6
Lug
2015

L’Atene di oggi vista da Yale

Questo articolo è stato originariamente pubblicato il 3 luglio scorso, in forma leggermente modificata, su Il Foglio, con il titolo “La culla del populismo statalista. L’Atene di oggi vista da Yale.

La crisi ellenica è la spia di alcune disfunzioni dell’Eurozona, ma non ne è una conseguenza. La precaria situazione della Grecia deriva soprattutto dall’insostenibilità del suo modello economico, che i greci avrebbero dovuto affrontare a prescindere dall’euro. E stavolta a dirlo non è la stampa teutonica ma Stathis Kalyvas, un illustre politologo greco che insegna Scienza politica a Yale, nel suo libro appena pubblicato da Oxford University Press, Modern Greece.

L’intellettuale descrive la storia della Grecia moderna come un susseguirsi di ambiziosi progetti quasi raggiunti, seguiti da clamorosi tracolli. Alle grandi spinte a uscire da uno stato di minorità in cui i greci non si sentivano di dover stare per storia e rango, hanno corrisposto altrettanti schianti per la discrepanza tra ambizioni e realtà. La presenza di un apparato pubblico molto più grande di quello che il paese potesse permettersi era evidente già nel 1907, quando la Grecia aveva un impiegato pubblico per ogni 10 mila abitanti, sette volte di più dell’Impero britannico. Ma nella ricostruzione di Kalyvas le criticità presenti sin dall’inizio della complicata storia della Grecia moderna emergono e degenerano negli anni 80, con la salita al potere del Pasok, il Partito socialista di Andreas Papandreou.

Il Pasok è modellato dal suo leader per essere una macchina del consenso alimentata con risorse pubbliche, occupa lo stato e domina, tranne qualche parentesi di centrodestra, la politica greca fino ai giorni nostri. Il socialismo panellenico di Papandreou è caratterizzato da un’elevata dose di demagogia e da una politica economica non riconducibile al “tax and spend” degli altri partiti socialisti occidentali, ma al “spend and don’t tax” dei movimenti populisti: elevata spesa pubblica, bassa pressione fiscale e la differenza tra entrate e uscite la si copre facendo debito e stampando moneta. Il tutto viene condito con retorica marxista, terzomondista e anti occidentale. Concretamente l’azione politica si manifesta con la continua espansione dello stato: assunzioni pubbliche, nazionalizzazioni di imprese private fallite, protezionismo, aumento di salari e pensioni. Dal 1981 al 1990, dopo due mandati a guida Papandreou, la spesa pubblica sale dal 35 al 50 per cento del pil, i dipendenti pubblici aumentano del 40 per cento, il debito pubblico passa dal 28 per cento del pil del 1979 al 120 per cento del 1990, le continue svalutazioni della dracma portano inflazione a doppia cifra e affossano la competitività del settore privato. Si diffondono corruzione, clientelismo (l’89 per cento dei tesserati del Pasok lavora per lo stato), calano gli investimenti privati e quelli esteri, la produttività stagna, l’export si riduce. Anche Nuova democrazia, il partito di centrodestra fondato su basi di maggiore responsabilità fiscale, diventa una brutta copia del Pasok e governando allo stesso modo porterà la Grecia al default. George Papandreou, figlio di Andreas, vince anche le elezioni del 2009 con un programma keynesiano, promettendo – in piena crisi e con un deficit al 15 per cento – aumenti di salari e pensioni e blocco delle privatizzazioni. Pochi anni dopo a vincere è la sinistra radicale di Alexis Tsipras con un mix di populismo e keynesismo di Papandreou padre e figlio, “more of the same”.

Questo continuo scollamento dalla realtà si è concluso con il referendum di domenica, “sì” (nai) contro “no” (oxi). Secondo Kalyvas, è un’altra costante della storia della Grecia moderna, attraversata da profondi e drammatici dualismi: realisti filotedeschi contro repubblicani filobritannici a inizio Novecento, comunisti contro anticomunisti durante la Guerra civile e la Seconda guerra mondiale. Divisioni laceranti e sanguinose, che hanno lasciato cicatrici profonde nella storia del paese, ma da cui per caso, volontà o fortuna, la Grecia è uscita scegliendo la parte giusta, quella che le ha garantito maggior benessere, osserva il politologo di Yale. Ma stavolta nel referendum hanno prevalso nettamente i “No”, un risultato che al di là della propaganda e delle intenzioni del governo a trazione Syriza rischia di spingere il paese fuori dall’Euro e da quel sistema di alleanze e integrazione politico-economica che ha consentito alla Grecia di avere uno sviluppo economico e uno standard di vita superiore a quello che avrebbe potuto permettersi altrimenti. I greci hanno pensato di votare No all’austerity, il rischio sempre più concreto è che siano costretti a farla fuori dall’Euro.

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3 Responses

  1. Francesco_P

    I due mercenari giocavano a lanciarsi i candelotti di dinamite con la miccia accesa quando Alexis entrò nella polveriera: hop, hop, hop, … dai Alexis …, boom!
    La lezione della Grecia è che il rispetto dell’equilibrio dei conti pubblici e lo sviluppo si possono conciliare solo attraverso la riduzione delle funzioni dello Stato a quelle essenziali, che però devono essere svolte con grande serietà.
    Le “furbate” dei greci e le politiche lacrime e sangue non portano da nessuna parte se lo Stato continua a fare male tutto quello che non gli compete, ma che può portare finanziamenti illeciti, privilegi per gli amici, voti, ecc.
    Purtroppo, di questo passo molto presto toccherà all’Italia.

  2. Marco O.

    Spesa pubblica al 50% del PIL, debito pubblico al 120%, corruzione e clientelismo diffusi, investimenti privati ed esteri calanti, produttività stagnante, l’intero arco parlamentare a forte impronta statalista. Uhm, mi ricorda qualcosa…

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