L’imprenditorialità negata: nebbie e inganni dell’ideologia. Parte 2
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo De Filippis.
Il lavoro dipendente quale modello unico ai tempi del Governo Prodi
Il rilevante aumento (dal 18,2 al 23,5%) dei contributi previdenziali a carico dei lavoratori parasubordinati stabilito dalla legge finanziaria 2007 è stato dichiaratamente indirizzato ad avvicinare al trattamento contributivo dei lavoratori dipendenti quello della variegata categoria: lavoratori a progetto e piccoli imprenditori.
Il lavoro dipendente quale modello di riferimento tendenzialmente esclusivo ha rappresentato un’idea guida della finanziaria 2007, della finanziaria 2008 e della complessiva azione del governo Prodi. L’atteggiamento governativo nei confronti dei vari soggetti sociali è stato definito in base al criterio della loro maggiore o minore integrabilità in questo modello. Il dibattito e i provvedimenti in materia di lavoro precario rivelano l’applicazione operativa del criterio.
E’ interessante notare che nelle posizioni attuali dei partiti di sinistra e del movimento sindacale sull’argomento del lavoro “precario” è rilevabile un elemento di novità rispetto all’approccio metodologico lungamente adottato, nel secolo scorso, dal Partito Comunista Italiano e dalle grandi organizzazioni sindacali nei confronti di categorie diverse dalla classe operaia ma potenzialmente interessate all’alleanza con la stessa. L’interpretazione di bisogni e interessi di queste categorie (i braccianti, i contadini coltivatori diretti, gli artigiani, i piccoli imprenditori, ecc.) avveniva (o si riteneva dovesse avvenire, almeno in termini di dichiarazione programmatiche) a partire dal riconoscimento e dalla valorizzazione della loro specificità. In altre parole, la conoscenza delle concrete condizioni sociali e di produzione era ritenuto il presupposto di azioni politiche di tutela e alleanza.
Ai giorni nostri, il tema del lavoro “precario” è stato invece affrontato a partire dalla negazione di ogni specificità. Infatti, non è stato compiuto nessuno sforzo di comprensione di situazioni e diversità ed è stato delineato un orientamento politico-legislativo alquanto originale: i lavoratori “precari” dovrebbero essere tutelati attraverso la loro abolizione. Ovvero, sulla base di statalismo dirigistico, essi devono diventare dipendenti o sparire.
Occorre dire che il concetto stesso di “lavoro precario” è inidoneo a svolgere una funzione euristica ed esplicativa, dal momento che non denota concrete condizioni e peculiarità, sul piano economico-sociale. Si tratta di un concetto polisemantico (rinvia a diversi significati), dal contenuto empirico alquanto indeterminato, che nell’uso corrente sostanzialmente assolve una funzione valutativa, in base alla mera classificazione del rapporto giuridico- contrattuale e all’assunzione acritica del primato del lavoro subordinato.
A farla breve, il concetto non risulta particolarmente utile alla conoscenza di fenomeni concreti: di fatto, tende a sostituirla piuttosto che a favorirla. Assolve una funzione sul terreno della persuasione retorica ma ha scarso valore su quelli dello sviluppo della conoscenza empirica e della gestione efficace di casi e situazioni.
Nella realtà, non esistono lavoratori precari ma soggetti con caratteristiche specifiche (condizioni operative, funzioni, esigenze, attese) differenti e difficilmente unificabili, meno che mai sulla base del riferimento esclusivo al tipo di rapporto giuridico – formale: l’operatore di un call center, il progettista di siti web, il lavoratore stagionale del settore agro-alimentare o del turismo, il lavoratore socialmente utile di un Comune, l’operatore di una casa di riposo per anziani, la badante, ecc.. La tutela, la valorizzazione e la rappresentanza di questi soggetti presuppongono percorsi di conoscenza e pratiche sociali in grado di confrontarsi con le diverse realtà particolari e di incidere su di esse.
Occultare la questione dell’intercettazione (e rappresentanza) di specificità e differenze, nelle nebbie di discorsi generali sul risarcimento sociale, significa esorcizzare il problema e fare opera di mistificazione, inducendo a credere che si intende fare una cosa, tutelare i lavoratori “precari”, mentre se ne fa un’altra, la difesa corporativa del lavoro dipendente a tempo indeterminato.
L’instabilità, la inadeguata riconoscibilità sociale, le insufficienti tutele e le carenze di rappresentanza che caratterizzano la situazione dei lavoratori atipici non si eliminano affermando per decreto legge il primato del lavoro dipendente!
Un mutamento di approccio riconducibile alla nuova trattazione delle dicotomie produttore-dipendente e economia reale-virtuale può essere rilevato nelle discussioni sulla tassazione del lavoro e sull’opportunità di abbassarla.
Sembra che il lavoratore dipendente paghi troppe tasse e che una parte eccessiva della ricchezza da lui prodotta gli sia sottratta attraverso l’imposizione fiscale e contributiva. Cosicché un taglio di questa imposizione potrebbe consentire di ridargli, in termini retributivi, una parte di ciò che ha prodotto. In verità, non è detto che le cose stiano così; anzi, non stanno per niente in questi termini, in molti casi.
Occorre subito puntualizzare, in ordine alla questione, che le imposte e i contributi sul lavoro dipendente non sono pagati dal lavoratore che ne diventa titolare. Innanzitutto, per l’ovvia e non secondaria considerazione operativa che l’obbligo del pagamento è in capo non già al lavoratore ma al sostituto d’imposta, impresa o ente, che si deve dotare o avvalere di strutture e procedure apposite più o meno complesse e onerose, in funzione della dimensione organizzativa. In secondo luogo, per la considerazione ancor più sostanziale che il controvalore, in termini monetari, di tasse e contributi è dovuto all’Erario e all’INPS, a prescindere dalla effettiva generazione del valore economico corrispondente.
Lo Stato pretende e incassa imposte e contributi inerenti al lavoro a prescindere dal fatto che la ricchezza sociale equivalente sia stata realmente generata. Questo dato oggettivo ha due rilevanti implicazioni: l’appostamento di imposte e contributi sul lavoro nella contabilità pubblica e dell’INPS non è un riflesso fedele dell’economia; la produzione del valore minimo indispensabile o il reperimento delle risorse addizionali necessarie all’assolvimento dell’obbligazione fiscale e contributiva, non sono responsabilità del lavoratore dipendente (singolarmente o come categoria) ma del datore di lavoro. C’è di più. Non è affatto detto che, a fronte dell’avvenuto pagamento (all’Erario, all’INPS e all’INAIL) e dell’automatica assegnazione di titolarità (al lavoratore) di imposte e contributi, abbia realmente avuto luogo il sottostante processo di generazione di valore.
In sintesi, attraverso il concreto adempimento di parte datoriale, lo Stato e il lavoratore ottengono rispettivamente incasso e intestazione di risorse indipendentemente dalla reale creazione di valore.
Nella Pubblica Amministrazione, in particolare, non c’è affatto corrispondenza di trasferimenti finanziari, titolarità degli stessi e generazione di valore. E pure all’interno dell’impresa, questa corrispondenza non è detto che vi sia, come i numerosi casi di crisi aziendale attestano.
Non è questa la sede per sviluppare compiutamente il discorso sulla divaricazione tra rappresentazione contabile ed economia reale. Ci si limita qui a rimarcare che in ordine al lavoro dipendente a tempo indeterminato e al cosiddetto risarcimento sociale è stata elaborata una vera e propria retorica, cioè una narrazione congegnata e divulgata allo scopo di occupare spazio politico-mediatico (intestazione di tematiche, propagazione di schemi narrativi) e manipolare le coscienze facendo credere ciò che non è, vale a dire la sussistenza di un ruolo attivo e diretto del lavoratore dipendente in materia fiscale. Tale retorica è inutile e controproducente ai fini della visualizzazione, della decodificazione e del potenziamento dei processi reali di produzione di valore.
Il riferimento all’economia classica e a quella marxiana consentirebbe di uscire agevolmente dalle nebbie della mistificazione, mettendo in risalto la premessa fondamentale che per distribuire, occorre produrre. E che per ridistribuire in base a criteri di effettiva giustizia sociale, occorre anche tener conto in qualche modo di collocazione e contribuzione all’interno dei processi produttivi reali.
Senza ancoraggio all’economia reale (processi di produzione della ricchezza sociale e figure coinvolte) e in mancanza di criteri idonei di rilevazione e riconoscimento degli apporti alla stessa, operazioni di apparente ridistribuzione (magari ispirate a un egualitarismo manieristico e modaiolo o dichiaratamente livellatore) possono implicare e nascondere accentuazioni di asimmetrie e iniquità, con ripercussioni negative sugli output dell’intero sistema economico, oltre che sulla visibilità del suo funzionamento concreto. Ancora una volta, si può costatare che il prisma dell’ideologia comporta immagini distorte o addirittura capovolte della realtà oggettiva.
Proprio nel quadro di una visione ideologicamente deformata dei rapporti economici e sociali, si colloca la demonizzazione tendenziale dell’individualismo economico.
L’impresa è ritenuta in se stessa una devianza sociale a malapena tollerata; infatti, la gestazione e il testo finale del decreto legge Vincenzo Visco – Pierluigi Bersani del 2006 e la connessa circolare applicativa dell’Agenzia delle Entrate riflettono integralmente e inequivocabilmente l’avversione di origine sovietica per l’iniziativa privata e la diffidenza esplicita del governo Prodi per l’apertura di una partita IVA.
Di conseguenza, il lavoratore autonomo è trattato come un’anomalia sociale da limitare e contrastare. Sebbene proprio nella sua attività risiedano, per ragioni costitutive (ove non si tratti di mera finzione contrattuale), attenzione ai valori prodotti e propensione al loro incremento. Se non altro, per la circostanza che questo lavoratore, per assolvere gli obblighi fiscali e contributivi, deve produrre, vendere e incassare. Insomma, esso deve stare sul mercato, cercando clienti interessati ai propri prodotti e servizi.