Le contraddizioni della nuova PAC – 1: il ‘Greening’
Il 12 ottobre la Commissione Europea ha ufficialmente presentato il pacchetto di iniziative volte a riformare la Politica Agricola Comune (PAC) da qui al 2014, quando la riforma entrerà in vigore. E’ una serie di misure molto complesse, che merita migliore approfondimento. Intanto vorrei dedicare alcuni brevi post alle contraddizioni più evidenti della proposta appena approvata, seguendo il canovaccio dell’efficace sintesi riportata sul periodico online “Agronotizie”.
Prima puntata: Il “Greening”
Il 30% dei sostegni agli agricoltori sarà condizionato al cosiddetto ‘Greening‘. Chi non si conformerà alle misure previste per garantire la sostenibilità ecologica della produzione agricola perderà dunque questa parte di finanziamenti. Non solo: potrebbe rischiare sanzioni aggiuntive. Tre le pratiche ambientali obbligatorie: diversificare le coltivazioni (un minimo di tre colture); prevedere pascoli permanenti; dedicare il 7% del terreno a fini ecologici. Con quest’ultima misura, si intendono tutte le forme, anche non direttamente produttive, per mantenere la terra fertile, ad esempio piantare alberi per contrastare l’erosione dei suoli.
Anche se non è un tema molto sentito in Italia, nel resto del continente il fatto che i contribuenti paghino di tasca loro parte del reddito degli agricoltori non è sempre visto di buon occhio. Per questa ragione, già da un decennio circa, una parte considerevole degli aiuti è destinata a finanziare la produzione di “public goods“, ovvero di quei beni che secondo la teoria economica non vengono remunerati adeguatamente dal mercato ma dai quali la collettività trarrebbero comunque un beneficio: salvaguardia ambientale, lotta ai cambiamenti climatici, tutela del paesaggio rurale e della biodiversità, sopravvivenza della piccola impresa agricola.
Quindi la PAC è stata, da tempo, suddivisa in due pilastri: il primo è quello degli aiuti diretti, il secondo è quello dei cosiddetti “aiuti allo sviluppo”, essenzialmente destinato a remunerare i “public goods“, attraverso i Piani di Sviluppo Rurale elaborati, in Italia, dalle regioni: sostegno all’agricoltura biologica e ad altre pratiche agricole ritenute in qualche misura ecosostenibili, finanziamenti a fondo perduto alle imprese (ma non solo alle imprese, anche gli enti locali ne possono beneficiare e ne hanno beneficiato a piene mani) per progetti che contengono una qualche spruzzata di verde, almeno nelle intenzioni dichiarate. La novità è che oggi questo sembra non essere più sufficiente, ed anche il 30% degli aiuti diretti sarà condizionato all’adozione di pratiche ritenute ecosostenibili: di più, chi dovesse scegliere di fare diversamente rischierà delle sanzioni.
Il risultato di una misura del genere, facilmente prevedibile, sarà una contrazione della produzione in un momento in cui i prezzi delle materie prime indicano che l’offerta di cibo non è adeguata alla domanda. Un esempio: immaginiamo una zona vocata alla coltivazione del mais, in cui un ettaro di terreno produce in media 150 quintali per ettaro di granella, e nella quale il mais viene alternato, ogni due anni, con una coltura miglioratrice. Imporre una rotazione triennale di tre colture differenti siginfica dimezzare la produttività di quel terreno: laddove prima in tre anni un ettaro rendeva 300 quintali di granella di mais, con la nuova PAC non potrà rendere più di 150 quintali, la produzione di un anno. E un effetto analogo si avrebbe se la diversificazione tra le colture venisse imposta non nel tempo, ma nello spazio, costringendo aziende che non hanno nessuna convenienza a farlo a ridurre la superficie dedicata alla coltura principale per fare spazio ad altre.
A questo va aggiunto il 7 percento di superficie aziendale da dedicare a non meglio specificati “fini ecologici”, anche slegati dalla produzione, misura questa che sembra voler sostituire il vecchio “set-aside” cioè la percentuale di superficie aziendale che doveva essere obbligatoriamente lasciata incolta in un epoca, gli anni ’90, in cui la riduzione della produzione agricola europea era l’obiettivo principale della PAC. Ma allora l’Europa affogava nelle eccedenze, i prezzi globali delle soft commodities precipitavano, e un obbiettivo del genere poteva avere un senso. Oggi che senso ha?
Certo, molte aziende già diversificano la produzione di loro iniziativa (la diversificazione in genere riduce l’esposizione alla volatilità dei prezzi, oltre a garantire il mantenimento della fertilità del terreno). Ma anche l’azienda portata nell’esempio pratica una forma di alternanza: due anni di mais e una di miglioratrice, magari favino o un’altra leguminosa a basso valore aggiunto, sufficiente a garantire un buon livello di sostanza organica nel terreno e un buon livello di produttività. Una misura del genere non dimezzerà la produzione europea, ovviamente, ma avrà sicuramente il suo peso.
Il cibo è per eccellenza il bene a domanda anelastica: sono necessari forti aumenti di prezzi per indurre una contrazione dei consumi. Allo stesso modo anche una lieve contrazione dell’offerta, in un momento in cui la domanda è in costante aumento, contribuisce a lanciare in alto i prezzi: nel 2010 una contrazione del 5% della produzione globale, dovuta a diversi fattori, ha fatto raddoppiare il prezzo dei cereali. Non è difficile immaginare chi ne sta pagando le conseguenze.
Ma chi coltiva frutteti o vigneti cosa deve fare? estirpare parte delle piante e piantarne altre?
@luciano pontiroli: no. Questa è una misura che riguarda i seminativi.
Io sono un risicoltore.
Faccio riso tutti gli anni e produco davvero tanto. Ciò a cui miro è la riduzione delle spese di produzione: concimi e fitofarmaci costano troppo. Certi concimi anche 120€ a quintale, insostenibile !! Non se ne trovano di produzione estera a buon mercato. Anche gli OGM ci renderebbero la vita più facile ma sono vitati a causa dell’ignoranza di politici e popolazione. Con l’unico seme di riso legale modificato geneticamente, che si chiama “Libero”, (modificato mediante selezione e processi legali, non OGM) ho risparmiato 3 passate di diserbo chimico, la pulizia manuale, ore di trattore, operai da pagare, gasolio, manutenzione di apparecchiature, esposizione ad agenti chimici. Insomma un risparmio enorme ma “Libero” non può essere coltivato per più di due anni consecutivi, pena forme di resistenza al diserbante specificatamente creato per questo seme. Con semi OGM potrei avere benefici tutti gli anni.
Mi devo ancora studiare approfonditamente la nuova PAC, ma quello che leggo per ora su internet non mi piace, è demagogico e danneggia gli agricoltori. Ricordiamoci che l’agricoltura, oltre a darci da mangiare, è anche il motivo principale per cui l’Italia è conosciuta nel mondo, grazie alla cucina.
Stanno facendo di tutto per ridurre la produzione e il meritato profitto.
@Giulio
Caro Giulio, purtroppo ti sbagli, loro non vogliono ridurre il profitto, vogliono annullarlo, in modo che gli agricoltori diventino a tutti gli effetti degli impiegati statali, che i loro unici guadagni siano dati dagli incentivi e che quindi siano costretti a fare quel che vogliono su a Bruxelles, coltivare le piante che vogliono loro e coi metodi che vogliono loro.
Ho ragionato un attimo su questo articolo senza prevenzioni e mi pare che limitare la possibilità di produzione significa contribuire a tenere alto il prezzo dei cereali (stiamo parlando di un prezzo alla produzione, quello al dettaglio dipende dalla grossa cresta del commerciante alimentare), che garantisce un maggior reddito e più diffuso, ma anche una scarsità di cereali nei paesi poveri (che però in parte potrebbero produrli da sè per sè).
In caso contrario all’aumentare delle produzioni e al diminuire dell’utilizzo dei cereali per i biocarburanti (sempre + cellulosici), scenderebbe il prezzo e sarebbero più competitivi i produttori con grandi superfici. Al crollare dei redditi seguirebbe quello del valore dei suoli agricoli di cui potrebbero agevolmente entrare in possesso i molto grandi produttori, che potrebbero alla lunga anche imporre il loro prezzo; in tal caso il settore agricolo sarebbe competitivo, ma si perderebbe la valenza di stabilizzazione sociale (e quindi di tutela territoriale e paesaggistica) che può essere data dalla presenza di tante aziende + piccole. Inoltre non vendendo cereali sotto costo ai paesi poveri questi potrebbero in modo analogo sviluppare una loro agricoltura. Poi nulla esclude di gestire un incremento delle terre a coltura per calmierare il prezzo ed aumentare l’offerta. Meglio così che imporre delle quote. Bisogna comunque fare dei conti per vedere se il prezzo più alto attuale se stabilizzato possa remunerare il calo di produzione.
Infine penso sia meglio un greening da rotazione che mettere a riposo perennemente dei terreni che poi finiscono destinati ad altri usi: le sovvenzioni devono essere vincolate alla pratica dell’agricoltura.
@Giulio
E’ evidente che il riso non può andare in rotazione tranne se coltivato in asciutta, ma in quel caso hai bisogno di più diserbante e quindi ti tornerebbe utile una qualche varietà biotech.
La rotazione di riso in asciutta potrebbe però ridurre la presenza di infestanti e le spese per fertilizzanti e magari anche aumentare un pò la produzione (rispetto all’asciutta senza rotazione). Con una PAC di questo tipo bisognerebbe forse liberalizzazione gli ogm in zone vocate all’agricoltura intensiva, in modo da lasciare un margine per possibili incrementi di rese a vantaggio dei + innovativi, pur senza incorrere automaticamente in sovrapproduzioni.