L’imprenditorialità negata: nebbie e inganni dell’ideologia. Parte 3
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo De Filippis.
Il modello fordista-colcosiano: origini e applicazioni
Tra gli errori commessi dal Partito Democratico e dal governo di Matteo Renzi (2014-2016), la sostanziale negazione della funzione di rappresentanza dei sindacati fu uno dei più gravi. Nella strategia di comunicazione renziana, tale negazione (e l’ostentata svalutazione del confronto con le organizzazioni sindacali medesime) è servita ad accreditare l’immagine di un esecutivo decisionista, fortemente innovativo, focalizzato sulla soluzione dei problemi e capace di rapportarsi direttamente al Paese. Il depotenziamento di assemblee elettive (i Consigli regionali e provinciali) in momentanea crisi di credibilità e il contestuale disconoscimento del ruolo delle organizzazioni dei lavoratori nella messa a punto delle politiche in materia di lavoro sono stati funzionali a una precisa impostazione narrativa: si cambia registro, l’Italia riparte, basta con la melina, non ci facciamo fermare dalla burocrazia, ecc..
L’articolo 18 dello statuto dei lavoratori è diventato quindi un totem da abbattere -o, dall’altra parte, da difendere- ad ogni costo, indipendentemente dalla sua effettiva rilevanza sul terreno della salvaguardia di occupazione e diritti.
Tra i numerosi direttori del personale di grandi aziende con cui mi ero all’epoca confrontato in ordine alla specifica questione, non ve ne fu uno -dico uno- che l’avesse considerata veramente importante e prioritaria. Con buona pace degli ideologi convinti che le aziende mirino primariamente allo sfruttamento del lavoratore e all’estorsione del “plusvalore assoluto” (mediante basso salario, intensificazione della prestazione e restrizione di diritti), riscontrai direttamente che punto d’attenzione prevalente era invece la fidelizzazione, la formazione e la valorizzazione delle risorse umane.
Dando per assodata la sua irrilevanza strategica dal punto di vista delle grandi imprese private, l’articolo 18 diventava centrale all’interno d’una controversia di tipo politico-ideologico circoscritta alla sinistra e ai sindacati, non già per i termini e le implicazioni reali della questione del mantenimento o abolizione dell’articolo medesimo ma per i significati simbolici e gli schemi narrativi potenzialmente coinvolti o artatamente evocati.
Si trattò sostanzialmente di performance d’illusionismo politico-ideologico avulso dalla realtà.
Il Job Act del governo Renzi, nei suoi contenuti, se si prescinde dall’abolizione dell’articolo in questione sconsideratamente esibita come trofeo, non si discostava, nel suo impianto, dall’orientamento consolidato della sinistra ministerialista, caratterizzato dall’adozione del lavoro dipendente a tempo indeterminato come modello unico.
Infatti, erano abolite, in conformità a tale modello, tipologie contrattuali (ad esempio, il lavoro a progetto) che erano adatte a inquadrare forme di collaborazione non riconducibili, per loro natura, al rapporto di lavoro subordinato a tempo indeterminato.
Al di là delle schermaglie propagandistiche e delle dispute ideologiche, il Job Act e la CGIL (Confederazione Generale Italiana del Lavoro), condividevano un orientamento di fondo: la riconferma del posto di lavoro fisso come paradigma fondamentale di progettazione dei rapporti sociali e di strutturazione del sistema delle tutele.
Si rimaneva dunque all’interno di una versione destoricizzata e semplificata del modello fordista americano incentrato per l’appunto sul posto di lavoro e sul rapporto lavorativo a vita, integrato tuttavia con una variante di estrazione sovietica, il colcos, che costituisce nell’esperienza storica dell’edificazione del socialismo, la gabbia socio-tecnica nella quale è inglobato e dissolto il lavoro autonomo dei contadini.
La logica del posto di lavoro (nella versione originale fordiano – tayloriana, criterio base di un sistema organizzativo- gestionale di successo caratterizzato da produzione in serie, divisione di produzione e progettazione, lavoro esecutivo in frantumi, standardizzazione e coordinamento gerarchico) si combina con la logica del colcos, forma associativa apparentemente autoregolata ma in realtà caratterizzata da coercizione, estraneazione ed etero direzione delle attività.
Com’è noto, il colcos (o azienda agraria collettiva) era una cooperativa fittizia perché l’associazione alla stessa era diventata nel tempo obbligatoria, dal 1927 in base a orientamento tendenziale e nella prima metà degli anni ‘30 in base a strategia formale.
La connotazione dirigistica e coercitiva della costruzione dell’economia colcosiana è determinata dai seguenti fattori e circostanze: direttive e disposizioni centralistiche in materia di collettivizzazione forzata seguite da intervento poliziesco repressivo, in caso d’inosservanza; il fatto che lo statuto dei colcos era stabilito da leggi o decreti e la loro direzione operativa era indirizzata e controllata dai Soviet locali e, soprattutto, dal Partito.
Sul piano operativo, i prezzi d’acquisto o vendita di prodotti/servizio e mezzi di produzione, gli obiettivi e i programmi di produzione, i metodi lavorativi e i sistemi di gestione dei colcos, inclusa la remunerazione dei suoi membri, erano stabiliti dal partito-Stato, all’esterno del corpo sociale e del suo organismo deliberativo, l’assemblea dei soci.
La condizione del contadino colcosiano, al quale sono negate sia la sicurezza del salario riconosciuto invece al contadino dipendente delle fattorie statali collettive (i sovcos) che la possibilità di ottenere il passaporto necessario per la migrazione verso le città, era per diversi aspetti più simile a quella del servo della gleba che a quella del coltivatore diretto indipendente, essendo i margini d’autonomia sociale e lavorativa ridotti ai minimi termini. Peraltro, il servo poteva almeno legittimamente sperare nella benevolenza e nella protezione del signore feudale; invece, il contadino colcosiano era rinchiuso senza speranza in una trappola priva di uscita.
La collettivizzazione dell’agricoltura in Unione Sovietica costituisce una delle più gigantesche operazioni d’ingegneria sociale della storia. Con conseguenze catastrofiche per i contadini e l’economia (agricola e non). Sull’argomento, si rinvia all’ampia sebbene misconosciuta documentazione disponibile e ci si limita a rimarcare il seguente dato saliente: il colcos sovietico è stato un immenso laboratorio incentrato sulla despecificazione dell’individuo e del suo lavoro. Per despecificazione, s’intende lo svuotamento di scopo e di senso, cioè la tendenziale riduzione a entità astratta. Nel colcos, il contadino e la sua opera diventano rispettivamente individuo e lavoro senza qualità. Il meccanismo della despecificazione e dell’astrazione su base di massa definisce un vero e proprio archetipo di dissoluzione pianificata del lavoro autonomo (estendibile dalle campagne ad altri ambiti sociali), che non si esaurisce nell’esperienza data e non scompare con il sistema e il regime che lo hanno generato ma sopravvive per occasionalmente ripresentarsi, con variazioni e adattamenti, nelle situazioni più diverse.
Orbene, quello fordista – colcosiano è il modello emergente dalla lunga pratica di governo della sinistra italiana e dalla esperienza collaterale del sindacalismo CGIL.
Il modello è virtuale ma il suo impatto è reale. Infatti, dal governo Prodi in poi, esso è diventato il paradigma dell’azione politica e progettuale della sinistra ministerialista in materia di lavoro e rapporti sociali, configurandosi nuovamente come dispositivo d’annientamento del lavoro autonomo. Vediamo come.
La digitalizzazione spesso imposta ope legis e guidata dall’alto senza coinvolgimento attivo di cittadini e portatori d’interesse nella messa a punto delle soluzioni (identità digitale, fatturazione elettronica, tracciamento transazioni commerciali e finanziarie, limitazioni all’uso del contante, ecc.), la statalizzazione della contabilità aziendale (ogni transazione è registrata nell’apparato centrale e la stessa fattura viene in pratica ora emessa dall’Agenzia Entrate), l’utilizzo massiccio e mirato della leva fiscale (il combinato disposto di elevate aliquote e, in caso di ritardo negli adempimenti, di sanzioni e interessi ad andamento iperbolico è un carico fiscale- contributivo difficilmente sopportabile) e il monitoraggio pervasivo- molecolare dell’Agenzia delle Entrate (autoreferenziale centro di potere controllato continuativamente dalla sinistra, epicentro di un dispositivo panoptico a connotazione dirigistica senza paragoni nel mondo occidentale) prefigurano, in un contesto socio-economico molto diverso da quello sovietico ma avvalendosi dei più avanzati ritrovati tecnici, la riedizione aggiornata del colcos.
Non è questa la sede dell’approfondimento dei livelli di consapevolezza storica e della dimensione psico-sociale (l’autocoscienza e il vissuto di fautori e follower) dell’operazione di recupero e riproposizione; qui si intende focalizzare l’attenzione sul fatto che il colcos, assieme alla iper semplificata versione del fordismo, costituisce un driver culturale dell’azione della sinistra italiana (da Pierluigi Bersani a Matteo Renzi, da Enrico Letta a Roberto Speranza, da Susanna Camusso a Maurizio Landini), nonché una sorta di fissazione della mente che inibisce l’apprendimento e si traduce in irrefrenabile coazione a ripetere. Con implicazioni rilevanti sui rapporti economico-sociali.
Infatti, milioni di lavoratori autonomi si illudono di essere tali ma in realtà sono progressivamente inglobati in una gabbia virtuale costituita da vincoli e regole di vario genere, dove il controllo individuale delle variabili socio-economiche influenti su attività e risultati è, a differenza di quanto accade negli altri sistemi occidentali ad economia di mercato, poco più che apparente mentre la sorveglianza e la surdeterminazione ad opera del sistema centrale, camuffate dietro enunciati etico- politici edificanti come il contrasto dell’evasione fiscale e del precariato, sono reali e ad incidenza programmaticamente crescente.
Individuate le coordinate del progetto complessivo, occorre rilevare pure che intanto, nella situazione contingente, il Job Act e la disputa ideologica connessa hanno depistato l’attenzione politico-mediatica e hanno impedito di innovare il sistema. Quindi non è stato fatto quello che si doveva fare: spostare il focus della riflessione e delle tutele dal “posto” al “lavoratore”.