La voglia di potere che frena l’Eni. Di Alessandro Penati
Volentieri ripubblichiamo questo articolo di Alessandro Penati, comparso ieri sulla Repubblica.
Con 72 miliardi di capitalizzazione, l’Eni è la regina della Borsa italiana (quasi 15% della capitalizzazione totale). Così la recente richiesta di un fondo americano, Knight Vinke, di scindere il gruppo in due per aumentarne il valore complessivo e migliorare l’efficienza della gestione, potrebbe sembrare una stravaganza. Invece, ha dei meriti.
L’industria dell’esplorazione ed estrazione di petrolio e gas naturale è molto redditizia, ma anche molto rischiosa: per poter trovare e sfruttare giacimenti di petrolio e gas, bisogna impegnare grandi capitali, per periodi lunghissimi. E decidere gli investimenti sulla base di previsioni a lungo termine di costi e prezzi (spesso vincolati da contratti), che giustifichino una redditività sul capitale adeguata. Se poi i prezzi risultano più alti di quelli previsti inizialmente, come è accaduto negli ultimi 10 anni, è grasso che cola e i profitti si gonfiano a dismisura. Ma ci sono gli anni di vacche magre quando i prezzi sono bassi, vista la durata e rigidità degli investimenti. Dal 2000 al picco del 2008, espressi in euro, il prezzo del greggio è aumentato di 7 volte, quello del gas di quasi 5, e gli utili dell’Eni (come quelli del settore petrolifero globale) di 8 volte. Poi i prezzi dell’energia sono crollati, e così gli utili.
Ma Eni è anche trasporto, distribuzione e vendita del gas, e generazione di elettrica: attività, spesso regolamentate, dai margini più bassi ma più stabili (utili operativi al 14% dei ricavi, contro il 52% dell’attività estrattiva nel 2008; diventati 12% e 36% nei primi 6 mesi 2009). A fronte di un andamento da montagne russe degli utili nel settore estrattivo nell’ultimo decennio, quelli del settore dei servizi di pubblica utilità sono cresciuti stabilmente del 6% l’anno.
Due attività contigue, dunque, ma con caratteristiche finanziarie molto diverse: negli ultimi anni, all’Eni, la redditività media sul capitale investito dell’estrazione è stata 2,2 volte quello della distribuzione. La proposta è quindi di scinderle per evitare che si penalizzino a vicenda. L’elevata redditività dell’estrazione, e la capacità di Eni di aumentare stabilmente la produzione, caso raro nel settore, non vengono pienamente riconosciute dal mercato, perché penalizzate dalla bassa redditività della distribuzione. Che a sua volta vede la propria capacità di indebitarsi, per crescere e sfruttare le economie di scala, limitata dalla volatilità degli utili dell’estrazione.
Oltre a scindere l’estrazione dalla distribuzione, Eni potrebbe anche considerare lo scorporo e la vendita di altre attività poco redditizie. Infatti, dei 69 miliardi di capitale investito, 30 sono assorbiti dall’attività estrattiva e 24 dalla distribuzione; i rimanenti 15, prevalentemente dalla petrolchimica e dalla raffinazione, che hanno margini risicati e redditività insufficiente. Per Eni, sarebbe meglio disfarsene e liberare capitali per investirli dove eccelle. Scorporo e scissioni potrebbero essere fatti facilmente senza pesanti ricorsi al mercato. Per esempio, avendo appena conferito Italgas e lo stoccaggio in Snam RG, quotata e controllata al 50%, Eni potrebbe distribuire la quota in Snam tra i propri soci. Questo, in teoria.
Ma a New York non leggono i giornali italiani. Altrimenti, Knight Vinke saprebbe che il Tesoro, azionista di controllo, inneggia ai bei tempi dell’Iri e promuove i campioni nazionali: più grandi sono, meglio è. E poi vuole l’Eni a portata di telefonata. A volte da usare come bancomat: mungere dividendi, tassarla al bisogno (Robin tax), farle pagare l’autostrada per Gheddafi. Ma anche scambiare favori e influenze: business in Libia, unica società occidentale (con Enel) che in Russia è riuscita ad accaparrarsi pezzi di Yukos, smembrata dopo che il suo oligarca è finito in galera. Più che alla creazione del valore, credo che al Tesoro importi la creazione del potere. Come si traduce in inglese?
ciao Penati.. rispondo qui anche al gentile Carlo Stagnaro…
tutta la prima parte del tuo ragionamento non mi convince molto.. è ovvio che la redditività di un gruppo pluri settoriale è data dal mix delle redditività dei singoli business… accade anche in una normale società del largo consumo con diversi brand..
secondo me lo spezzatino non aumenterebbe il valore del “totale” ma semplicemente creerebbe società che quoterebbero a multipli + alti ed altre a multipli + bassi dell’attuale Eni Group… l’unica cosa che vedrei bene è il distacco di Snam/Stogit a favore di Cdp+grandi utilizzatori della rete+mercato diffuso..
condivido invece al 1000% la parte finale.. è questo a mio parere il “vero dietrologico” motivo x cui gli americani (nemici di SouthStream.. e secondo me hanno pienamente ragione… all’Italia non conviene.. non c’è neppure la domanda sufficiente a riempirlo) han fatto questa provocazione “politica”.. in un post precedente Carlo mi diceva che lo Stato potrebbe anche continuare a detenere il 30% in ogni società.. ma allora l’uso politico della grande mucca rimarrebbe intatto (vedi Rai)… in poche parole x me il problema non è tanto nello strumento (l’Eni) quanto nel manico (Silvio che ha esagerato parecchio vs i varii governi dei lustri precedenti).. certo si potrebbe privatizzarla al 100%.. ma sarebbe x me come buttar via il bambino “strategico” con l’acqua sporca (che spero prima o poi passerà)..
PS: about Yukos 2 info : anche Erg ha partecipato al banchetto.. Enel ed Erg hanno ormai ri-venduto a Gazprom la partita di giro… di Eni non so..