Le matrioske dell’informazione
Libera informazione in libero Stato: in Italia, non è certo uno slogan. Perché le libertà a ciò necessarie ci sono tutte e tutte costituzionalmente tutelate: quella di informare e di essere informati, che nella libertà di opinione e di stampa (art. 21 Cost.) trovano compiuta espressione. C’è una disciplina antitrust per garantirle e sovvenzioni all’editoria (per approfondimenti, si veda il paper dell’Istituto Bruno Leoni) che, con dubbi risultati, mirerebbero a incrementarle. C’è una tecnologia in rapida e continua evoluzione per amplificarle e strumenti, ormai alla portata di ognuno, per meglio usufruirne. E c’è una collettività, cui tutto ciò è finalizzato, che aspira a una conoscenza di tipo sempre più “open”, consapevole che apertura è trasparenza condivisa, conoscenza diffusa e democrazia meglio esercitata.
Gli elementi idonei ad alimentare un circolo virtuoso sarebbero completi se quell’informazione libera, faticosamente conquistata e con cura difesa, non fosse da qualche tempo, sotto certi versi, limitata. Il problema è quello delle rassegne stampa on line. Sollevato a seguito della crisi dei giornali, in funzione di tale crisi esso è stato impostato, affrontato e, in qualche opinabile modo, anche risolto.
Ma perché un problema possa dirsi correttamente superato è necessario che i suoi presupposti siano stati ben analizzati e gli effetti della soluzione elaborata, a propria volta, verificati. Invece, così non pare. Perché l’assunto di partenza, cioè che la crisi dell’editoria trovi nella raccolta degli articoli quotidianamente e gratuitamente diffusi attraverso i siti internet di enti e amministrazioni una delle cause concorrenti, non sembra essere stato preventivamente dimostrato[1]. Peraltro, detta crisi viene variamente attribuita – a seconda della convenienza del momento nonché di chi ne parla – da un lato, alla situazione economica più generale, dall’altro, alla riduzione dei sussidi pubblici al settore (da ultimo, v. qui e qui). Varie obiezioni si potrebbero formulare a chi ritiene che alla crisi abbiano contributo anche le rassegne stampa on line. Un giornale completo non può certo considerarsi equivalente ai singoli articoli, su di esso pubblicati, ripresi da una qualche raccolta. E se solo gli articoli ripresi sono quelli che il pubblico reputava interessanti, sì da evitare, leggendoli nella rassegna, di acquistare l’intero giornale, qualche domanda gli editori dovrebbero porsela. Potrebbero iniziare a chiedersi il perché tante pagine di carta stampata, dallo Stato abbondantemente sovvenzionata, restino invendute, anziché continuare acriticamente ad assolversi, preferendo imputarne la causa alle rassegne.
Se, poi, davvero la crisi dell’editoria avesse avuto nelle rassegne stampa in rete una delle motivazioni essenziali, a distanza di mesi dalla loro scomparsa i supposti effetti benefici avrebbero dovuto essere già rilevabili. Ancora una volta così non pare (qui i dati su vendite nel mese di maggio e tabelle comparative con il mese di aprile). La soluzione adottata, vale a dire la chiusura al pubblico delle rassegne on line non è stata, dunque, in modo idoneo a priori supportata né a posteriori fondatamente verificata. La collettività è stata così privata di uno strumento di informazione, senza che ciò venisse giustificato dalla ragionevole certezza di benefici per il settore editoriale, in termini di maggiori vendite dei beni che esso produce. Peraltro, la circostanza che la chiusura delle rassegne abbia riguardato anche gli archivi storici, quelli che di certo sulle vendite future dei giornali non avrebbero influito, fa sorgere il sospetto che il fine perseguito fosse diverso da quello dichiarato.
Ci sono norme specifiche, si potrebbe obiettare, sulla base delle quali la soppressione delle raccolte stampa è stata fondata: sono quelle previste dalla legge n. 633/1941, sulla Protezione del diritto d’autore e di altri diritti connessi al suo esercizio (per le più rilevanti pronunce giurisprudenziali in materia v. qui). Dunque, non servirebbe dimostrare che l’interesse da tali norme tutelato sia più rilevante di quello all’informazione che, con l’applicazione delle stesse, si è limitato. La legge pone il divieto di riproduzione, con qualsiasi mezzo, dell’opera dell’ingegno (art. 13). A ciò fanno eccezione gli “articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali (…), se la riproduzione o l’utilizzazione non è stata espressamente riservata, purché si indichino la fonte da cui sono tratti, la data e il nome dell’autore, se riportato” (art. 65) e, comunque, sempre che “la riproduzione sistematica di informazioni o notizie” non venga fatta “a fine di lucro” (art. 101, c. 2, lett. b). Vi è, poi, la convenzione di Berna (come modificata dall’Atto di Parigi del 24 luglio del 1971, recepita in Italia con la legge 20 giugno 1978, n. 399) per la protezione delle opere letterarie ed artistiche: per “rassegna stampa” essa intende “un insieme di citazioni di articoli di giornali e riviste periodiche, a condizione che dette citazioni siano fatte conformemente ai buoni usi e nella misura giustificata dallo scopo” (art. 10), ma poi fa salve le disposizioni nazionali che consentono la riproduzione di articoli di attualità (art. 10 bis), in termini analoghi a quelli della legge sopra citata.
Nonostante le norme suddette, esistenti da tempo, le rassegne stampa sono state divulgate senza che nessuno avesse da obiettare. Ma la Federazione Italiana Editori Giornali (FIEG), lo scorso anno, ha sollevato la questione dei diritti d’autore non rispettati. Così, unitamente a Uspi, Anes, Mediacoop e Fisc, per conto delle società rappresentate, a fini di valorizzazione del loro prodotto editoriale, ha inviato una nota i responsabili dei siti web delle amministrazioni che si avvalevano di rassegne stampa on line. In detta nota, le ha invitate a valutare, se non espressamente autorizzate, “la sospensione, nella modalità liberamente accessibile al pubblico, della pubblicazione in internet di articoli e/o dispacci di giornali e agenzie rappresentate della scriventi associazioni editoriali”. E’, quindi, stata costituita Promopress, società a responsabilità limitata facente capo alla FIEG, al fine di gestire i diritti d’autore in relazione alle rassegne stampa: in particolare, mediante un “Repertorio” cui può aderire ogni società del settore interessata – editori o società che forniscono rassegne stampa o qualunque altra categoria di utilizzatori, indipendentemente dall’appartenenza ad un’associazione di rappresentanza – essa incrocia l’offerta di contenuti giornalistici con la domanda della loro riproduzione. L’accordo tra le controparti comporta l’adesione a un modello di licenza che ne definisce costi, termini e condizioni.[2]
E’evidente che il sistema ruota intorno a un unico soggetto, Promopress, a propria volta emanazione di un altro soggetto (FIEG) che, confederando le principali testate italiane, riveste per definizione una posizione di forza: tant’è che le licenze e le relative condizioni d’utilizzo vengono da quest’ultimo unilateralmente e in modo standard definite. Si è così in qualche modo blindata la possibilità di altre soluzioni a tutela del diritto d’autore il cui contenuto gli editori avevano già blindato a propria volta, facendo diventare regola ciò che avrebbe dovuto essere eccezione: perché se la legge n. 633/1941, in generale, vieta la riproduzione dell’opera dell’ingegno, da tale divieto esclude, come visto, gli “articoli di attualità di carattere economico, politico o religioso, pubblicati nelle riviste o nei giornali”, e cioè quelli più funzionali a un’effettiva informazione. E se prevede che anche di questi ultimi “la riproduzione o l’utilizzazione” possa essere “espressamente riservata”, è evidente che, rispetto alla disposizione generale, questo dovesse rappresentare solo un caso speciale.[3] La riproduzione sistematica di informazioni o notizie non può avvenire a fini di lucro, dice in modo chiaro la legge, ciò per salvaguardare i proventi di chi le fornisca: ma destinatario di informazioni e notizie via rassegna stampa è il pubblico, che quei proventi in qualche modo già li versa con le tasse che consentono alla stampa di essere sussidiata dallo Stato. E’ uno Stato che i diritti di tutti garantisce, ma che ai contribuenti poco pensa. E proprio quelle tasse sovvenzionano testate inutili e poco diffuse, o grandi gruppi solidi e già ben affermati, in nome di un pluralismo tanto proclamato quanto poco, nei fatti, concretamente perseguito e, soprattutto, verificato. Se pluralismo significa circolazione di opinioni che concorrano a creare una conoscenza diffusa e una coscienza individuale e sociale consolidata, più che dal finanziamento di testate dai contenuti irrilevanti esso verrebbe favorito consentendo che quelle tasse che sussidiano la stampa tornino al pubblico che le versa mediante contenuti editoriali fruibili in raccolte pienamente accessibili. Così la libertà di essere informati verrebbe meglio tutelata, ma anche quella di informare: basti pensare che le rassegne stampa sono spesso l’unico palcoscenico su cui piccoli giornali, on line o poco conosciuti, possono comparire, essere così pubblicizzati e, se del caso, anche apprezzati e seguiti, oltre l’ambito della rassegna. L’informazione, grazie alla rete e a chi la sa usare, oggi è più facile da reperire, ma il suo valore è sempre maggiore (circa le contraddizioni che sempre più contraddistinguono la sfera dell’informazione si era espresso da tempo S. Brand): tuttavia, ciò non implica che essa debba comportare un costo per chi già la finanzia, mentre chi la produce non si senta neppure gravato del costo, almeno, di migliorare. Ma la libertà di stampa è un fine che i giornali hanno sempre chiesto venisse rispettato con la modalità principale che in questo Paese vige, cioè con finanziamenti e agevolazioni, senza troppo adoperarsi per garantire qualità dei contenuti e coraggio dell’innovazione. E allo stesso fine e con le stesse modalità continuano a volere venga assicurato, per il tramite della propria associazione, il rispetto di una legge sul diritto d’autore inadeguata, che cristallizza e tutela realtà avulse dalla flessibilità che la tecnologia consente (per interessanti spunti al riguardo v. qui).
A una sorta di blindatura sopra si accennava, quasi un sistema di matrioske: quella dei giornali, dallo Stato abbondantemente e irrinunciabilmente sovvenzionati; quella delle rassegne stampa, contenitori dei contenuti dei giornali, che un solo soggetto, per lo più, struttura e controlla; e, ancora, quella in cui, in forza del diritto d’autore, un giornale può concedere – come peraltro già avvenuto – l’esclusiva della pubblicazione dei propri articoli a una specifica agenzia, impedendo così a ogni altra di riprodurli. In questo modo l’informazione, sempre più limitata in nome di diritti per legge garantiti, finisce per essere custodita, o per meglio dire blindata, nell’ultima matrioska che intorno le sia stata posta: ciò legittimamente, perché non c’è norma che venga violata, anzi, quelle vigenti vengono ancor più pienamente rispettate, ma la libertà di essere informati, fondamento di ogni democrazia, ne risulta sacrificata. I giornali continuano a pretendere contributi, i loro contenuti non vengono migliorati, tra costose e inutili pagine qualche scritto di qualità stenta a essere trovato e al contribuente, le cui tasse vengono così dissipate, neanche la consolazione della rassegna gratuita la mattina viene restituita. Nascosta in fondo all’ultima matrioska, l’informazione potrà, dunque, essere reperita.
Le opinioni sono espresse a titolo personale e non coinvolgono in alcun modo l’ente di appartenenza (Consob)
[1] Anche la giurisprudenza ( Trib. Milano, ordinanza 8 aprile 1997), ritenendo che con l’offerta di una rassegna stampa gratuita “…l’acquisto delle pubblicazioni (..) è illegittimamente escluso”, con conseguente danno economico per le società editrici delle pubblicazioni medesime, che vedrebbero così ridotte le proprie possibilità di vendita, non ha di fatto ritenuto necessaria la prova di un nesso causale concreto fra i due eventi.
[2] Sul sito Promopress non sono visibili i testi delle licenze standard per le categorie di eventuali utilizzatori, ancorché ne vengano indicati i link, come da qui risulta http://www.repertoriopromopress.it/licenze.asp . La licenza tipo predisposta per le agenzie che redigono rassegne stampa è qui riportata: http://www.primaonline.it/2012/09/24/109688/repertorio-promopress-e-contratto-di-licenza-ars-agenzie-rassegne-stampa/ . In sintesi, le agenzie pagano a Promopress un corrispettivo annuo calcolato in base al proprio fatturato (il 2% degli introiti annui al netto di lva per il 2012, il 4% per il 2013, il 6% per il 2014, 1’8% per il 2015) e la società, a sua volta, lo suddivide tra gli editori in base al numero annuale degli articoli riprodotti.
[3] La sentenza della Corte di Cassazione n. 20410 del 2005 sancì che, se la riproduzione è riservata, un articolo non può essere ripubblicato da altri e che elaborare rassegne stampa sistematicamente diffuse il giorno stesso della pubblicazione degli articoli è una condotta commercialmente scorretta, vale a dire concorrenza sleale. E’ a quell’epoca che si fa risalire l’uso dei giornali di inserire sempre, dopo gli articoli, l’indicazione “riproduzione riservata”.
Eccellente analisi.
I giornali, come gran parte dei fornitori di contenuti, sono vittime di un’illusione da “proprietà intellettuale”. Ancorati a un sistema in cui l’informazione è un bene scarso, non hanno capito in larga parte come adattarsi a uno in cui diventa un bene naturalmente abbondante, e conducono una battaglia passatista contro i loro stessi interessi, tranne pochi illuminati (es: La Stampa). Come in Germania dove hanno sostenuto un’assurda lotta per avere una quota da Google, la quale ha detto “bene, non volete vi indicizziamo, non vi indicizziamo, qui c’è gente che *paga* per esserlo”.
Il problema sono ovviamente le esternalità negative, in termini di appesantimento delle norme (vedi anche la proposta di regolamento AGCOM, ispirata al modello fallimentare HADOPI francese).