come si fa di solito – considerando il reddito netto dopo la redistribuzione. Non facendo così, si distorcono seriamente le condizioni economiche reali.
Piketty, inoltre, sembra poco propenso ad ammettere che il solo reddito, a prescindere da come viene calcolato, non può rappresentare interamente la realtà sociale: tutti noi traiamo vantaggio dal progresso in varie aree – sanità, trasporti, tecnologie per i consumatori – indipendentemente dal nostro livello di reddito. Se il progresso nella produttività abbassa i prezzi, i redditi reali aumentano.
Il libro di Piketty ha altri difetti. L’autore non considera mai se in qualche misura le diseguaglianze sono necessarie alla crescita in una economia di mercato. (Dopo tutto le persone sono diverse e alcuni sono meglio di altri nel servire i consumatori). Accusa, invece, gli economisti di “fidarsi troppo dei modelli matematici e di non capire le strutture profonde del capitale e della diseguaglianza”. Ignora, però, il fatto che questi economisti, che egli non gradisce, hanno identificato i veri fattori della crescita – come i diritti di proprietà e il ruolo delle leggi – basandosi su osservazioni empiriche. Senza i modelli economici basati sul libero mercato che lui sdegna, paesi come la Cina, l’India e il Ghana non avrebbero avuto la spettacolare crescita che abbiamo visto in questi anni – e, soprattutto, la parte più povera delle loro popolazioni avrebbe avuto molte meno possibilità.
Dopo tutto, Piketty, come ideologo, non aggiunge niente di nuovo alla religione marxista; tuttavia, il libro rimane una affascinante raccolta di aneddoti storici. Eccezionale è la sua spiegazione del perché i francesi siano così affascinati dalla Rivoluzione Francese e da Napoleone: quello è stato – dimostra Piketty – un periodo di salari relativamente alti e di rendite basse grazie alla redistribuzione dei beni della Chiesa e alla mobilità dei lavoratori per la guerra. (Se poi questo sia stato un buon modo per creare benessere, è un’altra storia).
Eppure il successo americano di Piketty non si deve al suo talento di storico. La sinistra americana sta cercando di costruirsi una nuova ragion d’essere, e spera di averla trovata in Francia. I socialisti francesi apprezzeranno l’ironia.
Guy Sorman è un filosofo, economista e intellettuale francese. È autore di numerosi libri, tra i quali Economics Don’t Lie ed Empire of Lies. Ringraziamo Atlas Network per la gentile concessione alla pubblicazione di questo articolo.
Divertente anche il commento di Kenneth Rogoff: http://www.project-syndicate.org/commentary/kenneth-rogoff-says-that-thomas-piketty-is-right-about-rich-countries–but-wrong-about-the-world
Se venisse adottata un’imposta patrimoniale globale, questa si risolverebbe essenzialmente in un trasferimento di risorse dai paesi “ricchi” a quelli “poveri”; in pratica gli ammiratori americani di Piketty, compresi quelli di occupy Wall Street si ritroverebbero tra quelli che devono “dare” piuttoscto che tra quelli che devono “ricevere” 🙂