Le falle dell’acquedotto pugliese
Le ultime vicende relative all’acquedotto pugliese confermano quanto sostenuto anche in questo blog, ossia che il referendum sui servizi pubblici locali è stato percepito come consultivo, piuttosto che abrogativo (con uno snaturamento dell’istituto previsto dalla Costituzione).
Il 20 giugno 2011, a risultato referendario ancora caldo, la Puglia ha approvato una legge che pubblicizza sostanzialmente il regime giuridico del servizio idrico, “sfidando” il governo a dichiarare guerra alla volontà popolare con l’impugnativa di questa legge. L’assessore regionale alle Opere pubbliche e Protezione civile, Fabiano Amati, ha infatti sostenuto che “il Ministro degli Affari Regionali avrebbe potuto delegare l’impugnazione al Ministro della Difesa, così come si fa appunto in “tempo di guerra”.
Per nulla impressionato dall’ukase dell’assessore, il governo, pochi giorni fa, ha ovviamente impugnato la legge rilevandone diversi profili di incostituzionalità. A prescindere da alcuni aspetti marginali, il punto focale della questione politica e giuridica è se, e fino a che punto, le regioni, ma anche lo stesso Stato, possono pubblicizzare davvero il servizio idrico. Abbiamo ripetutamente detto che, al di là degli slogan in campagna referendaria, esiste pur sempre un sistema europeo di regole ed un quadro costituzionale di riferimento che rendono pressoché velleitario ogni tentativo di realizzare in concreto gli obiettivi conclamati con il referendum, specialmente da parte delle regioni, vincolate dal rispetto del riparto delle competenze legislative fissato in Costituzione.
La legge della Puglia afferma solennemente in apertura che “L’acqua è un bene comune, di proprietà collettiva, essenziale e insostituibile per la vita” e che “La disponibilità e l’accesso all’acqua potabile, nonché all’acqua necessaria per il soddisfacimento dei bisogni collettivi, costituiscono diritti inviolabili e inalienabili della persona umana, diritti universali non assoggettabili a ragioni di mercato”. Con la Puglia, altre regioni e altri enti locali hanno forzato le loro competenze o per dichiarare ovvietà (il decreto Ronchi proprio con l’art. 23 bis oggetto di referendum aveva già affermato “la piena ed esclusiva proprietà pubblica delle risorse idriche, il cui governo spetta esclusivamente alle istituzioni pubbliche”) o per rivendicare funzioni che non sono di loro competenza come pronunciato dalla suprema Corte (v. la legge Marche di assestamento al bilancio 2011 e la modifica allo statuto comunale di Venezia).
Verranno dunque al pettine della Corte costituzionale i nodi di una impossibilità giuridica di pubblicizzare i servizi idrici? Sarà questa l’occasione per fare luce su alcune delle mistificazioni referendarie, a partire dall’affermazione che la legge abrogata metteva in discussione la natura pubblica dell’acqua? Sarà la volta buona perché anche regioni e enti locali smettano di inseguire i fantasmi della ideologia/demagogia e assumano comportamenti finalmente più pragmatici nel rispetto delle regole sovranazionali e nazionali?
Le ideologie finiscono sul momento di aprire i portafogli e PAGARE il costo dei pubblici acquedotti e dei depuratori. Domani quando le bollette triplicheranno (o gli acquedotti chiuderanno) allora i cittadini diranno in coro: ” Ma non è pubblica ?”