Licenziamenti facili e articolo 18
La norma che faciliterà i licenziamenti non è ancora stata scritta, ma solo annunciata. Non si sa quindi come sarà tradotta in legge ed è prematuro qualsiasi commento; si tratterebbe di un puro processo alle intenzioni. Tuttavia, sembrano condivisili le paure che tale misura, se concepita come facilità di licenziare nelle sole situazioni di crisi, si tradurrebbe nel breve termine in un aumento della disoccupazione e non in una maggiore propensione degli imprenditori all’assunzione (Non si può negare l’utilità di questa misura, ma rispetto a finalità altre dalla creazione di nuovi posti di lavoro. Piuttosto, sarebbe utile ad evitare quei fallimenti causati anche dall’obbligo di versare l’Irap, poiché questo permane anche nei momenti di sofferenza dell’impresa. Nel calcolo della base imponibile dell’Irap rientra parzialmente anche il costo del lavoro e, pertanto, maggiore è il numero dei lavoratori e più alto sarà il valore dell’imposta da versare; consentendo all’impresa di ridurre il numero dei lavoratori durante la crisi, ne conseguirà una diminuzione dell’imposta dovuta).
Ridurre le rigidità del mercato del lavoro italiano è idea sacrosanta, ma l’intervento deve avvenire a livello sistemico, con l’abrogazione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (S.L.). Gli effetti nocivi della presenza di questo articolo nel nostro ordinamento sono spesso ignorati.
Innanzitutto, abrogando l’articolo 18 si potrà superare quel dualismo che caratterizza il nostro mercato del lavoro fra garantiti e semi-garantiti. E qui non ci si vuole riferire al famoso dualismo fra lavoratori subordinati e atipici, ma a un dualismo più sotterraneo che l’esistenza dell’articolo 18 determina all’interno della stessa categoria dei lavoratori subordinati, in ragione della dimensione dell’impresa presso la quale sono occupati. È noto, infatti, che l’ambito di applicazione dell’articolo 18 sia circoscritto (dall’articolo 35 S.L.) alle imprese che impiegano più di 15 dipendenti. Dai dati rilevati in una recente ricerca dell’Istat, risulta che il tessuto produttivo italiano si compone per il 95% di imprese con meno di 10 dipendenti (quando il 65,2% di queste sono imprese individuali) e i lavoratori che godono della tutela garantita dall’articolo 18 sono solo una parte minoritaria della forza lavoro italiana (i lavoratori di quel restante 5%). Nel c.d. settore semi-garantito, vale a dire quello per il quale non vale la tutela reale contro il licenziamento, rientrano i lavoratori occupati in quel 95% di imprese, micro e piccole imprese.
Ma quanti, fra quelli che si impegnano in strenue lotte a difesa dell’articolo 18, sono davvero a conoscenza di questo aspetto? Purtroppo in pochi; o, più esattamente, in moltissimi hanno l’erronea convinzione di trarre dei benefici dalla sua permanenza in vigore. La disinformazione sul punto è diffusa perché per i sindacati sarebbe più difficile difendere l’articolo 18. In altri termini, essa è strumentale all’azione conservativa del sindacato e il risultato è che, nell’opinione pubblica, quello dell’articolo 18 è divenuto un tabù insuperabile: al solo prospettarsi di una sua modifica si solleva una sommossa generale.
In pochi sono consapevoli anche degli effetti indiretti che l’articolo in questione produce sul mercato del lavoro, sia sul piano della crescita occupazionale sia sul piano della natura e della qualità dell’occupazione creata.
Il nanismo tipico delle imprese italiane è in parte determinato proprio dall’esistenza dell’articolo 18. Allo specifico scopo di evitare di rientrare nella soglia fissata per l’applicazione dell’articolo 18, le imprese utilizzano vari espedienti che, nella sostanza, si risolvono in una mancata crescita delle proprie dimensioni. Le imprese ricorrono così in modo non appropriato alle forme contrattuali non standard –anche quando non vi sono alla base oggettive esigenze di flessibilità –, proprio perché nel calcolo dei 15 dipendenti rientrano soltanto i lavoratori subordinati; oppure scorporano la propria organizzazione in più aziende di piccola dimensione.
La dimensione artigianale delle imprese italiane che ne deriva, a sua volta, determina un freno alla creazione di nuovi posti di lavoro e una composizione dell’occupazione prevalentemente di basso profilo. Le imprese non investono in ricerca e pertanto non richiedono personale con qualifiche e competenze di alto profilo. Inoltre, gli scarsi investimenti sul fronte dei fattori produttivi non consentono il potenziamento della produttività dei lavoratori e quindi il miglioramento delle loro retribuzioni.
Nonostante queste controindicazioni all’esistenza dell’articolo 18, l’opposizione alla sua abrogazione è categorica, in quanto considerato strumento di garanzia della stabilità del posto di lavoro. Come spiegato però da Richard Epstein nel suo libro Mercati sotto assedio. Cartelli, politiche e benessere sociale, è il mercato a creare condizioni di stabilità nei rapporti di lavoro, senza mortificare le esigenze di competitività. In un mercato del lavoro in cui vige il principio dell’employment at will, infatti, l’imprenditore che volesse proteggere dalla concorrenza di altri imprenditori il rapporto di lavoro che lo lega ad un suo lavoratore avrà come unico strumento la stipulazione di un contratto a tempo indeterminato. Sembra paradossale che attraverso il tanto vituperato e osteggiato mercato si possa ottenere spontaneamente quello che invece si tenta, inutilmente, di imporre per legge. Ma sta proprio in questo la forza del mercato!
Diritti imposti: paradossi nemmeno troppo sofisticati.
Purtroppo però non è sistemando l’articolo 18 piuttosto che quella o quell’altra legge particolare che si risolve il problema a mio modestissimo avviso; intendo dire, non è sistemando SOLO una cosa che ormai nei usciamo. Vanno scardinate tante “intoccabilerìe” tricolore e rese organiche, tutte insieme, ad un nuovo (almeno per noi) e meno perverso modo di concepire la cosa pubblica.
Prendiamo l’art. 18, stanti così le cose è piuttosto coerente a tutto il resto dell’impianto normativo italiano, e non mi riferisco solo al mercato del lavoro. In un paese in cui, per dirne una, si mortifica il diritto privato in favore di quello pubblico è fisiologico che si impongano diritti anziché distribuire libertà.
Certo, non per questo il combattere per problemi specifici è sbagliato, non lo è mai.
Ma se vent’anni fa una battaglia da sola avrebbe potuto esser la soluzione, la famosa prima casella del domino, nella realtà odierna temo che servirà qualcosa di più per innescare un virtuosismo nel mercato del lavoro di cui tutti hanno sentito parlare ma che nessuno ha mai realmente esperito.
Matteo, autonomo, quindi ladro.
I dati ISTAT bisogna leggegli bene però: e’ vero che solo il 5% delle imprese italiane ha più di 9 addetti, ma questi rappresentano il 53% del totale! Le grandi imprese, poi, quelle con più di 250 addetti, pesano da sole per il 20%. Questi sono i dati. Il resto è mistificazione.
Inoltre, diverse ricerche svolte sul campo sfatano nettamente la leggenda che vuole che il nanismo delle imprese italiane sia causato in gran parte dalle tutele all’art.18. la soglia dei 15 dipendenti non è particolarmente significativa in termini statistici.
Certo, come no.
Peccato che, a parte (per ora…) nel settore pubblico, in Italia le aziende con migliaia di lavoratori, e che quindi non hanno certo problemi di “soglia dei 15” usufruiscano a piene mani di lavoratori para-subordinati e Co..
Peccato anche che, ad esempio, negli Stati Uniti, dove non mi risulta viga alcunché di equivalente all’articolo 18, la precarizzazione del lavoro, il suo sfruttamento, la disparità fra guadagno/sicurezza sociale/possibilità di miglioramento delle condizioni di vita/ecc. di lavoratori anche altamente qualificati e puri “possessori” di capitale sia, per usare un delicato eufemismo, alquanto altina. O mi sbaglio?
Vogliamo davvero che il mercato del lavoro sia più flessibile? Cominciamo dalla base, garantendo *a tutti* forme di flexsecurity: reddito di cittadinanza, riqualificazione professionale reale et similia.
@Alberto
Appena ho letto l’articolo ho subito fatto caso che, in effetti, quel 5%, essendo composto da grandi imprese, non può che presentare un numero rilevante di occupati (si diceva infatti il 53%).
Per quanto concerne l’articolo 18, direi che è innegabile il fatto che parte della tendenza è dovuta alla presenza di questo, anche se probabilmente non per la “gran parte”.
Poi una curiosità: cosa vuol dire “la soglia dei 15 dipendenti non è particolarmente significativa in termini statistici”?
@ Stefano2
La soglia dei 15 addetti non è statisticamente significativa nel senso che a sentire quelli che vedono l’art. 18 come la causa del “nanismo” si dovrebbe suppore una distribuzione nel numero di imprese per classi di addetti caratterizzata da una qualche evidente discontinuità in corrispondenza della quota 15, ma così non è. Il numero di imprese cresce in maniera più o meno esponenziale inversamente al numero degli addetti, ma non c’è alcuna soglia significativa intorno ai 15 dipendenti.
I veri problemi delle imprese sono altri. Chiedetelo agli imprenditori. La battaglia sull’art. 18 è tutta politica!
la battaglia sull’art. 18 serve a distogliere l’attenzione da cose ben più pesanti,tipo l’abolizione delle Province (non se ne parla più),riduzione costi e privilegi per i politici,una giustizia che funzioni come si deve,uno Stato che tratti i cittadini come tali e non come soggetti da vessare,tagli agli sprechi e gigantesche inefficienze del settore pubblico.Ieri ho sentito in tv che l’infermiera romana che aveva per poche ore sequestrato un bambino per far credere al suo compagno che aveva partorito ha ricominciato a lavorare in un altro ospedale della capitale.Roba da pazzi.
Se penso che perfino il leader maximo oltre dodici anni fa aveva provato a rendere il mercato del lavoro meno sovietico ed era stato stoppato dalla CGIL e dal suo partito – che non ricordo più come si chiamava allora – figuriamoci se passerà adesso il tentativo del governo.
Il risultato sarà che in silenzio gli imprenditori continueranno a delocalizzare e la disoccupazione aumenterà.
L’art 18 oggi in italia si applica a circa un occupato su tre.
Tutto condivisibile. Si deve anche aggiungere che la causa principale dell’altissimo costo (una tantum) al quale sono sottoposte le imprese che debbono licenziare (sia individualmente che collettivamente) è dovuto solo esclusivamente all’art 18, che può rendere il costo di un licenziamento, dichiarato illegittimo da un tribunale, altissimo (svariate annualità di costo aziendale del dipendente). Non si capisce perchè i lavoratori tutelati dall’art. 18 in presenza di forte sindacalizzazione possono ricevere, nella prassi degli accordi individuali o collettivi che siano, da un minimo di 12 fino a 54 (e forse oltre) mensilità (un famoso e scandaloso caso degli inizi dell’inizio degli anni duemila) di incentivazione all’esodo o indennizzo che dir si voglia, mentre quelli che sono impiegati da aziende con meno di 15 dip. beneficiano, in caso di licenziamento illegittimo, al max di 6 mensilità di indennizzo, essendo fissato chiaramente dalla legge e non essendoci la possibilità della tutela reale. Tra l’altro, chi osteggia le riforme, si rifiuta di adeguare o almeno avvicinare i “privilegiati” ad altrettanti lavoratori che già oggi non hanno queste tutele (dualismo tra i lavoratori dipendenti a tempo indeterminato). Non parliamo poi della distanza tra gli pertutelati e i contratti aticipici o le partite iva (allora perchè non indennizzare anche il professionasista che perde un cliente??). Di fatto si realizza a volte la assurda situazione, per gli ipertutelati, che è più conveninete farsi licenziare che mantenere il posto di lavoro. Conosco lavoratori dipendenti che si sono “arricchiti” soprattutto grazie a svariate incentivazioni all’esodo percepite nel corso della loro storia professionale. Se poi apriamo il capitolo dei dirigenti è il festival dell’arricchimento grazie alle indennità e alle incentivazioni all’esodo, peraltre previste da generosissimi contrattti colletttivi (ad es. dirigenti commercio o industria).
fabiana
se togli l’art. 18 le aziende saranno flessibili ma non potranno scaricare i costi sullo stato che oggi paga la cassa integrazione…le crisi aziendali vere o false sono cioè scaricate sulla massa…
chi vuole abolirlo pensa di diminuire i costi dello stato ma se lo stato spende di meno, ci sarà qualcuno che spenderà di più…a spendere di più saranno sindacati e aziende che non avranno più questo gettito che arriva dallo stato…
pagare l’indennizzo di disoccupazione invece che la cig non sarà un minor costo per lo stato…perché moltissimi lavoratori faranno finta di essere disoccupati pur facendo un lavoro in nero…come già avviene…
Le proposte, in questo paese, non valgono; solo le proteste conducono a qualche cambiamento, ma quale sarà la direzione ?
L’art.18 è un totem da difendere a prescindere, mancando ciò il sindacato sarebbe senza l’artiglieria pesante e dovrebbe cominciare a pensare..
Mi seembra che i vostri lettori abbiano fatto giustizia di tutto. Menzogne comprese.
No, c’è qualcosa che non torna nella statistica citata da Alberto: il dato ISTAT dice che il 95%delle aziende italiane ha meno di 10 dipendenti, per un totale di 18 milioni di lavoratori.
Confindustria ha 155,000 iscritti per un totale di 5,5 Milioni di addetti (media 35 addetti/azienda), cioè meno di un terzo. A prescindere dalle considerazioni sulla presunta rappresentatività di Confindustria dell’intero mondo dell’impresa (e della inesistente rappresentanza degli interessi del 95% delle imprese italiane), il numero di addetti delle aziende che hanno piu’ di 15 dipendenti sembra essere assai minore del dato riferito.
Il problema però ha anche un altro risvolto, non toccato fino ad ora e che afferisce per l’appunto alla rappresentatività reale di Confindustria. A pochi sarà sfuggita la campagna giacobina e manettara di Confindustria (nella persona di GP Galli e dei suoi organi, segnatamente Radio 24) contro i “presunti” evasori fiscali; chi ha avuto stomaco per seguirsela ogni mattina (“Storie di ordinaria evasione” è il titolo della rubrica, nella quale viene data voce solo a GdF e AdE) ha anche capito che il bersaglio sono appunto autonomi e piccole piccolissime aziende. E’ evidente la volontà di dividere in maniera antagonistica il mondo del lavoro: da una parte i virtuosi (medie e grandi aziende con i loro dipendenti), dall’altra i ladri evasori che sono poi autonomi, piccole aziende famigliari e tutto ciò che non può piu’ avere dignità in Italia, le piccolissime aziende.
Confindustria ha scelto di fiancheggiare la politica dissennata dei Tremonti/Befera per uccidere tutte le piccole realtà che appaiono cosi’ come il vero cancro di questo paese. E’ chiaramente una scelta politica, cosi’ come è una scelta politica quella di battersi per i 47 miliardi (miliardi) di Euri in finanziamenti a fondo perduto che, ogni anno che il Signore manda sulla terra, lo Stato elargisce alle aziende di Confindustria. Cosi’ come è una scelta politica quella di non denunciare, nelle loro rubrichette, l’enorme (ENORME) evasione fiscale chesi cela dietro le “delocalizzazioni” dei suoi associati.
Si può discutere se aziende con meno di 15 dipendenti siano o meno desiderabili in un’economia che si vorrebbe ancora chiamare di mercato: quel che è difficile sostenere è però che la loro cancellazione renda questo paese, questa Europa, una regione dove la parola libertà abbia ancora un senso.
Non so quale sia la fonte del mio omonimo, alberto, che sostiene che i dipendenti delle imprese sotto i 10 addetti siano 18 milioni.
Il vero dato ISTAT è di circa 8 milioni, per l’esattezza 8.176.754 corrispondente al 47% degli addetti. La fonte é:
http://www.istat.it/it/files/2011/06/Report.pdf
(tav. 1 a pag 2)
@Alberto
Sono stato fuorviato da un articolo del Corriere (un trafiletto, invero) riportato qualche tempo fa: è evidente che l’estensore ha confuso il dato riferentesi alla occupazione totale (circa 18 M) con il parziale delle aziende sotto 10 dipendenti. Ad ogni buon conto, se si considerano le aziende fino a 15 dipendenti, estrapolando un po’ i dati, si dovrebbe essere nell’intorno di 9 – 9,5 M di addetti, sempre al di sopra di un 50%. Non so se sia un dato trascurabile o di scarso peso nella realtà italiana e non so quanto lungimirante sia chi ne teorizza la cancellazione attraverso una vera e propria pulizia etnica. Da Amato a Tremonti, passando per Visco, esiste tutta una scuola di pensiero in materia: se Amato ha tracciato il solco, Tremonti ha calato la spada con le ultime disposizioni in materia fiscale e di riscossione. Si’, faccio ammenda dello svarione, ma siamo sempre li’.
Nemmanco so quanto sia lungimirante la posizione di Confindustria: se lo Stato già di suo ci si mette con tutto il peso della sua propaganda a martello a dividere tra lavoratori dipendenti, virtuosi e onesti (senza merito) per definizione e, dall’altra parte, autonomi a vario titolo, tutti ladri ed evasori sempre per definizione, non credo si sentisse la mancanza di una Confindustria che, a sua volta, creasse ulteriore divisione tra imprese virtuose (le sue) e tutta l’accozzaglia delle piccole e micro imprese che dovrebbero essere gli untori di questa crisi. Coloro che, a dire di Stato e Confindustria, con la loro evasione avrebbero creato le condizioni della crisi.
Per tornare all’articolo della Alias, io non so da chi o che cosa sia stato creato il nanismo delle imprese italiane, se dall’articolo 18 o che altro, so solo però che, senza questo nanismo, al momento avremmo diversi M di disoccupati in piu’. Ma, visto il piglio con cui si sta procedendo alla pulizia etnica, è possibile che li avremo, questi M di disoccupati, molto presto.
Non so nemmeno quale validità o dignità possano avere le teorizzazioni di chi vorrebbe tutte aziende grandi (magari statali): so soltanto che, attorno al 2000/2003, mentre in Italia ce la passavamo discretamente bene, in Germania le cose non procedevano altrettanto serenamente e la disoccupazione era un problema piuttosto drammatico. Allora era evidente quanto il modello italiano, molto piu’ flessibile, mostrasse vantaggi rispetto a quello tedesco. Ma forse sto aggiungendo troppa carne la fuoco.
RIFLESSIONE.
Hitler:credo dalle fiamme dell’inferno! guarda il G.20 e se la ride
L’America ha paura che l’euro si sfalda Cina,India.Giappone,Russia,Argentina tremano se l’euro scoppia!!!!!
Figuriamoci L’Europa con Grcia,Italia,Spagna,Portogallo ecc. ecc.con il piattino in mano elemosinano alla mia grande Germania di comprare il proprio debito.!!!!!!!!!!!!!!
Ma perche L’EURO non l’ho inventato IO!!!!!!!!!!!!!!!!!!!
TUTTO IL MONDO AI MIEI PIEDI CHE ADESSO POSSO BRUCIARE SODDISFATTO!!!!!!!!
“La norma che faciliterà i licenziamenti non è ancora stata scritta, ma solo annunciata. Non si sa quindi come sarà tradotta in legge ed è prematuro qualsiasi commento; si tratterebbe di un puro processo alle intenzioni.”.
Sarà anche un processo alle intenzioni, ma è dal 2001 che intendono abolire l’art. 18..
Suggerimento per riflessioni ulteriori: mi risulta che in Germania l’equivalente art.18 si applichi a partire dai 10 addetti, come la giustifichiamo la loro competitività?
Secondo spunto: in Italia, per le aziende di dimensioni maggiori esistono già i licenziamenti collettivi per esigenze produttive (ne abbiamo visti parecchi di questi tempi), qualcuno ha spiegazioni convincenti sull’utilità di togliere -di fatto- il divieto di licenziamento arbitrario del singolo addetto?