28
Set
2014

L’art.18 ed il silenzio cerchiobottista dei costituzionalisti

Nel dibattito delle ultime settimane sull’art.18 dello Statuto dei lavoratori e sulla eventuale eliminazione dell’istituto della reintegra del dipendente licenziato mi è sembrato di notare una mancanza di riferimenti alle indicazioni che si potrebbero trarre dalla Carta costituzionale per sbrogliare un’intricata matassa dalla quale l’opinione pubblica e persino i principali attori della controversia (decisori politici, sindacati ed organizzazione dei datori di lavoro) fanno fatica a districare il bandolo.

Ad essere sinceri desta meraviglia soprattutto il silenzio dei costituzionalisti italiani i quali non hanno apportato alcun contributo chiarificatore nonostante ciò che è stato sin’ora acquisito nella loro scienza permetta, come vedremo, di fare luce su alcuni profili relativi alla questione “articolo 18”.

Un silenzio che non sappiamo bene se collocare nel solco di una tradizione un po’ cerchiobottista di contiguità con il potere la cui massima epifania si concretizza alternativamente fra l’ossequio acritico alla discrezionalità del legislatore nell’assumere questa piuttosto che quella scelta e l’appello retorico, per la salvezza della Repubblica, alla Carta fondamentale, appello che naturalmente risuona a corrente alternata e secondo la moda del momento.

Lungi da chi scrive l’intento di generalizzare e di accomunare in un giudizio sintetico un’intera categoria di studiosi del diritto costituzionale, ma una cosa è risultata evidente in questi ultimi tempi: i più in vista fra coloro che svolgono il “dopolavoro” dell’editorialista fustigatore del mal costume italico o dell’ospite fisso dei talk show nostrani si sono ben guardati dal dire come stanno realmente le cose dal punto di vista della Costituzione.

Innanzitutto, sarebbe stato opportuno, ad esempio, ricordare che la Corte Costituzionale con la sentenza che ammise il referendum sull’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori (sentenza 46/2000) ha affermato esplicitamente che la Costituzione non impone l’istituto della reintegra, il quale ben può essere soppresso per volontà popolare o parlamentare senza alcuna lesione dei valori fondamentali del nostro ordinamento.

Questa prima precisazione avrebbe di certo contribuito a sfatare un mito, a mettere sui giusti binari l’intera discussione, a rintuzzare gli argomenti strumentali del sindacato ed a chiarire, una volta per tutte, che la reintegra nel posto di lavoro non è e non è mai stato un diritto fondamentale del lavoratore.

Altrettanto utile sarebbe stato spiegare a tutti il significato e la logica dell’articolo 4 della Costituzione, così come sono stati sempre intesi dalla dottrina e dalla Corte Costituzionale, e chiarire che la Repubblica non solo riconosce a tutti i cittadini il diritto al lavoro, ma “promuove le condizioni che rendano effettivo questo diritto”. Un impegno, quest’ultimo, che si traduce nell’assegnazione al legislatore del compito di raggiungere il maggior livello di occupazione possibile e che si concretizza, in primo luogo, in una regolazione di settore che agevoli l’incontro fra offerta e domanda di lavoro e non in una disciplina che l’ostacoli.

Né sarebbe stato superfluo ricordare che anche gli impegni assunti dalla Repubblica in sede internazionale con la sottoscrizione della Carta Sociale europea – la quale prevede per i licenziamenti dei lavoratori solo un indennizzo economico – e con la ratifica del Trattato europeo depongono per la necessità che vengano messi in campo soluzioni legislative che favoriscano la massima occupazione.

Più in generale sarebbe stato di grande aiuto sentire dalla voce di autorevoli studiosi, consulenti governativi ed ex giudici della Corte costituzionale che, secondo un’acquisizione oramai pacifica e difficilmente confutabile, il Parlamento è obbligato quando legifera a tenere conto non solo dei dettami espliciti della Costituzione ma anche del canone della ragionevolezza, come ribadito costantemente negli ultimi 70 anni dalla Corte Costituzionale. Le Camere, cioè, non possono predisporre provvedimenti legislativi irrazionali, privi di alcun ancoraggio con la realtà ed intrinsecamente contraddittori.

I costituzionalisti, in definitiva, avrebbero potuto chiarire che fanno oramai parte delle certezze consolidate della dottrina e della giurisprudenza costituzionale alcune affermazioni fra le quali sono degne di nota, nel nostro caso, quelle secondo le quali:

  1. Non è consentito al legislatore trattare in maniera difforme fattispecie identiche, pena la violazione della razionalità insita nel principio d’uguaglianza. Non si comprende, allora, la ragione del trattamento differenziato fra il lavoratore che cerca d’assicurarsi “un’esistenza libera e dignitosa” presso un’impresa che impiega più di 15 dipendenti e quello che lo fa presso un datore di lavoro che ne impiega di meno. Ciò nonostante il primo può essere reintegrato ed il secondo no;
  2. Il Parlamento è obbligato ad utilizzare un mezzo adeguato al fine che deve raggiungere e nel fare ciò non può disconoscere le evidenze empiriche ricavate da altre discipline scientifiche che dimostrano l’opportunità e persino la necessità di adottare una specifica regolazione. Diversamente anche in questo caso, come è facile comprendere, la disciplina risulterebbe intrinsecamente irrazionale perché le Camere non possono legiferare prendendo le mosse da dati di fatto erronei o disconoscendo l’esistenza di quelli sottoposti a verifica di validità. Se è vero, allora, che l’istituto della reintegra rappresenta un ostacolo all’incontro fra domanda ed offerta di lavoro, quanto meno sotto la forma della conclusione di contratti a tempo indeterminato, ne consegue che sussiste in capo al Parlamento l’obbligo di modificare la disciplina legislativa nella direzione di una minore rigidità del mercato, compresa l’eliminazione dell’istituto della reintegra;
  3. Il legislatore è obbligato a verificare che la disciplina vigente non sia divenuta anacronistica e non abbia prodotto una eterogenesi dei fini, nel qual caso deve adeguare la legislazione agli effetti che desidera e non a quelli che si sono, seppur involontariamente, prodotti. Ne discende che il Parlamento debba prendere atto di quali siano state le conseguenze involontarie della disciplina dell’art. 18 dello Statuto dei lavoratori ed adeguarla per il tramite di strumenti regolatori in grado di assicurare maggiore occupazione a tempo indeterminato;
  4. Il Parlamento è obbligato a “bilanciare” adeguatamente gli interessi ed i valori costituzionali che vengono in rilievo e che sono intaccati da una specifica disciplina legislativa. Questo bilanciamento non è fatto una volta per tutte, a prescindere dalle condizioni storiche e dai mutamenti sociali, ma è soggetto a continua revisione sulla base delle esigenze che emergono nel corso del tempo. Ne consegue che di fronte all’attuale condizione dell’economia e del mercato del lavoro il legislatore è legittimato a diminuire le tutele previste a vantaggio della stabilità del lavoro per aumentare quelle a favore della maggiore occupazione, non precludendosi la possibilità di invertire nuovamente il bilanciamento delle tutele qualora le condizioni “reali” lo dovessero rendere possibile.

Si tratta, come abbiamo detto, di principi pacifici nell’ambito della dottrina e della giurisprudenza costituzionale, ai quali chi scrive ha semplicemente aggiunto i corollari in materia di articolo 18 dello Statuto dei lavoratori.

Naturalmente e per fortuna il Parlamento non può essere costretto a legiferare in un senso piuttosto che in un altro, potendo la Corte costituzionale solamente dichiarare l’incostituzionalità di una legge già in vigore per contrasto con norme e principi ricavabili dalla Costituzione. Ma la mancanza di una prospettiva squisitamente giuridica all’interno del dibattito sull’articolo 18 e più precisamente del punto di vista costituzionale rende il confronto fra le diverse opzioni in campo gravemente lacunoso, privandolo di un ausilio indispensabile all’opinione pubblica per essere adeguatamente informata ed ai decisori politici per potere responsabilmente deliberare.

@roccotodero

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8 Responses

  1. paolo mariti

    Davvero un bel richiamo alla responsabilità anche dei chierici ! Le chiedo poi perchè non ha fatto alcun cenno alll’art.39 della Cost. It. la cui mancata attuazione – a causa di enormi resistenze in passato – grida oggi tutta la sua vendetta.
    cordialità,
    Paolo Mariti

  2. Rocco Todero

    Non ho trattato dell’art. 39 Costituzione perchè il mio intento era semplicemnte quello di sottolineare lacuni aspetti sull’articolo 18. Sulla mancata attuazione dell’articolo 39 Cost. occore ricordare che la norma non impone la registrazione ma dice che quello della registrazione è l’unico obbligo che il legisltore può imporre ai sindacati. Naturalmente la Costituzione dice anche che per dare efficacia generale ai contratti collettivi i sindacati devono essere registrati e devono avere una base democratica. Ma su questo ha già detto tutto Lei.
    Saluti
    Rocco Todero

  3. Paolo Mariti

    grazie per la risposta a suo modo esauriente ed esaustiva.
    Ho molto apprezzato il suo passaggio:”Il Parlamento è obbligato a “bilanciare” adeguatamente gli interessi ed i valori costituzionali ….. Questo bilanciamento non è fatto una volta per tutte….. ma è soggetto a continua revisione sulla base delle esigenze che emergono nel corso del tempo.”. Lo Statuto dei lavoratori fu introdotto al termine di un lungo periodo di crescita, in una fase in quasi tutto diversa dalla attuale. Se ora il Parlamento non terrà conto di questo, andrà perduta una grossa occasione di introdurre “flessibilità”nel nostro ordinamento economico, sociaòe e politico.

  4. wilcoyote

    Non si comprende, allora, la ragione del trattamento differenziato fra il lavoratore che cerca d’assicurarsi “un’esistenza libera e dignitosa” presso un’impresa che impiega più di 15 dipendenti e quello che lo fa presso un datore di lavoro che ne impiega di meno.

    Suvvia, non è difficile da capire! Chiunque abbia lavorato in una media o grande aziedna in cui il rapporto tra proprietà e lavoratori non è diretto, ma mediato da strutture burocratiche più o meno piramidali, l’arbitrio nei confronti di una lavoratore capace ma “scomodo” è cosa di tutti i giorni. Quindi secondo lei un capo geloso della bravura di un suo subalterno, che finora si deve limitare a mandarlo a lavorare presso un’altra struttura dell’azienda (spesso di fatto demansionandolo, altra pratica finora vietata solo formalmente ma ampiamente praticata), se riesce a farlo licenziare ingiustamente la passa liscia, mentre il licenziato si deve accontentare di un paio di annualità? Più l’azienda è grande più è facile che succedano queste cose, nella totale ignoranza (se non indifferenza) della proprietà, che spesso è distribuita tra una miriade di azionisti. Per come funzionano le aziende italane (ed i risultati si vedono, altro che art. 18), si tratta di casi tutt’altro che sporadici. Mi spiace dover constatare ancora una volta che si pontifica senza conoscere la realtà.

  5. Henri Schmit

    Concordo sulla sostanza. E non sono un oltranzista. Distinguerei però fra diritti costituzionali individuali e principi costituzionali generici di orientamento politico, come appunto la promozione dell’effettività del diritto al lavoro, cioè il più alto livello possibile di occupazione. Il Parlamento non è obbligato, ma libero di bilanciare fra obiettivi contrapposti. Deve invece rispettare scrupolosamente tutti i diritti fondamentali e libertà pubbliche. Il beneficiario dell’azione politica in generale è il popolo (che vota), il beneficiario dei diritti i singoli individui.

    Capisco che la discriminazione è un caso a parte. Perché non ammettere che anche in caso di licenziamento discriminatorio non possa valere lo stesso il compenso economico piuttosto che il reintegro? Perché non permettere ad associazioni o gruppi d’interesse a chiedere ulteriori danni per licenziamenti discriminatori. L’impresa o il capo servizio che persistesse avrebbe le sue buone ragioni, ma dovrebbe fare i conti con una condanna a danni molto più elevati nonché la pessima pubblicità che tali decisioni potrebbero (dovrebbero) procurare. I beneficiari dei danni sociali sarebbero le associazioni contro l’omofobia, contro il razzismo etc che si vorrebbero costituire, o … i sindacati, giustamente e legittimamente, se prova che un loro affiliato è stato licenziato perché affiliato o troppo attivo.

  6. Rocco Todero

    @wilcoyote nel miio ragionamento non è contemplata in effetti l’ipotesi di compertamenti tafazziani di manager idioti che licenziano collaboratori validi danneggiando l’azienda che dovrebbero fare prosperare, né quella di manager idioti che affidano a capi repato la possibilità di licenziare collaboratori bravi. Non ho poi preso in cnsiderazione nemmenao l’eventualità che dei proprietari irresponsabili si sottraggano all’onere di controllere la condotta dei propri manager. Naturalmente se tutte queste ipotesi fossero plausibili consiglierei al lavoratore di licenziarsi lui per primo piuttosto che prestare la sua attività all’interno di un covo di imbecilli. Per ciò che riguarda la Sua convinzione che io pontifichi senza conoscere la realtà che dire?…..

  7. Rocco Todero

    Henri Schmit sono d’accordo, vorrei però osservare che più volte la Corte Costituzionale ha detto che tutte le norme della Costituzione sono immediatamente precettive e che il legisaltore non può con la scusa di considerarle programmatiche procastinarne l’attuazione sine die. La disciriminazione è un caso a parte; concordo anche su questo e ritengo che debba essere sanzionata adeguatamente.
    saluti

  8. wilcoyote

    Se non sa che le aziende italiane sono rete esattamente con i metodi che lei ironicamente definisce tafazziani, dubito che sappia davvero come stanno le cose. Incidentalmente, stiamo nella cacca proprio perché aziende ed enti pubblici e privati sono retti con metodi tafazziani (e clientelari, che è la stessa cosa).
    Con ossequi.

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