Liberalizzache? Sul risparmio, la politica si fa ras
di Oscar Giannino e Camilla Conti
Il futuro di Pioneer, il maggior gestore di risparmio gestito con passaporto italiano messo in vendita da Unicredit, ormai è diventata una questione “di sistema”, come si suol dire in Italia quando s’intende che entrano in gioco fattori preminenti non di schietta natura economica dal punto di vista della massimizzazione del vantaggio per gli azionisti . Essendo tre operatori stranieri (i francesi Amundi e Natixis e la britannica Resolution) in short list per rilevare la società di gestione di Piazza Cordusio, la valorizzazione di Pioneer potrebbe concludersi con la migrazione all’estero di una parte consistente del risparmio degli italiani. Ipotesi che ha suscitato timori e mobilitato reazioni di peso e sostanza.
E così prima il ministro dell’Economia, Giulio Tremonti, poi il presidente dell’Acri e della Fondazione Cariplo (grande azionista di Intesa), Giuseppe Guzzetti, e infine Banca d’Italia sono spuntati uno dopo l’altro in una non casuale catena di sant’Antonio. Sono primi supporter dell’idea di dare vita a un maxi-polo del gestito attraverso l’unione con Eurizon Capital, controllata da Intesa. Anche il governatore Mario Draghi, si è autorevolmente letto senza smentite, avrebbe a cuore la riuscita del connubio. Personalmente e modestamente, non capiamo. Si era espresso più volte in passato e coraggiosamente, il governatore, per una progressiva ma energica separazione tra la proprietà delle fabbriche prodotto e quella delle reti bancarie.
In questo senso si può anche pensare che si sia creata una certa sintonia con Tremonti, che sulla scorta dell’eticismo “dagli allo speculatore” ha già preannunciato un doppio regime fiscale per le attività bancarie “reali” (risparmio e credito) e quelle di finanza speculativa (investment banking). L’effetto è che ,come evidenziato recentemente da MF-Milano Finanza, in Italia è partita la corsa all’oro dei fondi esteri. Favoriti da una tassazione minore (che pagano nel paese d’origine) e da regole di compliance più blande rispetto a quelli italiani, hanno già messo sotto contratto la bellezza di 140 miliardi di euro su un totale di 3.200 miliardi di ricchezza privata, godendo solo nel 2010 di una raccolta positiva pari a 11 miliardi contro un segno rosso di pari importo per le griffes della gestione tricolore. Una «fuga inaccettabile » per Tremonti, visto tra l’altro che questi soldi procurano profitti fuori dall’Italia e fanno lavorare imprese e dipendenti non italiani. Purtroppo, non si vuole capire che si tratta dell’effetto naturale – e po si ti vo! – della minor tassazione dei Paesi concorrenti, che per questo fa bene e non male ai Paesi a tenacissima alta tassazione come l’Italia. La soluzione naturale sarebbe abbassare le imposte. Di corsa. Ma si recalcitra. Meglio inveire contro i ribaldi speculatori esteri. E pensare a mettere in campo artificiali barriere “di sistema” a difesa dei gestori nazionali.
Ecco perché la fusione fra Pioneer e Eurizon piace al Tesoro. Quanto, infine, all’Acri di Guzzetti, forse gli azionisti di Intesa non avrebbero proprio bisogno di ulteriormente spendere per acquisire Pioneer. Ma va ricordato che gli enti sono i partner del Tesoro nella Cassa depositi e prestiti, la nuova “banca di sviluppo” al cui interno hanno già preso forma alcune Sgr orientate all’investimento immobiliare (social housing) e alla capitalizzazione delle Pmi. La moral suasion di Tesoro, Vigilanza e Fondazioni, messa in campo su Piazza Cordusio e Ca’ de Sass sembra funzionare tanto che il 1 febbraio scorso il presidente del consiglio di sorveglianza di Intesa Sanpaolo, Giovanni Bazoli, ha pubblicamente benedetto “la disponibilita’ dei grandi azionisti per l’operazione”, sebbene l’ultima parola spetti “al management che la sta esaminando”.Ma cerchiamo di capire perché Pioneer e Eurizon sono diventate due zitelle del gestito da far convolare a nozze nel nome della bandiera. E partiamo da Piazza Cordusio che sotto Alessandro Profumo aveva fatto dell’asset management il proprio cavallo di battaglia. Strategia che aveva portato all’acquisizione del gestore americano Pioneer unita alla delocalizzazione globale dell’asset management di UniCredit tra Dublino e Boston, per trasformare rapidamente il risparmio bancario e amministrato (titoli di Stato in custodia) in vero “risparmio gestito”: fondi comuni, polizze e altri strumenti d’investimento, sempre più sofisticati. Non a caso proprio il capo di Pioneer – Fabio Innocenzi – fu chiamato come amministratore delegato del quarto gruppo creditizio italiano, il Banco Popolare. Poi è arrivata la crisi che vede il risparmio gestito fra i settori più esposti alla finanza globale, Profumo è stato mandato a casa, sul fondo è scesa anche l’ombra del crack Madoff.
Morale: oggi UniCredit non ha più né la forza né la voglia di trasformare Pioneer in un operatore globale. Meglio liberarsene anche per togliere qualche zavorra al bilancio non ancora in linea con i nuovi requisiti patrimoniali di Basilea 3. Pioneer resta comunque il terzo gruppo dell’asset management in Italia con un patrimonio promosso di 125,1 miliardi preceduto da Generali con 143,4 miliardi (attraverso Banca Generali) e da Eurizon prima in classifica con 162,6 miliardi. L’ipotesi di una cessione totale di Pioneer servirebbe dunque a UniCredit sia per alzare il roe sia per spingere il titolo. Secondo alcuni analisti una valorizzazione attorno a 3 miliardi permette maggior capitale per 60 punti base a prezzo di una diluizione marginale, ovvero il 5% dell’utile per azione, con un goodwill sulle masse gestite intorno all’1,7-1,8%.
La concorrenza degli operatori stranieri è agguerrita, come dimostra l’interesse per l’asta di Pioneer: tra gli attori in campo c’è Amundi, frutto della fusione fra le piattaforme del Credit Agricole (che controlla CariParma-Friuladria)/Credit Lyonnais e Société Générale. Sempre francese è Natixis, il gestore di un polo bancario semipubblico nato dall’unione tra il gruppo Banque Populaire e il Caisse d’Epargne. E infine Resolution, un grande fondo di private equity, quasi sicuramente interessato a una rivalorizzazione speculativa di Pioneer, attraverso la rivendita a pezzi. Alle spalle di Eurizon e Pioneer, in Italia, ci sono poi Anima (Bpm) e Prima (Mps) che hanno già realizzato una fusione nazionale per accentuare l’indipendenza della Sgr invocata da Draghi. C’è infine chi non esclude, nei desiderata di Tremonti, un possibile allargamento dell’asse Pioneer-Eurizon al gigante BancoPosta (14mila sportelli), controllato da Tesoro e Cdp. Una bella pubblicizzazione, mentre si parla di riformare l’articoilo 41della Costituzione. Così come si attendono le contromosse di altri gestori nazionali, a cominciare da Arca, la Sgr consortile delle Popolari.
La partita si giocherà fino ai primi di marzo, quando i tre players in short list (Amundi, Natixis e Resolution) presenteranno la loro offerte ferme a UniCredit. Di certo, l’operazione Pioneer-Eurizon è “vestita” come operazione-Paese, necessaria per tutelare una storica “materia prima” italiana: il risparmio, ormai terra di conquista dei grandi gestori internazionali. Ma nella realtà, la corsa a creare un “campione nazionale” rischia di tradursi nell’ennesimo tentativo dello Stato di intervenire nelle scelte di società quotate in settori strategici, recuperando “interessi nazionali”. Aspetto trascurato dai giornali finanziari. Forse perché in quegli stessi giornali a comandare sono anche quelle banche così “addicted” a operazioni di sistema. Del resto viviamo nel Paese più bancocentrico del mondo dove gli investitori istituzionali sono debolissimi e in cui anche nel private equity la quota esercitata dalle società di controllo diretto bancario supera quello dei fondi specializzati, un Paese dove è ovvio che gli istituti di credito abbiano un interesse a restare gli interlocutori unici delle imprese come fornitrici di capitale di debito. Altro che sistema, altro che bandiera tricolore da far sventolare sul risparmio gestito.
C’è anche da dire che il “risparmio gestito” italiano è di *pessima* qualità e molto costoso, dunque non sorprende che vi sia una quota che si sposta su fondi esteri. La componente fiscale è secondaria.
Inoltre, per la questione dell’investimento minimo di 500k, è in pratica impossibile per risparmiatori anche medi investire in fondi hedge. Cosa che invece è fattibile mediante un regolare conto all’estero, ad esempio in CH.
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