17
Giu
2018

Le politiche culturali del governo giallo-verde

Il programma di governo M5S-Lega sulla cultura è straordinariamente vago, e cerca di tenere insieme qualsiasi posizione e punto di vista. Anche nell’intervista rilasciata dal ministro Bonisoli al Corriere della Sera non si avanzano particolari proposte di riforma del settore. Nonostante l’atteggiamento prudente, è possibile comunque capire quali siano gli orientamenti del neo-ministro.

Riassumere il programma di governo M5S-Lega in merito alla cultura è compito abbastanza agevole. Al paragrafo 7 infatti, una paginetta, si esordisce con una introduzione che è ormai d’obbligo fare, in qualsiasi circostanza: abbiamo un ricchissimo patrimonio culturale, che ci caratterizza e ci identifica nel mondo. Però potremmo fare meglio, potremmo valorizzarlo maggiormente, utilizzarlo come volano per il turismo e per la formazione del cittadino, come leva di sviluppo economico e civile. Non bisogna fossilizzarsi sulla conservazione dei beni culturali (che comunque rimane funzione fondamentale dello Stato) ma gestirli in maniera più efficiente, facendo cooperare soggetti pubblici e privati, per migliorare i servizi offerti ai visitatori. La cultura non è un costo inutile e non si possono fare tagli lineari. Una menzione particolare poi per lo spettacolo dal vivo, perché l’attuale sistema dei finanziamenti erogati tramite FUS così com’è non va bene: i criteri non sono del tutto oggettivi, non premiano i soggetti più meritevoli, quindi bisogna rimettere al centro la valutazione della qualità.

Un programma straordinariamente vago, che cerca di tenere insieme qualsiasi posizione e punto di vista. Anche dall’intervista rilasciata ieri (16 giugno) dal Ministro della Cultura Alberto Bonisoli al Corriere della Sera non si hanno indicazioni molto più precise su quello che vorrà fare il governo. Non una idea “forte”, non una proposta di riforma su cui cimentarsi domani, solamente la volontà di “ascoltare e capire” per poi compiere delle scelte. Un atteggiamento prudente, non per forza da giudicarsi negativamente, ma che denota un certo vuoto di idee. Idee che comunque vengono manifestate, ma sembrano espresse più a titolo personale che come possibili azioni di governo.

Nell’intervista si ripercorre l’attività del precedente Ministro, perché di riforme Franceschini ne ha realizzate, e parecchie. Come le valuta il neo-ministro? I direttori stranieri vanno bene, a patto che siano bravi. La Soprintendenza unica potrebbe rimanere, però bisogna capire meglio. I 500 euro ai diciottenni invece no, giudizio negativo e condivisibile. La riforma del cinema, bene le maggiori risorse, per il resto ascoltare per capire.

Per provenienza personale (direttore di una accademia d’arte) Bonisoli dichiara di volersi dedicare a moda, costume, architettura, design, arte contemporanea. Non si sa naturalmente come e con quali giustificazioni: il “contemporaneo”, si pensi a moda e design, è settore sì trainante della nostra economia, ma che cammina sulle proprie gambe (trainante perché cammina sulle proprie gambe?), oppure l’arte, se contemporanea di complessa (o impossibile) valutazione: solo il tempo potrà decretare il “valore” dell’artista. In attesa che il tempo esprima le sue sentenze, sussiste oggi il valore di mercato, che basta a rendere vitale il settore (vitale perché si regge sulle proprie gambe? Il Codice dei beni culturali infatti non se ne occupa…).

Il neo-ministro dichiara poi di voler rafforzare tutela e valorizzazione dei beni culturali. Davvero troppo vago per poter esprimere un commento. Bonisoli però è per “l’orgoglio del pubblico”: se lo Stato faceva i panettoni, perché non potrebbe “gestire bene” una caffetteria o una libreria? Le uniche aperture “al privato”, dagli anni Novanta in poi, per quanto riguarda i musei, si sono avute grazie all’affidamento a soggetti terzi dei cosiddetti servizi “aggiuntivi” o “al pubblico” (per l’appunto, caffetterie, bookshop, ma anche organizzazione di mostre, gestione di biglietteria, didattica, audioguide, ecc.); con questa affermazione pare proprio che si voglia tornare a un mondo pre Ronchey (dal nome dell’allora ministro che negli anni Novanta aveva promosso tali aperture).

Dello spettacolo dal vivo, invece, nell’intervista non si fa menzione. E dire che nel programma di governo si avanza una proposta un po’ più definita rispetto alle altre. Nel testo balza all’occhio però una grande contraddizione: se i criteri oggi non sono oggettivi, perché si vuole puntare sulla qualità (che per definizione è il massimo della discrezionalità)? Forse perché se oggi non vengono premiati i meritevoli, è il nuovo governo che può sapere quali sono?

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