Le contraddizioni della nuova PAC – 3: ‘l’agricoltore attivo’
Il 12 ottobre la Commissione Europea ha ufficialmente presentato il pacchetto di iniziative volte a riformare la Politica Agricola Comune (PAC) da qui al 2014, quando la riforma entrerà in vigore. E’ una serie di misure molto complesse, che merita migliore approfondimento. Intanto vorrei dedicare alcuni brevi post alle contraddizioni più evidenti della proposta appena approvata, seguendo il canovaccio dell’efficace sintesi riportata sul periodico online “Agronotizie”.
Terza puntata: “l’Agricoltore attivo”
La futura Pac conterrà una nuova definizione di ‘agricoltore attivo’: per escludere coloro che non hanno un reale impatto sulla produzione, d’ora in poi la percentuale degli aiuti dovrà rappresentare almeno il 5% del reddito globale del beneficiario degli aiuti.
Anche in questo caso, come in quello del “tetto agli aiuti” che abbiamo esaminato la volta scorsa, il rimedio rischia di essere peggiore del male. L’idea di premiare chi lavora realmente la terra, escludendo dai sussidi quelli che ormai hanno abbandonato l’attività agricola pur conservando la rendita della PAC, sembrerebbe essere un’iniziativa lodevole, ma sbaglia clamorosamente il bersaglio (e non è detto che lo sbagli per caso).
Oggi un ettaro di terra riceve, in media, circa 300 euro di aiuti diretti. Chi possiede 100 ettari di terra beneficia automaticamente di 30.000 euro ogni anno, anche seminando un prato poliennale di foraggere: con un impegno minimo iniziale può garantirsi una buona rendita per alcuni anni, alla quale potrebbe sommare 150 euro per ettaro circa se converte l’azienda al biologico, arrivando a beneficiare di 45.000 euro annui, ai quali dovrebbe sottrarre solo il costo annuale della presentazione della domanda per la PAC. Più che sufficiente per garantirsi un’esistenza dignitosa, e soprattutto sufficiente per continuare ad essere considerato “agricoltore attivo”, anzi attivissimo, dato che il reddito globale continuerà a provenire esclusivamente dagli aiuti.
Chi invece rischia di perdere la qualifica di “agricoltore attivo”, e quindi i sussidi, saranno non solo coloro per i quali l’attività agricola è diventata talmente marginale da far sì che gli aiuti costituiscano meno del 5% del reddito globale, a prescindere da come viene condotta l’azienda (l’attività agricola potrà costituire una minima parte del reddito di un imprenditore, ma questo non prova che quell’attività non venga svolta correttamente, contribuendo attivamente alla produzione). Rischieranno di perdere gli aiuti anche coloro i quali, dedicandosi anche alla trasformazione e alla commercializzazione dei loro prodotti, sono riusciti a ridurre a meno del 5% del loro reddito globale il peso degli aiuti, ovvero proprio gli agricoltori più attivi e meritevoli di tutti.
E comunque, anche in questo caso sarà facile risolvere il problema (almeno per chi ne ha la possibilità) ricorrendo a prestanome o intestando l’azienda a familiari inoccupati. Non sarebbe la prima volta che succede: alcuni anni fa, tramite il capitolo degli aiuti allo sviluppo, c’era la possibilità in molte regioni di ottenere dei finanziamenti a fondo perduto per il cosiddetto “primo insediamento”, una misura dedicata ai giovani che iniziavano l’attività di imprenditore agricolo. Lascio immaginare quanti hanno approfittato dell’occasione per intestare l’attività ai figli, mentre i giornali di settore pubblicavano statistiche ed entusiastici resoconti sul ritorno dei “ggiovani” alla terra…