Lavoro. La libertà (di mercato) è “partecipazione”?
Al Meeting di Comunione e Liberazione, Giulio Tremonti ha parlato di “partecipazione dei dipendenti agli utili dell’impresa” come uno strumento per “far ripartire” l’Italia nella crisi. Il Ministro del Welfare Maurizio Sacconi da Cortina gli ha dato manforte. I due convergono anche se gli argomenti utilizzati sono sostanzialmente diversi: Tremonti da una parte pare voler utilizzare questo strumento dare una staffilata retorica (?) al sistema capitalistico, cercando di “addolcirne” alcuni tratti in nome di logiche quasi-cooperative. Sacconi sembra invece leggere questa proposta come un tentativo di legittimare una visione del sistema di mercato che superi “la conflittualità fra capitale e lavoro”, e politicamente che contribuisca ancor più ad isolare l’organizzazione dei lavoratori (la Cgil) che sulla quella conflittualità continua ad investire per avere consenso. Le constituency di Tremonti e Sacconi sono diverse, e così il lessico politico. A merito di entrambi, va detto che non coltivano certo il sogno della “co-gestione” alla tedesca, e nelle interviste sono parsi molto decisi, in merito.
Più o meno della stessa idea è Pietro Ichino, nel cui molto discusso disegno di legge rientra anche la possibilità di una compartecipazione agli utili dei lavoratori. Intervistato da Gianmaria Pica sul “Riformista” di oggi, Ichino ricorda che il suo ddl contiene “nove forme diverse di partecipazione dei lavoratori nell’impresa: la partecipazione agli utili è soltanto una di queste nove; e oltretutto non la più innovativa”. Ichino concorda solo parzialmente con le “speranze” di Tremonti. Secondo lui, “la legge, se verrà emanata in tempi brevi, non farà certo miracoli; ma, in qualche misura, può giovare al rilancio della nostra economia anche il radicarsi della cultura della scommessa comune dei lavoratori e dell’imprenditore sul piano industriale, sull’innovazione, sullo sviluppo futuro di una zona”.
Sono argomenti che mi lasciano un po’ perplesso. La partecipazione agli utili viene pensata per stimolare la produttività? E’ difficile argomentare in questi termini. Per incentivare la produttività, gli strumenti sono tanto migliori quanto più sono “vicini” al singolo lavoratore (per esempio aumentare la parte variabile del salario): gli utili di un’impresa possono dipendere da molte cose, a cominciare dalla fortuna, dal caso e da come vanno le cose del mondo.
Si supera finalmente il conflitto di classe? Ma, posto che il problema sia ancora all’ordine del giorno, bisogna anche tenere presente che se una persona fa l’imprenditore, e invece un’altra va alla ricerca di un lavoro salariato, forse c’è qualche motivo. Per “superare” l’idea di imprenditore e lavoratore in lotta come cane e gatto bisogna capire che essi già oggi “cooperano”: che le relazioni fra l’uno e l’altro sono di tipo volontario e mutuamente vantaggioso.
In questo straordinario capitolo delle “Armonie economiche” (in inglese qui sul sito del Liberty Fund), Frédéric Bastiat spiega perché avevano torto i socialisti che ritenevano le associazioni cooperative “superiori” rispetto alle imprese, proprio in ragione del fatto che l’impresa vede emergere una figura specializzata e particolare, l’imprenditore appunto, che prende su di sé quei rischi da cui altri vogliono fuggire, privilegiando la sicurezza di un salario.
Questo non significa che in un mercato libero non possa esservi spazio per gli arrangiamenti i più diversi, dalle cooperative ad imprese nelle quali i lavoratori “partecipino” degli utili in varia maniera, se l’imprenditore lo ritiene uno strumento utile a renderli più contenti, partecipi e produttivi. Ma il falso mito della superiorità della cooperativa sull’impresa (Bonanni sostenne qualcosa del genere rispetto alle banche, all’ultima elezione in Bpm) rischia assieme di creare aspettative eccessive, e, soprattutto in prospettiva, problemi di governance e di chiarezza di ruoli. E’ importante che con la scusa di abbandonare le “ideologie” nei rapporti di lavoro, non se ne fabbrichino di nuove.
Alle considerazioni proposte nell’articolo si può aggiungere che la partecipazione agli utili sembra una formula equivoca: si prevede una forma di azionariato dei lavoratori o una deduzione dall’utile dell’impresa di un quota loro destinata, senza renderli soci? nel primo caso, sembra inevitabile un coinvolgimento dei lavoratori nella gestione, sia pure come azionisti (individualmente) di minoranza; nel secondo, in realtà, si tratterebbe di una forma di retribuzione variabile e sottoposta alla condizione che utili vi siano .. ciò che richiederebbe qualche forma di controllo della contabilità nell’interesse dei lavoratori.
Non conosco la proposta Ichino, ma mi auguro che affronti ques ti nodi.
Provocazione: e se l’azienda chiude un bilancio in rosso, cosa succede?
@bill
Una forma di azionaraitao dei lavoratori è già stata tentata negli anni 70 per esempio in Montedison con risultati abbastanza scarsi, in molte medie e grandi industrie c’è già una parte della retribuzione legata agli utili, ma, proprio per evitare che gli aspetti del bilancio estranei all’ attività produttiva in sè abbiano un peso eccessivo si fa riferimento al Margine Operativo Lordo, che rappresenta molto meglio la capacità dell’azienda di generare profitti rispetto agli utili finali che possono anche esere abbattiti in vario modo per pagare meno tasse.