L’eredità-Saccomanni: nei conti pubblici balla un punto di Pil
Ma c’è o non c’è, un pasticcio sui conti pubblici ereditati dal governo Renzi? Molti elementi dicono di sì, e si tratta di fatti. Cerchiamo di comprenderli, evitando però di confondere i fatti con interessi e risentimenti politici, che nella finanza pubblica inevitabilmente sono sempre presenti.
Renzi si sta attenendo a una linea di prudenza assoluta, caldeggiata dal Quirinale che vuole evitare ogni sbavatura rispetto al governo uscente, come non bastasse la procedura già abbastanza singolare seguita nell’avvicendamento a palazzo Chigi. “Il governo non ha nuovi compiti a casa assegnati da Bruxelles, sappiamo che cosa dobbiamo fare”: il premier ha ieri cercato così di gettare acqua sul fuoco, dopo la nuova retrocessione comminata il giorno prima dall’Europa a Roma, scesa nella serie C dei tre Paesi Ue considerati a maggior squilibrio macroeconomico. Ad altrettanta prudenza si è rigorosamente attenuto il Ministero dell’Economia, Piercarlo Padoan, nella sua intervista ieri a Sole24 ore. Ciò che non si poteva immaginare era che provvedesse l’ex ministro tecnico, Saccomanni, a gettare benzina sul fuoco con dichiarazioni molto aspre. I commenti di Bruxelles sono “incomprensibili e immotivati”, e per l’ex ministro “non c’è nessun buco, né alcun bisogno di manovra bis”. Il responsabile economia della segreteria del Pd, Taddei, ha dovuto replicargli che Renzi non aveva attaccato Letta. Oggi Saccomanni sul Corriere rincara la dose, evidentemente la perdita del ministero gli brucia, arriva a dire “hanno avuto paura dei risultati che potevamo conseguire”. Proprio tono e parole di Saccomanni mostrano che il problema c’è, eccome.
Anzi, di problemi ce ne sono due. Uno riguarda il merito dei conti ereditati dal governo Letta, rispetto a osservazioni venute da Bruxelles non l’altro ieri, ma mesi fa. L’altro è l’interpretazione da dare al famigerato limite del 3% di Pil come tetto al deficit pubblico annuale.
E’ un fatto, che la Commissione Europea – di fronte al primo esame preventivo delle leggi finanziare prima che venissero approvate, entrato in vigore come rafforzamento delle procedure di stabilità europee l’anno scorso – sin dallo scorso 14 novembre avesse notificato a Letta e Saccomanni delle richiesta di modifica. Il deficit pubblico strutturale italiano, che per il governo Letta era di un mero 0,3% nel 2014 e azzerato nel 2015, per la Commissione era invece stimato in nuova crescita, allo 0,7% nel 2014 e allo 0,9% nel 2015. Di qui una prima richiesta di misure aggiuntive. Intorno a 4 miliardi di miglioramento del saldo previsto dalla legge di stabilità per il 2014.
A metà novembre, le previsioni della Commissione per la crescita del Pil italiano nel 2014 erano ferme a quota più 0,7%, rispetto all’1,1% previsto invece da Saccomanni. La cosa è ulteriormente peggiorata con l’aggiornamento delle stime di crescita della Commissione lo scorso 25 febbraio, quando il Pil italiano 2014 è sceso di un altro decimale di punto. Mezzo punto di Pil di minor crescita rispetto alle previsioni della legge di stabilità può comportare minori entrate ordinarie tra i 3 e 4 miliardi. Ed ecco che, sommando le diverse componenti delle osservazioni venute da Bruxelles, nella peggiore delle ipotesi siamo già intorno agli 8 miliardi.
Sempre restando ai fatti, la risposta che Saccomanni e Letta diedero alla Commissione fu articolata in tre parti. Rivolgendosi alla scena politica interna, il commento fu: “di solo rigore si muore”. Alla Commissione e all’Ecofin, Saccomanni espresse la linea che, tra la spending review affidata a Cottarelli i cui esiti erano attesi per il 25 febbraio, il piano di privatizzazioni allora ancora in via di definizione, i 900 milioni attesi dalla rivalutazione delle quote di Bankitalia disposta con decreto legge a parte, i conti che a Bruxelles non tornavano nella legge di stabilità sarebbero comunque tornati entro febbraio. E la Commissione accettò la replica italiana, disponendo però che appunto entro fine febbraio il governo italiano avrebbe dovuto mettere per iscritto quanto aveva disposto, in aggiunta al bilancio preventivo approvato entro fine anno. Terzo punto: Saccomanni e Letta restavano dell’idea di aver diritto a un bonus sulla spesa per investimenti, maturato con l’uscita dell’Italia dalla procedura d’infrazione, nel maggio scorso.
Ecco, qualunque cosa voi possiate pensare del rigore chiesto da Bruxelles , i fatti dicono purtroppo che su quei tre punti il passaggio dal governo Letta a Renzi fa ereditare problemi al secondo. Innanzitutto, poiché la scadenza della comunicazione a Bruxelles delle misure aggiuntive è caduta esattamente nei giorni del cambio di testimone tra i due governi senza che Saccomanni desse una risposta ufficiale, alla Commissione Europea i conti continuano a non tornare. La rivalutazione delle quote Bankitalia è stata approvata, e gli effetti sul conto economico delle banche sono a partire dai bilanci 2013 (quelli sul rafforzamento patrimoniale invece dall’anno successivo, per evitare accuse di “cosmesi” nella valutazione degli attivi patrimoniali per la prima volta nel 2014 affidata sui maggiori istituti alla nuova vigilanza europea della BCE). Ma della spending review di Cottarelli, nero su bianco, ancora di preciso non si sa nulla. Dai soli 3 miliardi attesi per il 2014, Padoan ha prudentemente detto che si può salire a 5. Ma si resta a parole pronunciate in interviste, mentre sarebbe stato meglio rendere pubbliche le conclusioni e proposte di Cottarelli, consegnate anch’esse a Saccomanni. E in ogni caso quei tagli dis pesa saranno a copertura di sgravi, non per migliorare i saldi. Quanto alla forbice di mezzo punto sulla crescita attesa nel 2014 dal governo Letta rispetto a tutti gli osservatori internazionali e dalla Banca d’Italia, essa resta.
In più , a dirla tutta, l’eredità da chiarire del governo precedente presenta altre due possibili sorprese. Se la Commissione Europea abbracciasse l’idea – non peregrina, a giudizio di chi qui scrive – che con il provvedimento Bankitalia si configurano aiuti di Stato alle banche, i proventi fiscali relativi diventano aleatori. Idem dicasi per i 4-6 miliardi che il governo Letta si attendeva dalla quotazione di una quota minoritaria ma elevata di Poste Italiane, se dovesse fare passi avanti il dossier europeo sugli aiuti di Stato a Poste attraverso l’assegno miliardario annuale a copertura delle gestioni previdenziali . Sarebbe inevitabile rinviare a tempi migliori la quotazione. E ricordiamoci che Royal Mail a Londra ha dovuto attendere la soluzione di un problema del tutto analogo, prima di poter andare in Borsa.
Ecco, sommando al mezzo punto di Pil contestato su deficit strutturale e crescita ottimistica, un altro mezzo di minori introiti da banche e quotazione di Poste, siamo praticamente a un punto di Pil che può ballare nei conti 2014. Non è poca cosa. Anche perché nel frattempo la Commissione ha tirato già la saracinesca di ogni ipotetico bonus per l’uscita dalla procedura d’infrazione.
Tutto ciò spiega perché ieri, nella sua intervista al Sole, Padoan non ha usato verso la Commissione i toni di Saccomanni, e non ha parlato se non di rispetto rigoroso del tetto del 3%. Il ministro ha esperienza più che decennale tra Fmi e Ocse, e sa che è sconsigliabile usare toni di sfida quando ci si muove sul ghiaccio usando pattini a rotelle invece di lame. Solo Renzi, a questo punto, deve e può provare a portare in Europa entro due mesi un pacchetto di misure di rilancio su imprese-lavoro capaci davvero di rialzare la crescita potenziale, tali da smentire gli interrogativi fattuali ai quali i predecessori non hanno dato risposta. Ma non può sbagliare il colpo. E se poi il “contratto per le riforme” riuscirà a diventare, nel semestre italiano di presidenza Ue da giugno, un esempio da seguire anche per tutti i paesi eurodeboli, in modo da riconquistare le opinioni pubbliche all’idea che la disciplina europea non è fatta solo di perdita di aziende, reddito e occupazione, allora partendo da queste basi sarà davvero una svolta. Basta ricordarsi, però, che “frubate” alla Saccomanni non aiutano.