L’acqua non cade dal cielo
Per illustrare le ragioni della liberalizzazione dei servizi idrici occorre preliminarmente sgomberare il campo da due equivoci che di solito dominano i dibattiti sull’acqua, e quindi muovere due critiche a come viene generalmente impostata la discussione. Il primo equivoco è quello che vede l’acqua essere definita un bene pubblico, anziché un servizio come gli altri. Il secondo, diretta conseguenza del primo, è quello che fa coincidere il carattere pubblico di un servizio con la sua gestione da parte di enti pubblici o aziende di loro emanazione.
Siamo soliti pensare all’acqua come a un bene pubblico. E ci sbagliamo. A rigore, infatti, per bene pubblico in senso economico s’intende – la definizione è del premio Nobel Samuelson- un bene non rivale e non escludibile, ovvero un bene il cui consumo da parte di un soggetto non impedisce il consumo da parte di un altro e al tempo stesso un bene dalla cui fruizione non è possibile estromettere nessuno. E’ evidente che l’acqua non possieda nessuna di queste due caratteristiche che, invece, ad esempio, possiede l’aria, per cui non a caso non paghiamo alcuna bolletta (ma al massimo delle tasse).
L’acqua, quindi, è un bene privato e, come tale, bisognoso di un prezzo che ne scoraggi l’esaurimento (il richiamo è alla Tragedy of commons di Garret Hardin, 1968). Non è però un bene semplice, una merce in grado di soddisfare di per sé i nostri bisogni e fornirci oggi direttamente un’utilità: per farlo si incorpora in una vasta serie di servizi costosi e complessi. Quando andiamo in posta a pagare la bolletta dell’acqua, infatti, più che pagare l’acqua in sé, paghiamo l’approvvigionamento idropotabile, la costruzione e manutenzione delle reti di fornitura, la raccolta delle acque reflue, la depurazione e lo smaltimento dei fanghi di depurazione, ovvero –come recitano i contratti di servizio- la captazione, l’adduzione, la depurazione e la distribuzione dell’acqua. In poche parole: finanziamo il “ciclo idrico integrato”.
Affermare che l’acqua non costituisce un bene pubblico ma un servizio non toglie si tratti di un servizio di grande importanza, che si può decidere debba essere garantito a tutti: l’acqua è indispensabile, senz’acqua non si campa. Però non implica una gestione pubblica. Si è soliti sostenere che i privati non potrebbero garantire l’universalità del servizio. Ma è davvero così? O piuttosto è vero il contrario? Gli esempi di gestione pubblica dei servizi pubblici dicono: il contrario. Alitalia, Trenitalia, Tirrenia (per rimanere nell’ambito dei servizi pubblici di trasporto)…: non esistono servizi gestiti dallo stato o da altri enti pubblici che si siano mai rilevati efficienti e non fonte di sprechi e corruzione.
Per dirla con Mao Tse- Tung, allora, non ci deve interessare tanto il colore del gatto quanto che il gatto prenda i topi. In altre parole non dobbiamo ideologicamente rifiutare che siano i privati a gestire l’acqua se sono i privati a garantirci servizi migliori, meno sperperi e tariffe più ragionevoli.
I privati possono farlo in due modi: 1) a patto che siano selezionati in base a procedure aperte competitive trasparenti; oppure 2) in piccole realtà, tramite società consortili (il riferimento, dovuto, è al Governing the Commons del neopremio nobel Elinor Ostrom).
Ma fino ad oggi in Italia i servizi idrici sono stati per lo più affidati direttamente senza gara. E gli effetti sono sotto gli occhi di tutti. Paghiamo tanto per avere poco e male. Quest’estate abbiamo subito razionamenti, interruzioni del servizio e altri inconvenienti; nonostante -come documentato da una recente ricerca elaborata dal Centro Studi di Mediobanca per la Fondazione Civicum e ripresa proprio qualche giorno fa dal Corriere della Sera– negli ultimi cinque anni le tariffe siano in media nazionale aumentate di una percentuale maggiore del triplo del tasso di inflazione (33, 4 vs 10, 4). Finora, quindi, si è fatto poco più che trasferire una rendita di posizione dai comuni alle società da loro controllate. E così l’acqua, pur tanto importante per tutti a parole, continua a andare dispersa per quasi un terzo (30, 1% delle risorse idriche italiane).
La parziale liberalizzazione intrapresa negli ultimi anni è qualcosa, ma evidentemente non abbastanza. (Anche l’ultimo provvedimento, in tal senso, ha gravi lacune). Sconta una visione dirigistica della concorrenza (vedi la creazione degli ATO che presto faranno saltare molte delle residuali forme di gestione consortile dell’acqua) e la debolezza dei governi nei confronti delle lobby locali (vedi il tormentato iter parlamentare dei vari provvedimenti di riforma).
L’acqua non cade dal cielo, ma esce dal rubinetto. Al rubinetto può arrivare sia per opera di imprese private che di consorzi locali. L’importante è che la politica tenga giù le mani.
Non sono affatto d’accordo. Ritengo che la corretta impostazione del problema debba prendere in considerazione due aspetti. 1) L’essenzialità del bene “acqua” fa sì che l’approvvigionamento debba essere garantito a tutti. Estromettere qualcuno dalla fruizione sarebbe omicidio. Estrometterne tanti sarebbe strage. 2) La non illimitatezza del bene rende necessario evitare gli sprechi.
Logico corollario di questi due aspetti è che l’acqua, in assenza di un adeguato senso civico che responsabilizzi i singoli utenti, debba essere pagata. Il prezzo tuttavia deve essere tale da consentirne a tutti l’utilizzo. E’ quindi giusto parametrarlo ai costi di approvvigionamento, manutenzione, depurazione, eccetera, purché ciò non renda il bene eccessivamente oneroso. I costi elevati non devono giustificare, infatti, l’esclusione di nessun utente. In tal caso è comunque giusto, a mio parere, fornire il bene anche se per il fornitore ciò rappresenti una perdita economica. Già questo è sufficiente per escludere che il fornitore sia un privato. Qualunque soggetto non pubblico che effettui il servizio di approvvigionamento non solo non sarebbe disposto a vendere acqua sottocosto, ma non sarebbe disposto a farlo neanche se riuscisse a vederla ad un prezzo pari ai costi sostenuti. L’impresa privata, infatti, tende per natura al profitto il che comporta aggiungere al costo unitario anche un margine di utile elevando il prezzo finale.
Ciò premesso ritengo che un prezzo equo debba:
1) essere diversificato a seconda del reddito dell’utente;
2) tenere in considerazione il numero dei componenti del nucleo familiare;
3) essere fornita sottocosto e addirittura gratis a chi non ha mezzi a sufficienza.
trattandosi di un monopolio naturale l’efficienza dipende molto dalle regole di concessione, quindi indipendentemente dal fatto che il soggetto sia pubblico o privato.
Riguardo l’impostazione di Antonio: il fatto che un servizio possa essere fornito in perdita da un soggetto pubblico è una finzione, significa che il prezzo reale del bene è più alto, la differenza è infatti pagata da qualche contribuente, il problema è che in questo modo, facendo pagare .non chi utilizza il bene ma qualcun altro è molto difficile ridurre gli sprechi. Riguardo il discorso dei prezzi nella realtà può anche capitare che un privato fornisca il servizio a prezzi inferiori realizzando un profitto ed invece una società pubblica abbia prezzi più alti e perdite in bilancio
@Antonio
Due precisazioni:
1) Il fatto che un bene debba essere garantito a tutti non implica l’esistenza di un prezzo. Direi che quest’ultimo è conseguenza del fatto che la risorsa è limitata, ovvero del punto 2), e che sono necessarie determinate opere e maestranze per convogliarla e fornirla all’utilizzatore. Per l’aria, ad esempio, tutto ciò non è valido*, quindi è gratis. Il fatto che tutti respirino o meno è irrilevante per la questione dell’esistenza del prezzo.
*Ovviamente l’aria non è illimitata, ma la sua abbondanza fa sì che venga percepita come tale.
2) Non comprendo perché il senso civico debba essere discriminante nell’esistenza o meno di un prezzo. Come già esposto, il prezzo è una conseguenza di fattori materiali (macchine, lavoro ecc.), dunque di costi, e poi anche di altre dinamiche quali il rapporto domanda-offerta, il potere d’acquisto ecc. Fatto sta che, anche se tutti utilizzassimo l’acqua per lo stretto necessario con senso civico, non ci sarebbe alcun motivo per pensare che debba essere gratuita.
Fatte queste dovute precisazioni, passiamo all’argomento principale dell’articolo.
Nonostante sia banale da notare, vorrei porre l’attenzione sul fatto che il motivo per cui lo Stato, al contrario dei privati, può permettersi di distribuire un bene, gratuitamente, sottocosto o al prezzo di costo, è che può sempre fare affidamento, per ulteriori finanziamenti, sull’imposizione fiscale, ovvero sull’espropriazione forzata (perché tale è) di denaro dai contribuenti. Oltretutto questa forma di finanziamento non è assolutamente influenzata dalla effettiva qualità del servizio offerto e dall’ammontare dei consumi.
Al contrario un privato, il cui scopo, come da te esposto, è ampliare i propri profitti, ha tutto l’interesse a che i consumatori siano soddisfatti del servizio, perché la sua UNICA forma di finanziamento è proprio il consumatore stesso, che può decidere se rivolgersi a lui o ad un suo concorrente. Questa caratteristica porta ai benefici della concorrenza: abbassamento dei prezzi e fornitura del servizio a sempre un maggior numero di persone.
Aggiungo, infine, che un sistema libero sarebbe anche molto più morale, perché ripartirebbe i costi secondo i consumi, ponendo fine all’ipocrisia secondo la quale alcuni devono obbligatoriamente lavorare per mantenere altri.
E chi non si può permettere il servizio? Innanzitutto questi, grazie all’abbassamento dei prezzi, sarebbero di sicuro in numero molto inferiore. In secundis, potrebbero essere finanziati dalla carità privata o,se proprio si vuole, dallo Stato, tramite dei bonus di acquisto del servizio.
Pensiero pomeridiano.Tutto potrebbe avere anche un costo più elevato per funzionare meglio, acqua, sanità, scuola, pane, pasta, viaggi, alberghi, vino e formaggi, solo che la ricchezza è in mano sempre a meno persone. Questo va risolto il resto sarebbe facile facile.
Trattandosi di monopolio naturale passare dal pubblico al privato significa esclusivamente trasferire la rendita dal soggetto pubblico a quello privato, non vedo quale sia la reale convenienza per la comunità.
Quanto poi alla riduzione delle tariffe, di fatto non vi è alcuno stimolo che invogli il privato a fare prezzi più bassi.
Il privato può anche aumentare l’efficienza, ma solo per ridurre i costi e aumentare i profitti.
** come si fà a mettere in concorrenza (e quindi abassare i prezzi e migliorare i servizi del 30%) un unico tubo che ti arriva in casa ? … si potrebbe dare delle concessioni brevi ma allora si penalizzano gli investimenti strutturali… se invece si danno lunghe se ne approfittano.. il price cap all’italiana è la foglia di fico che non ha mai funzionato..
oppure bisognerebbe staccare le reti dai fornitori di acqua.. ma non ci siamo riusciti neppure (o molto poco) con telefono/gas/digitale terrestre/rfi/elettricità x i consumer… mercati dove pure sarebbe tecnicamente “molto” più facile ?
** non concordo con la definizione di acqua come bene non pubblico… non è pubblico il servizio di raccolta/filtraggio/trasporto.. ma la materia prima lo è.. xrchè l’acqua del rubinetto è piovuta dal cielo di tutti.. anche se chiaramente non mi sognerei mai di bere da una pozzanghera : e se non bevi però muori di sete 🙂
** tutto sommato credo che in Italia andrà realisticamente a finire così :
fase 0) oggi extrarendita è parafiscale+dipendenti clientelari cioè distribuita su “molti”
fase 1) privatizzazioni all’Italiana= “pochi” amici con incasso una-tantum x i comuni
fase 2) aumento prezzi pianificato e concertato a cartello in tot anni
fase 3) ristrutturazioni e licenziamenti degli esuberi a servizi quasi costanti
fase 3) i poveracci il cui numero crescerà negli anni si dovrà arrangiare…..
sono pronto a scommetterci la liquidazione: ci vediamo fra 10 anni…