Le quote della Banca d’Italia, il prelievo “alle banche” e il Barone di Münchhausen—Carlo Amenta e Paolo Di Betta
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Carlo Amenta e Paolo Di Betta.
La storia della rivalutazione e della tassazione delle quote di Bankitalia possedute dalle banche emana l’acre odore del capitalismo di relazione (crony capitalism).
In questo caso, i legami non sono sotterranei e poco trasparenti fra soggetti istituzionali, imprenditori e banche. Leggendo le dichiarazioni fatte dal (già) Ministro del tesoro Saccomanni, è evidente che anche la Banca Centrale Europea e la Banca d’Italia erano d’accordo con l’operazione. D’altronde, il Governatore Visco ha dichiarato che così si rafforza l’indipendenza della Banca. “La riforma ribadisce che l’assemblea dei soci e il consiglio non hanno alcun potere di intervento nelle funzioni della banca.” Tutti sono riuniti en plein air per assolvere al supremo perseguimento dell’interesse nazionale: garantire l’indipendenza della banca, rafforzare patrimonialmente le banche, e visto che ci siamo, prelevare un miliardo di euro e più dalle banche.
È crony capitalism perché si poteva fare diversamente. È crony capitalism perché aumenta l’effetto di spiazzamento causato dalla spesa pubblica e quindi aumenta il credit crunch alle imprese del settore privato che non hanno “agganci” con il potere politico o non sono abbastanza grandi.
Il Governo italiano con l’operazione di rivalutazione delle quote ci ricorda un po’ il Barone di Munchausen. L’imperturbabile Barone era impantanato nelle sabbie mobili e stava quindi per annegare, quando trovò la soluzione geniale: per tirarsi fuori dalle sabbie mobili bastava sollevarsi, tirando su con i lacci dei propri stivali! Una soluzione assurda per un problema complesso.
La situazione attuale è complessa. Lo Stato è impantanato e rischia di sprofondare: spesa incontrollabile, banche pubbliche gestite male che fanno buchi di bilancio tremendi, necessità di finanziare le imprese per la crescita. Occorre una soluzione assurda!
Oggi le operazioni di finanza creativa Statale hanno la stessa natura di quelle dell’ineffabile Barone di Münchhausen. Lo Stato italiano ne ha messa su una straordinaria (la coppia Renzi-Padoan esegue quanto messo su dalla coppia Letta-Saccomanni).
Prima fase: si afferrano i lacci delle scarpe. Si stabilisce che le banche titolari delle quote hanno in effetti un diritto di proprietà sulla Banca d’Italia. Questa è la parte geniale.
Seconda fase: il Barone si tira via dal pantano sollevandosi con i lacci delle scarpe. Si rivalutano le quote e si stabilisce il limite massimo consentito della rivalutazione in 7,5 miliardi. (Questo sarà il valore che verrà poi deciso.)
Terza fase: uscito dalle sabbie mobili, il Barone si scrolla di dosso il fango. Si fa un prelievo forzoso sulle quote rivalutate.
Come si stabilisce il valore della quota? Alla Münchhausen.
Ci sono tanti modi Münchhausen, noi qui presentiamo uno molto semplice, che non corrisponde perfettamente con quanto fatto da Saccomanni perché lo sa solo lui come lo ha fatto.
Ci si chiede: Quanto occorre raccogliere? Risposta: 1 miliardo.
Qual è l’aliquota della plusvalenza? 12% (a quel tempo, fine 2013).
Quanto vale la proprietà della banca? 1 miliardo diviso 0,12, cioè 8,3 miliardi.
Quale banca ha già rivalutato la propria quota? Qualcuno l’ha fatto. Bene, applichiamo il valore più basso (o una media), scelto fra quelle banche che hanno già rivalutato le proprie quote (forse CARIGE è quella che ha rivalutato di più, ma possiamo sbagliare). Otteniamo così il valore iniziale migliore (per lo Stato), è il Prezzo INIZIALE delle quote della Banca d’Italia più basso, che sarà poi detratto al valore finale, il Prezzo FINALE per ottenere la base imponibile su cui calcolare il capital gain. La base imponibile per calcolare il CAPITAL GAIN è Prezzo FINALE – INIZIALE.
Otteniamo 7,5 miliardi, più o meno (arrotondato, fate voi, non importa, male che vada si aggiusta poi l’aliquota per ottenere il miliardo obiettivo). Abbiamo ottenuto il valore massimo di rivalutazione delle quote. Ad esso andrà applicato il 12% e otteniamo, voilà, 1 miliardo.
L’aliquota raddoppiata è una novità Renzi-Padoan, nemmeno Saccomanni osava tanto.
Con l’aliquota del 24% era sufficiente una rivalutazione di 4,17 miliardi per ricavarne 1.
Stabilito il massimo della rivalutazione, occorre stabilire il dividendo massimo da distribuire, e si fissa al 6%. Perché? Boh. A quel punto la valutazione è fatta. Il 6% di 8.3 miliardi è 500 milioni.
Si stabilisce questo come massimo di dividendi. Ne consegue che la valutazione è 500/0,06=8,3 miliardi. (Se usiamo 450 milioni abbiamo: 450/0,06=7,5 miliardi.) Come vedete si tratta di un ragionamento circolare.
Come si valutano le quote, invece?
Problema della valutazione
Sceglietene uno di questi tre. Non sono Münchhausen questi, perché partono da valori stabiliti liberamente dalle parti prima del traccheggio per trovare 1 miliardo. O meglio ancora (nell’Ipotesi 1), basato su una corretta definizione dei diritti di proprietà.
1. Una prima valutazione (che secondo noi è la più corretta da fare)
Le banche titolari delle quote non hanno mai avuto realmente un diritto di proprietà sulla Banca d’Italia. Il diritto di proprietà, da un punto di vista economico-finanziario, si sostanzia in due componenti: (1) il titolare detiene i diritti di controllo sulle attività (control rights) e (2) il titolare ha diritti sulla remunerazione dalle attività stesse (cash flow rights). Questa teoria è stata sviluppata, fra gli altri, da Grossman, Hart e Moore (GHM), al fine di stabilire un criterio per gestire nel modo più efficiente le imprese. In Banca d’Italia se ne sono occupati a lungo negli anni novanta quando al servizio studi c’era Fabrizio Barca (es. Temi di discussione nn. 194, 195, 196, 197 del maggio 1993, tanto per citarne qualcuno. Seguì convegno e pubblicazione degli atti.)
Applicato alla Banca d’Italia, in sostanza è titolare del diritto di proprietà chi decide come impiegare le attività e le risorse della Banca, a suo piacimento, e nello stesso tempo sostiene i costi e incassa i benefici che risultano dalle sue decisioni. Nessuna di queste condizioni è applicabile ai presunti proprietari della Banca d’Italia (v. sopra quanto detto dal Governatore, v. quanto avvenuto per prassi dal 1936). Essi non hanno mai avuto il potere di indirizzo sulle attività, perché la BdI è sempre stata guidata dal Governatore, etc. (e oggi è inserita nel sistema della BCE); né hanno mai influito sulle attività di vigilanza del sistema bancario, né hanno mai avuto il potere di deliberare sulla concessione di eventuali dividendi.
Le quote non hanno mai dato e oggi non danno nessuno di questi diritti. Non c’è diritto di proprietà. Anche la trasferibilità oggi, dopo la modifica post-Saccomanni, è da concertare col Tesoro.
Che ruolo hanno avuto allora le banche titolari delle quote, che funzione avevano?
Beh, forse erano semplici depositari. Tenevano le quote in deposito come garanzia dello Stato per conto dei cittadini, cui appartiene la proprietà degli asset e dell’attività della Banca d’Italia. Le quote della Banca non andrebbero neanche inseriti nell’attivo dello stato patrimoniale (tanto meno al valore rivalutato) ma andrebbero iscritte fra i Conti d’ordine del bilancio delle banche, come titoli tenuti in deposito/garanzia per conto di terzi. Non già asset da rivalutare, ma beni di cui tenere semplice memoria. A fronte di questo servizio di deposito le banche sono state ben remunerate, per esempio 70 milioni nel 2012; aggiungiamo noi, anche perché inoltre dovevano fornire una forma di assistenza: garantire e assicurare la presenza al Consiglio e all’Assemblea, etc.
Lo Stato avrebbe potuto richiedere la restituzione delle quote e pagarle al valore nominale. Qual è?
I 300 milioni di lire del 1936 vanno rivalutati con il coefficiente di rivalutazione della moneta calcolato dall’ISTAT, cioè 300 milioni vanno moltiplicati per 2072,197 e il risultato si divide per 1936,27 (il tasso di cambio lira euro). Le quote valgono oggi € 321.060.131. I “dividendi” pagati valgono come remunerazione per servizi resi. La plusvalenza va calcolata al 12%, ma non ci dovrebbe essere, perché dovrebbe essere consentito alle banche di rivalutare la loro partecipazione di 156 mila euro a 320 milioni esentasse, quindi plusvalenza zero. Si tratta di un mero trasferimento. Si nomina il Presidente della Repubblica depositario delle quote, le tiene lui in cassaforte.
Per inciso, ricevere 70 milioni su una partecipazione di 320 è un lauto guadagno (=21,875%), non male per i servizi di cui sopra, quindi le banche sono da ritenersi soddisfatte.
2. Seconda ipotesi (che va pure bene)
OK, facciamo finta che la teoria di GHM non serve a nulla, tanto non ci credono manco in BdI dopo tutti i convegni e gli studi che hanno fatto.
Il dividendo pagato nel 2012 è stato di 70 milioni. Usiamo il Dividend Discount Model, in una forma semplificata. Al tasso del 2% (tasso di crescita medio dell’economia nel lungo periodo –magari! direbbe qualcuno) il valore attuale della rendita perpetua è 70 diviso 0,02 e quindi si ottiene 3,5 miliardi. Non male! Lo Stato deve pagare alle banche questa somma, al netto del capital gain (va bene, dai, è uno Stato in bancarotta, care banche pagate il 24% di capital gain e sia!), quindi su 3500–300 milioni. (I 300 milioni sono la quota rivalutata con l’ISTAT che sostituisce i 156 mila euro.) Al netto delle tasse sul capital gain, le banche ricevono denaro contante che può essere immesso nel sistema a finanziare le imprese.
3. Terza ipotesi che è suggerita dal fatto che il Governo ha messo in gioco il 6%
Ehi, ma il Governo, ha stabilito che il dividendo deve essere il 6%! A noi sembra un tasso di remunerazione alto, ma la nostra opinione non importa. Comunque sia, allora i 70 milioni sono il 6% del valore dalla quota.
Quindi il valore della quota (sempre calcolando il valore attuale della rendita perpetua di 70 milioni al tasso del 6%, cioè diviso 0,06) dà 1,167 miliardi (ma qui paghiamo il 12% direbbero le banche). Plusvalenza è 1167–300 milioni.
Problema della rivalutazione legato agli stress test
La rivalutazione delle quote permetterà alle banche titolari di superare con maggiore facilità i prossimi stress test cui saranno sottoposte in ambito europeo nel corso del passaggio dei poteri di vigilanza alla BCE.
Noi tifiamo Italia e sogniamo il “cielo azzurro sopra Berlino” (ovvero, data l’età, la notte del Bernabeu), per cui todo modo para buscar el stress test.
Poi però il nostro nazionalismo viene fermato dalla ragione. Si può far finta di nulla, cioè del modo in cui le banche pubbliche sono gestite, e poi aiutarle a superare lo stress? Siamo noi ad essere stressati!
Le banche la fanno franca sulla loro cattiva gestione, perché viene garantito il rispetto degli stress test. Purché però paghino il miliardo senza storie.
C’è poi la questione dei dividendi futuri. Le banche non avranno voce in capitolo nella delibera, ma li riceveranno, eccome! E saranno tanti! Negli anni futuri le banche dreneranno molto dall’attività della BdI (signoraggio, etc.) con i dividendi che saranno loro distribuiti.
Come li impiegheranno? Beninteso, in acquisti di titoli di stato.
È ritornato, in forma ridotta, il conto corrente di tesoreria presso la Banca d’Italia. Fate conto che siamo in una situazione come ai tempi dell’anticipazione straordinaria della Banca d’Italia al Tesoro del gennaio 1983, allora fu di 8 mila miliardi di lire. Fate conto che è finito il “divorzio” fra Banca d’Italia e Tesoro.
Qualcuno, in questo caso, si è anche affrettato ad agitare la questione degli aiuti di stato in sede europea: un bel flusso di danari annuale che la Banca d’Italia non verserà più al Tesoro ma alle banche titolari. Lo Stato ha trovato così la quadratura del cerchio: tassazione sulla rivalutazione (la proposta del governo è del 26%!) in acconto dei futuri flussi di cassa che arriveranno alle banche. Con questi soldi poi le banche saranno leste a continuare a comprare titoli di stato chiudendo il cerchio dello Stato che aiuta le banche che aiutano quest’ultimo ad aiutarsi: è il cerchio della vita…
Non riusciremmo a spiegare in altro modo l’acquiescenza quasi totale da parte dei rappresentanti banche all’aggressione fiscale che il sistema bancario sta vivendo. Acconti al 130%, tasse sulla rivalutazione delle quote di Bankitalia e deduzioni fiscali limitate in un clima di “dalli all’untore” senza precedenti.
En passant, va notata la gestione della comunicazione di Renzi-Padoan. Bravi! Approfittando del “dalli all’untore”, hanno sottolineato che è giusto che le banche paghino.
Ma la tassazione delle plusvalenze interessa pure soggetti proprietari delle quote che si trovano coinvolti loro malgrado, fra cui l’INPS, l’INAIL e diverse società di assicurazione (fra tutte, per le quote che detiene, le Assicurazioni Generali). Alla retorica del Governo va aggiunta “è giusto che le assicurazioni paghino” e “è giusto che i pensionati e gli infortunati paghino”. Su queste due categorie non è stato detto nulla, sono come le vittime innocenti nei conflitti.
Morale della storia
Il problema di tutto questo sistema è che va sempre a scapito delle imprese affidatarie.
Si alimenta la spesa pubblica, con l’effetto, molto temuto da Keynes, che la spesa pubblica “spiazzi” il sistema privato (crowding out), cioè che lo Stato butta fuori le imprese dall’accesso al credito. Aumentando la spesa dello Stato enormemente, le banche sono costrette a sostituire nel loro bilancio i prestiti alle imprese con titoli di stato (credit crunch). Finiscono col finanziare solo lo Stato. Nel caso Saccomanni-Padoan, con il vantaggio per lo Stato che le banche non comprano titoli di Stato (sui quali occorrerebbe poi pagare gli interessi), ma con prelievo fiscale, cioè pagando tasse sui capital gain in cambio di un aiutino per gli stress test.
Ogni anno la produzione di risparmio in una economia ha un tetto, è condizionata dalla crescita del PIL. Le banche usano questo risparmio per investirlo in titoli di stato o in prestiti alle imprese.
Oggi solo in titoli di stato e in prestiti alle grosse imprese. Le piccole si arrangino: fatti loro.
Ci sembra insomma di assistere al solito gioco delle tre carte in cui la carta vincente scompare e riappare per finire magicamente sempre nelle mani dello Stato e della politica. Cosa resta alle imprese bisognoso del credito bancario per realizzare ed investire? Niente.
Per chi ha a cuore i principi del mercato, è l’ennesimo esempio del fatto che lo Stato debba essere tenuto ad opportuna distanza. Per una volta, i fautori del libero mercato avrebbero preferito che lo Stato si appropriasse delle quote. Le banche avrebbero dovuto dire: “Caro Governo, temiamo i tuoi doni e non li vogliamo! Prenditi le quote e basta, purché stai lontano.”
Confidiamo negli amministratori delle banche, che facciano ricorso in tutte le sedi opportune, a tutela degli interessi dei loro azionisti. Sarebbe una piccola rivoluzione contro il crony capitalism!
“Confidiamo negli amministratori delle banche, che facciano ricorso in tutte le sedi opportune, a tutela degli interessi dei loro azionisti. Sarebbe una piccola rivoluzione contro il crony capitalism!!ì”. E’ auspicabile. Anche perché mi sorge un dubbio atroce. Se le banche titolari delle quote della Banca d’Italia sono le proprietarie di quest’ultima, le riserve auree, alla fin fine, di chi sono? Delle stesse banche stesse o dello Stato?
Tutto bene. A patto che le Banche rinuncino ad applicare il metodo Munchausen ai propri clienti, strozzandoli.
Specialmente ai più piccoli. Anatocismo: dice nulla questa parola?
A me puzza tanto di falso in bilancio… dello Stato.
Supponiamo per un momento che la giustizia adottasse lo stesso metro per tutti. Dopo un interminabile mega-processo (rigorosamente a carico dei contribuenti), tutto il governo e tutti i parlamentari dovrebbero essere condannati. Che “sfiga” per i poveri vecchietti dell’ospizio!!!
A parte le battute, con la rivalutazione delle quote di Bankitalia è stata creata una plusvalenza fittizia a fronte della quale le banche pagheranno tasse con soldi reali, avendo però il pricing power per rifarsi sui clienti.
Egregi,
niente di nuovo sotto il sole. Ricordate lo scandalo della Banca Romana, tutti colpevoli nessun colpevole, siamo vicini al 10° anno e all’ennesimo botto
finanziario. Si chiama” delay the death.”..Qualcuno lo stà dicendo da tempo, e probabilmente farà la fine di Rubini. L’importante è: quando scoppia trovarsi da un’altra parte.
Sinceramente non sò quanto possa servire ancora fare analisi per capire qualcosa che non si può controllare..
Saluti
RG