2
Feb
2021

Le forme della politica e la sostanza della democrazia

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Claudio Martinelli.
Questo articolo è stato precedentemente pubblicato su Il Sole 24 Ore
.

Le battaglie politiche appena andate in scena in entrambi i rami del Parlamento sono state analizzate e radiografate dai mezzi di comunicazione, senza lesinare particolari e retroscena. Eppure, vi è un piccolo dettaglio passato quasi sotto silenzio che invece costituisce una spia significativa di un certo modo di essere di un’intera classe politica.

Quando ha preso la parola, prima alla Camera e poi al Senato, il Presidente del Consiglio si è ripetutamente rivolto in modo esplicito e diretto ai cittadini invece che ai loro rappresentanti che gli sedevano davanti e che lo stavano ascoltando. Apparentemente potrebbe sembrare un’osservazione priva di interesse ma in realtà non è così. La tradizione parlamentare prevede che ogni discorso tenuto in quelle Aule si apra con la formula: «Signor Presidente, Onorevoli colleghi», e relative varianti legate alle questioni di genere o al fatto che l’oratore possa non essere un parlamentare. Non si tratta di una mera concessione allo stile oratorio o del polveroso retaggio di un passato fatto di vuoti convenevoli. Al contrario, quelle parole esprimono una sostanza impregnata della storia del Costituzionalismo. Premettere che ci si sta rivolgendo ai presenti significa sottolineare il ruolo della rappresentanza come architrave della democrazia liberale. In questa tradizione, limitare il dialogo ai componenti delle assemblee non viene considerato una diminutio bensì un ampliamento dell’autorevolezza del discorso. I rappresentanti, infatti, si chiamano così perché, anche solo con la loro semplice presenza, danno corpo a chi non è presente, cioè i cittadini appunto, e ciascuno di loro, come recita l’articolo 67 della Costituzione, «rappresenta la nazione». Ovvero, chi parla dovrebbe vedere dietro ogni singolo parlamentare l’intera nazione, un concetto perfino più ampio rispetto a quello di “popolo”. Se si ragionasse così, con un richiamo concreto e alto alla Costituzione, invece di evocarla troppe volte in modo retorico e improprio, si eviterebbero le scivolate come quella in cui è incappato il capo del Governo. Spostare la direzione delle parole verso un destinatario non presente, confidando sulla potenza comunicativa della diretta televisiva, non significa solamente contravvenire ad una forma estetica ma soprattutto porsi in contrasto con un radicato galateo istituzionale, rispettato in tutti i parlamenti delle democrazie consolidate proprio perché funzionale a ribadire i canoni essenziali della rappresentanza. 

Naturalmente non stiamo parlando di qualcosa di drammatico, di una violazione specifica di una regola giuridica che meriti chissà quale sanzione. Niente di tutto ciò. Siamo però di fronte all’ennesimo episodio che segnala un degrado dei costumi istituzionali. Il recente passato è ricco di esempi in tal senso. 

Durante la precedente legislatura, da parte di un intero Gruppo parlamentare è stata teorizzata e praticata più volte l’idea che, nel contesto politico contemporaneo, per opporsi ad un importante progetto di legge non sia più sufficiente esprimere un voto contrario in Parlamento, auspicabilmente dopo avere spiegato in modo razionale e dialettico le ragioni di questa posizione, bensì sia necessario e doveroso evitare di partecipare alla votazione in Aula, uscire dal palazzo e arringare la folla, assiepata urlante davanti ai portoni di Montecitorio. Al fondo di queste modalità di condurre la lotta politica albergava, più o meno esplicitamente, la convinzione che i rituali della democrazia parlamentare sono ormai stanchi, non eccitano più le folle, non esprimono sufficiente indignazione, e dunque non sono in grado di demarcare il terreno tra i “buoni” e i “cattivi”, o presunti tali. Pertanto, il rappresentante si deve confondere, anche fisicamente, con i rappresentati per farsi carico dell’avversione plastica e totalizzante che emerge dal sentimento popolare. Peccato che tutto ciò costituisca l’esatto opposto della funzione parlamentare, una vera e propria abdicazione rispetto al ruolo per cui le assemblee parlamentari storicamente sono nate e che la Costituzione repubblicana ha ribadito con forza. 

Ebbene, questi ed altri scomposti momenti della vita istituzionale italiana, che pur in forme diverse continuano a ripetersi, che cosa ci mostrano? Possiamo leggerli come trascurabili eccezioni rispetto ad un quadro di sostanziale tenuta della tradizione parlamentare oppure ci dovrebbero indurre a trarre qualche elemento di maggiore preoccupazione? Certamente non è in atto alcun clamoroso vulnus alla democrazia, nessun assalto al Congresso tentato da qualche “sciamano all’italiana”, e tuttavia possiamo leggerli come segnali preoccupanti di uno scivolamento, magari lento ma costante, verso una definitiva cesura con la tradizione del costituzionalismo che, come è noto, richiede il rispetto di forme espressive, rituali procedurali, rispetto dei limiti. A mio parere, si tratta di spie riconducibili ad un problema sistemico, molto più grave e profondo, che si è nuovamente palesato proprio in occasione della crisi politica di questi giorni: il Paese esprime da troppo tempo una classe politica sradicata. Ovvero, priva di tutte le radici che dal XVIII secolo in poi hanno dato senso ai costumi e alle scelte politiche: valori da affermare, ideali da perseguire, limiti da non valicare, vocaboli da utilizzare e altri da evitare. La fine delle ideologie, per molti versi salutare e inevitabile, ha però finito per travolgere anche questi parametri, senza i quali la politica si riduce a mera convenienza e vuota comunicazione, in cui troppo spesso il pragmatismo sfocia nella spregiudicatezza, e il personalismo prende il posto della progettazione del futuro. 

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