L’emergenzialismo
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Pietro Di Muccio de Quattro.
Questo articolo è stato originariamente pubblicato su BeMagazine
Molti anni fa era presidente del Consiglio il repubblicano Giovanni Spadolini.
In un discorso alle Camere assicurò tra l’altro che il deficit non sarebbe salito oltre il 5 per cento, dove era attestato, e il Governo avrebbe affrontato le “quattro emergenze”, che più o meno non erano granché diverse d’adesso. Al liberale Valerio Zanone, a parte le simpatie lib-lab, non mancava l’ironia. Gli venne di replicare che le “quattro emergenze” sembravano il nome di una taverna del Don Chisciotte.
Il fatto è che l’Italia repubblicana, nonostante l’art 81 della Costituzione, originale e riveduto, il deficit non è mai riuscito a bloccarlo. Nel 1961 il deficit era l’1,4% del Pil; nel 1970 salì al 5,1%; nel 1980 arrivò all’8,9%; nel 1990 balzò all’11%! Da allora il deficit è andato su e giù, mai riducendosi a zero. Nel 2023 sarà circa il 4,5% del Pil. I deficit cumulati nei decenni hanno portato il debito pubblico alla cifra astronomica di 2.843 miliardi di euro nel giugno 2023 (in lire, per chi ancora se le ricorda, fanno 5.504.815.610.000.000, una cifra difficile da leggere).
Le emergenze, che erano soltanto quattro nel 1981, sono proliferate fino a diventare oggi innumerevoli, al punto da aver originato una forma di ideologia, che accomuna governi, maggioranze, opposizioni: l’emergenzialismo. Non si parla più di problemi, esigenze, necessità, tempi, bensì di emergenze. Il nostro Niccolò Tommaseo dà alla parola emergenza due significati: che emerge, che sorge e che succede, che deriva. Ambedue aiutano a capire l’emergenzialismo, un neologismo utile per forzare le forzature della politica italiana, che procede per emergenze. Gli accadimenti derivano immancabilmente da scelte sbagliate dei precedenti governanti e nondimeno compaiono all’improvviso davanti ai nuovi governanti.
Tornando al deficit e al debito, sono due emergenze da un bel po’. Pertanto non hanno niente di emergenziale, sebbene ahimè allarmanti. I governi che non fronteggiano le spese con i tributi, devono indebitare la nazione. Ad alcuni prendono il danaro; ad altri lo chiedono in prestito; spendono l’ammontare sempre maggiore. L’azione redistributiva non può assimilarsi ad un’emergenza, essendo divenuta, con l’onnipotenza parlamentare, l’essenza stessa dell’ordinario legiferare e governare. In genere, protesta l’emergenza chi non beneficia della redistribuzione. Eppure i tributi ed i debiti hanno inseguito la spesa, che nel 2023 sfiora il 53% del Pil. Sebbene questa emergenza venga dichiarata pressoché quotidianamente dalle forze politiche, tuttavia ispira indirizzi opposti.
L’immigrazione risulta un’emergenza a corrente alternata, sfruttata dall’opposizione fino a quando diventa maggioranza, allorché l’afflusso indiscriminato di extracomunitari passa da invasione a naturale fenomeno migratorio da regolare.
In modo carsico, emerge la realtà delle periferie degradate, come se la degradazione civile di certe zone urbane spuntasse all’improvviso come effetto diretto dell’ultimo crimine perpetratovi. Il dissesto idrogeologico sorge dopo le catastrofi climatiche, passate le quali la situazione cessa d’esser considerata un’emergenza. Poi viene l’emergenza carceraria. Le più belle anime pensose delle sorti di uno straniero nelle carceri del suo paese si mobilitano per liberarlo poiché studia in Italia, ma tacciono su quel terzo di cittadini italiani rinchiusi nelle galere italiane senza condanna definitiva, cioè innocenti per Costituzione. E parlando di carcere viene immediatamente l’associazione mentale con la giustizia, che però non è un’emergenza condivisa da tutti. Infatti i magistrati e il “partito dei giudici”, che non dovrebbe neppure esistere se il divieto d’iscrizione ai partiti politici, imposto ai magistrati dalla Costituzione e dalla ragione, avesse il senso che dovrebbe avere, sono convinti che la giurisdizione non sia affatto un’emergenza come sostengono i cittadini e il “partito del giusto processo”, dopotutto sancito dalla Costituzione.
In fondo, chiamare emergenza un certo fenomeno politico, sociale, economico, sembra un modo di rimarcarlo con l’evidenziatore, un dargli importanza a preferenza di altri, una scelta programmatica con implicazioni immediate.
La politica insegue le emergenze che sorgono e succedono ogni giorno. Se tutto il daffare viene catalogato come emergenza, il senso delle priorità nel governare sfuma. La necessità investe la stessa modalità d’azione del Governo, fattualmente distratto dalla direzione della politica generale che esige indirizzi governativi ben elaborati da sviluppare in un arco di tempo non occasionale, ma prestabilito e lungo. Non sono le emergenze presunte, denunciate per propaganda, che intralciano l’azione di governo, ma l’accumulo delle emergenze reali, che, in quanto tali, impongono soluzioni, ma, essendo numerose, sono irrisolvibili tutte in una volta, a parte la difficoltà di distinguere bene le une dalle altre, nel giudizio politico.
Il rincorrersi affannoso delle emergenze sottopone qualsiasi governo allo stress di provvedere subito senza poter provvedere a ragion veduta. L’enfasi definitoria accresce la fretta di agire che consegue al battage dell’opposizione così agevolata nell’accusare il governo di inerzia e ritardo contro l’emergenza denunciata. La vita politica, in alto e in basso, delle istituzioni finisce per trascorrere in un perenne stato di agitata confusione e di precarie decisioni. Il cittadino stesso capisce che nulla è definitivo, ragionevolmente stabile, ma tutto è soggetto all’alea del momento. Nell’esistenza finisce per prevalere l’insicurezza, la peggiore nemica dello sviluppo nella libertà.
Ogni essere umano pianifica, in un certo senso, la propria vita ed ha bisogno dell’ordine garantito da leggi durature per poter programmare le sue mosse in un contesto ragionevolmente prevedibile. Le pensioni sono un esempio eclatante dell’emergenzialismo. Dovrebbero costituire una certezza, dopo il ritiro dal lavoro. Invece sono diventate l’emergenza per antonomasia, non solo riguardo al futuro dei pensionandi ma anche al presente dei pensionati. Le riforme pensionistiche si susseguono annualmente, incalzanti come le onde del mare mosso. La legge di bilancio agita pensionandi e pensionati alla stregua di un incubo.
In conclusione, l’emergenzialismo fa più danni che no. Costituisce una distorsione di quel “buon andamento” dell’amministrazione pubblica che è pur sempre un valore costituzionale. Non si risolvono le emergenze con i provvedimenti emergenziali. L’Italia sembra aver smarrito la capacità di uscire dai casi straordinari con le misure ordinarie e di volgere le emergenze in normalità.