Le contraddizioni della nuova PAC – 5: conclusioni
Albert Dess, l’europarlamentare della CDU che ha steso la bozza il cui testo costituisce il cuore della nuova Politica Agricola Comune, è titolare di una fattoria didattica in Baviera, una di quelle attività agricole che hanno perso completamente il legame con la produzione e con il mercato diventando piuttosto uno strumento divulgativo di come è (o era, o dovrebbe essere, a seconda della propria personalissima scala di valori) la vita in campagna.
Se il perseguimento dei cosiddetti “public goods” è diventato il cardine della riforma, se l’erogazione di una bella fetta di sussidi sarà ancor più condizionata all’adozione di pratiche agricole ecosostenibili (ma sarebbe meglio dire “all’antica”, dato che non vi è nulla di sostenibile nell’agricoltura biologica, nell’agricoltura di prossimità, nella salvaguardia di un modello produttivo inefficiente) per la sua attività questo non costituirà certo un grosso problema, anzi.
Se l’impresa agricola non trova nel mercato la ragione della sua esistenza, ma nella soddisfazione di alcuni requisiti stabiliti a monte da un gruppo di burocrati, e in funzione di questi deve essere retribuita, a prescindere dalla sua efficienza, produttività, capacità di innovare e venire inconro alle esigenza dei consumatori, allora senza dubbio questa è la PAC ideale.
Per gli agricoltori italiani i soldi sono diminuiti, e questo era prevedibile. Il budget doveva essere riequilibrato tra gli stati membri, visto e considerato che ai tempi dell’ultima riforma il periodo preso come riferimento per il calcolo dei sussidi che ogni agricoltore ha titolo di ricevere era stato il triennio 2000-2002, ovvero un periodo in cui molti dei paesi dell’Europa Orientale ancora non facevano parte dell’Unione. Ma non è questo, a mio avviso, il problema maggiore. Il problema, casomai, è che a fronte della diminuzione degli aiuti che ogni azienda agricola potrà ricevere, siano aumentati al tempo stesso anche i vincoli, quando la logica vorrebbe esattamente il contrario: meno soldi, più libertà.
Per riequilibrare il budget tra paese e paese in maniera non troppo traumatica sono state adottate delle misure, quelle riferite al tetto agli aiuti e alla figura dell’agricoltore attivo, dall’impronta smaccatamente demagogica, prevedibilmente non in grado di ottenere nessun risultato tangibile se non quello di costituire un forte disincentivo all’accorpamento fondiario e al conseguimento, da parte delle imprese, di economie di scala adeguate ai tempi. La scelta è stata quella della conservazione (ormai in formalina, sarebbe il caso di dire) dello status quo e della rinuncia definitiva a competere su un mercato globale che vede la domanda di materie prime agricole in costante aumento, trainata dalla crescita, demografica ed economica, delle economie emergenti.
Saranno loro, i paesi emergenti (tra i quali, dal punto di vista degli investimenti nell’agroalimentare, è necessario inserire oggi anche il continente africano) che daranno, con ogni probabilità, da mangiare a noi europei negli anni a venire. Probabilmente non ce ne renderemo neanche conto, convinti come siamo che il cibo cresca sugli scaffali dei supermercati e che l’azienda agricola ideale sia quella delle illustrazioni dei libri delle scuole elementari.