Le parole sono importanti
“Io sono quello che non ce la faccio”. Cosa direbbe mai un futuro Consiglio superiore della lingua italiana nei confronti di un romanzo che ha questo incipit?
In questi giorni è stato dato un discreto risalto alla proposta di legge per l’istituzione del Consiglio superiore della lingua italiana (Csli). Purtroppo, i contenuti precisi della proposta non sono disponibili. Ad ogni modo, qualcosa è trapelato. La presentazione della pdl si è avuta in data 16 dicembre e in quell’occasione vi è stato modo di capire qualcosa in più. Formalmente, il Csli sarebbe uno strumento per tutelare e valorizzare la nostra lingua, come tratto caratterizzante la nostra identità. E fin qui niente di nuovo. Per salvare la nostra lingua si punta il dito contro anglicismi, regionalismi e burocratese. Tre inquinanti che rendono impura la nostra lingua. Come dice l’on. Frassinetti, prima firmataria della proposta: “Quattromila termini inglesi imbastardiscono la struttura della nostra lingua. Non si vuole né fare una battaglia retrograda o autarchica contro le contaminazioni straniere, ma semplicemente difendere un’identità che nel contempo è linguistica, culturale, sociale e umana”. Ma quali compiti avrebbe il Csli? “Svolgere attività d’informazione e formazione della coscienza linguistica a tutti i livelli”. Ma non bastano, scuole, università, Accademia della Crusca, Società Dante Alighieri, Istituti italiani di cultura all’estero? Evidentemente, no. Il Csli serve per: “la promozione degli studi scientifici sulla lingua italiana con lo scopo di fornire a insegnati e operatori culturali gli strumenti necessari per la valorizzazione del patrimonio linguistico nazionale; la promozione della conoscenza delle strutture grammaticali e lessicali dell’italiano; la promozione dell’uso corretto della lingua nelle scuole, nei mezzi di comunicazione, nel commercio e nella pubblicità; l’arricchimento della lingua in modo da favorire la presenza dell’italiano nelle nuove tecnologie dell’informazione e della comunicazione; la battaglia contro il burocratese formulando proposte per agevolare e velocizzare la comunicazione tra cittadini e amministrazioni pubbliche”.
Naturalmente, di un nuovo soggetto da ergere a baluardo della lingua italiana non se ne sentiva il bisogno. Se c’è una istituzione che può evolvere senza essere guidata dall’alto questa è la lingua. D’altronde, la lingua che usiamo tutti i giorni (ogni parola che usiamo tutti i giorni) presenta stratificazioni etimologiche frutto di svariate contaminazioni. Il Csli, per combattere l’uso di regionalismi, dovrebbe bandire dalle scuole i romanzi di Gadda, oppure, per tenere alla larga dal nostro territorio contaminazioni linguistiche esterofile dovrebbe vietare che si legga nelle scuole Arbasino (in effetti, chi legge Arbasino a scuola?) o anche Fenoglio (che ricorre spesso a termini mutuati dalla lingua inglese. Non a caso il suo partigiano si chiama Johnny). Probabilmente, la cosa più interessate letta in questi giorni a proposito del Csli è stato un articolo comparso su Libero, ad opera di Giovanni Gobber. Come non essere d’accordo con lui quando afferma che:
Una lingua è uno strumento di comunicazione fra i membri di una comunità: per avere successo, deve funzionare, cioè deve essere un mezzo adatto agli scopi per i quali esiste. A giudicare l’adeguatezza della lingua come strumento di comunicazione sono ovviamente i parlanti, che formano un insieme variegato per competenze, gusti, atteggiamenti. Se qualcosa va rettificato, se un’espressione non piace più, il comportamento verbale del pubblico tende a mutare e si produce un cambiamento della lingua: spesso, questo non è determinato dall’azione (intenzionale) di singoli individui, bensì è l’esito di una serie di comportamenti verbali diffusi, adottati perché “si sente dire così”. Anche nella storia di una lingua si può immaginare che operi una “mano invisibile”, come nel mercato ideale di Adam Smith. La lingua e la realtà cambiano insieme. Il lessico cambia rapidamente insieme alla realtà o, quantomeno, all’idea di realtà imposta dal pensiero dominante. Tuttavia, gli altri settori della lingua sono assai più stabili: dal Trecento a oggi, la morfologia e la sintassi dell’italiano (nell’uso toscano) non sono cambiate molto. Si vede che agli italiani va bene così: la struttura è stabile, come una casa antisismica; il lessico è mobile, come le mode effimere dei nostri tempi.
Forse, più che Adam Smith, Gobber avrebbe dovuto citare Menger, che ha più volte usato la lingua come esempio di ordine spontaneo. E’ infatti impossibile cercare di guidare dall’alto le scelte linguistiche adottate da milioni di parlanti. Così come è difficile cercare di capire il perché di certi mutamenti nel lessico. Di sicuro non avvengono “a tavolino”. Di recente è uscito un bel libricino “Val di più la pratica. Piccola grammatica immorale della lingua italiana”. Nelle note descrittive al volume di Andrea Debenedetti si dice: “Sarà anche vero, come dicono in tanti, che l’italiano si sta imbarbarendo, che gli incolti lo inquinano, che l’inglese lo corrompe, che i giornali lo sviliscono e la televisione lo umilia, ma non c’è al mondo esercito più feroce e agguerrito di quello che presidia a colpi di penna rossa la frontiera che separa l’italiano ‘buono’ da quello ‘cattivo’”.
Il più delle volte non si può che prendere atto dei cambiamenti intercorsi nella grammatica e nel lessico italiano. La lingua muta, non si può cristallizzare. Quelli che in un primo tempo sono errori (se non c’è sul dizionario una parola si può o non si può usare?) successivamente vengono codificati e come tali accettati. I neologismi prima vengono usati e poi finiscono sul dizionario. Non si può imbrigliare un qualcosa che è vitale proprio perché può vivere di vita propria.
Forse, per la “purezza” della lingua italiana, ha fatto di più Nanni Moretti con la famosa scena di Palombella Rossa che un qualsiasi intervento dello Stato.
In pratica sarebbe la versione nostrana dell’Académie française? Quest’ultima non potrebbe essere vista (all’atto pratico) come un controesempio della posizione di Menger sull’evoluzione della lingua?
Speriamo non si arrivi a tanto. Comunque, il caso francese (in questo contesto) è preso da esempio positivo dai nostri legislatori. E si pone indubbiamente come uno strumento dirigista (antitetico ad un approccio evoluzionista e spontaneo).