16
Gen
2018

Le buone riforme pagano: il caso delle pensioni in Cile

Il sistema pensionistico cileno è salvo. Nonostante i propositi di controriforma della presidente uscente, Michelle Bachelet, le elezioni di dicembre hanno offerto un risultato netto: Sebastian Piñera a marzo tornerà alla Moneda, il palazzo presidenziale che aveva già occupato dal 2010 al 2014. Qualunque cosa si pensi della piattaforma sulla base della quale i cileni gli hanno rinnovato la fiducia, una cosa è certa: il sistema a capitalizzazione non è più in discussione.

La riforma pensionistica del 1980, che ha subito nel corso degli anni piccoli aggiustamenti ma finora non è mai stata snaturata, ha reso il paese un modello che molti altri hanno seguito (come ha ben documentato il padre della riforma, José Piñera, sul proprio sito). Il principio del sistema è molto semplice: ogni lavoratore è tenuto a versare i propri contributi pensionistici su un conto personale (la “libretita”) gestito da un fondo di sua scelta. In qualunque momento, il lavoratore può verificare l’ammontare dei contributi versati e i rendimenti che hanno generato, e – laddove non sia soddisfatto – individuare un gestore alternativo. Lo Stato interviene solo in via residuale, per integrare l’assegno pensionistico di quei cittadini che, avendo alle spalle una storia discontinua e non avendo versato contributi sufficienti, non raggiungono il minimo di legge.

Ma perché il sistema cileno è così popolare? Ci sono due ragioni, una tecnica e una politica. Quella politica è banale ma fondamentale: grazie alla trasparenza del sistema, ogni lavoratore è realmente padrone della propria pensione. Ne segue, e ne determina, l’evoluzione nel tempo. Abbatte gli steccati delle categorie novecentesche e scopre se stesso come “capitalista”. Sa che la serenità della sua vecchiaia non dipende dalle fortune della politica o dalla decisione di chi si troverà pro tempore al governo tra trent’anni: perché i suoi contributi non finiscono nel mare magnum della finanza pubblica, ma sono – in ogni momento – visibilmente e dimostrabilmente suoi.

Tutti i discorsi sui diritti e la trasparenza, però, sarebbero e resterebbero parole parole parole se il meccanismo non funzionasse bene. Uno può ubriacarsi quanto vuole all’idea di avere il controllo del proprio futuro, ma col futuro non si mangia: si mangia con la rendita pensionistica. Pochi giorni fa, la Superintendencia de Pensiones (l’istituto pensionistico cileno) ha reso noti alcuni dati molto interessanti: 36 anni dopo la riforma, il 72 per cento del capitale accumulato nei fondi pensione viene dai rendimenti interni generati dalla gestione delle risorse accantonate (qui la fonte dei dati). In altre parole, un lavoratore che – nell’arco della sua vita contributiva – abbia versato 28.000 euro, a fine carriera avrà maturato un capitale di 100.000 euro, 72.000 dei quali prodotti dalla gestione dei fondi: in pratica, ciò corrisponde a un rendimento medio annuo dell’8,3 per cento al di sopra dell’inflazione.

Le buone riforme sono tali non solo perché giuste ed eque, ma se (e solo se) sono anche utili. La rivoluzione pensionistica del Cile ne è un esempio indiscutibile.

(Per approfondire, qui e qui)

You may also like

La riforma fiscale: dopo il cattivo esempio i buoni (?) consigli
Carlo Nordio: la giustizia e il modo d’intenderla della magistratura
Quale futuro per la giustizia tributaria in Italia?
Il dilemma latino-americano: un passo avanti e un salto indietro

2 Responses

  1. Giuseppe

    Cosa ne pensate del fatto che tutti in coro, sistema dell’ informazione, politici di tutte le razze e millantati esperti di economia, si spendono in un dibattito sulle pensioni in cui di tutto si parla tranne che del fatto che l’ unico problema alla base di tutto è il sistema a ripartizione? Come se non bastasse è stato aggiunto il sistema contributivo taroccato all’ italliana, visto che in un vero sistema contributivo non esiste la data di pensionamento, il tutto per evitare il più possibile la restituzione dei contributi.

Leave a Reply