La vera rivoluzione liberista nel mercato del lavoro – di Michele Vangelisti
Riceviamo e volentieri pubblichiamo da Michele Vangelisti.
Definire oggigiorno il mercato del lavoro bloccato è quasi riduttivo. Ritenuto da tutti il tema centrale da affrontare e inserito, almeno virtualmente, al primo posto dell’agenda economica del Governo e del Parlamento, resta tuttavia un argomento spinoso per tutti. Sapevamo che una riforma prima del voto amministrativo non sarebbe mai arrivata; sapevamo anche che alla volontà di procedere speditamente palesata dal Governo, col ministro Fornero in primis, si sarebbe contrapposta una resistenza campale di tutte le forze conservatrici di questo paese, tutte pronte ad avanzare proteste o richieste, più o meno condivisibili.
L’intera discussione si è concentrata sull’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori e in particolare sul nodo delle conseguenze di un licenziamento imposto dal datore di lavoro (per motivi economici). Il partito della necessaria reintegra e quello del sufficiente indennizzo si sono combattuti aspramente, ad oggi senza vincitore alcuno. Penso che sia necessario svolgere un’analisi diversa dell’argomento e lanciare qualche spunto provocatorio. Il mercato del lavoro italiano è frutto di anni di immobilismo legislativo; anche le riforme più corrette e condivisibili operate all’interno del nostro ordinamento sono state condizionate dall’assenza di un substrato culturale liberista alla base di ogni tentativo di modernizzazione e internazionalizzazione del sistema.
La dimostrazione di questo assunto è tanto più semplice quanto basta riferirsi a chi, a seguito di questa crisi, ha ritenuto opportuno pensare di rievocare retaggi anticapitalistici del passato, piuttosto che condannare i mali, le deviazioni, di un modello di sviluppo che se ben attuato può solo portare benefici all’intera comunità. La non corretta interpretazione della flessibilità in entrata e del lavoro a progetto in genere ha ritardato di decenni riforme ora non più procrastinabili. Il risultato? Mancanza di competitività nei confronti di imprese sempre più internazionalizzate e crisi sistemiche a ogni crisi, più o meno intensa e duratura che sia.
Qual è però il vero nodo del problema, quello da cui ci si tiene lontani e quello che, seppur necessario, sarà raggiunto con ancor più ritardo da un sistema come il nostro che tende a un immobilismo congenito e strutturale? Non è tanto la possibilità per l’impresa di indennizzare il proprio dipendente licenziato per un motivo economico. Teniamo ben presente che stiamo parlando di vero motivo economico: mi sembra ovvio partire dall’assunto che un’impresa in bonis, in crescita, non ha alcuna intenzione di privarsi dei suoi elementi qualificati per rifornire la concorrenza di possibile forza lavoro altamente specializzata e a conoscenza del know-how e degli altri segreti industriali. A maggior ragione considerando che un possibile processo instaurato dal lavoratore licenziato potrebbe protrarsi per mesi e mesi e scaturire in sentenze spesso frutto di intromissioni (non sempre giustificabili) del giudice nel cosiddetto business judgment, la regola imprenditoriale nelle scelte economiche appartenente al solo datore di lavoro. A tal proposito è eloquente l’articolo di Andrea Ichino e di Paolo Pinotti su lavoce.info che ha stimato in 266 i giorni medi necessari alla conclusione di un processo per causa di lavoro a Milano, in 200 a Torino e addirittura in 429 a Roma, tra il 2003 e il 2005.
Il problema è un altro ed è ineludibile. Arriverà al pettine, magari tra anni e solo allora si cercherà di porre rimedio rattoppando un sistema che invece necessita di modifiche profonde adesso. Nessun giovane fa più affidamento, oggi, sul posto fisso, su una retribuzione standard immodificabile, su un orario di lavoro preciso e ben determinato in sede contrattuale. Sappiamo tutti che questa realtà è ormai un’utopia. Quello che chiediamo allora è un’altra cosa, una modifica diversa, un cambio di rotta netto. Ecco la provocazione: la vera libertà oggi è poter licenziare (e essere licenziati) per poter assumere (e essere assunti). E’ inutile formare giovani studenti, sempre più specializzati, con competenze che in passato non erano neanche lontanamente immaginabili, se poi non c’è ricambio. Il rischio è quello di creare una generazione sprecata, con potenzialità impensabili ma relegate in un angolo a causa di un sistema chiuso. E’ interesse sia dell’impresa poter assumere persone più competenti a fronte di altre meno preparate, sia del mercato, sicuramente più efficiente per ovvi motivi, sia delle giovani leve in entrata che avrebbero così (finalmente) la possibilità di mettere a frutto anni e anni di studio.
“Il sotto utilizzo dei giovani… è uno spreco che non possiamo permetterci” e “riduce in vari modi la crescita: abbassa la probabilità di nascita di nuove imprese, mediamente più innovative delle altre, determina a lungo andare il decadimento del capitale umano, frenando l’assimilazione del progresso tecnico e l’efficienza dei processi i produzione”. Queste le parole del presidente della Bce, Mario Draghi, supportate da dati occupazionali mostruosi (purtroppo in negativo) e con trends di ribasso ancor più marcati.
Secondo gli ultimi dati ISTAT il tasso di disoccupazione è arrivato in Europa al 10,9% (il 10,2% considerando l’UE a 27 Stati) a fronte del dato italiano del 9,8% (statistica peraltro fortemente condizionata dai dati di Grecia e Spagna con tassi pari rispettivamente a 21,7% e 24,1%). Sconcertante è il trend che vede un incremento di questi dati, già assolutamente nefasti, in misura pari all’1,7% su base annua e con un andamento su base trimestrale che è stato peggiore solo nell’ormai lontano 1992. Nel 2007 il tasso di disoccupazione in Italia era pari al 6,1%, ben oltre tre punti percentuali al di sotto del dato attuale. Orbene, se reputiamo questi indici gravi, soppesiamoli con quelli sulla disoccupazione giovanile, rendendoci così finalmente conto della direzione che devono obbligatoriamente e senza ritardo percorrere le politiche economiche governative. Se a fine 2010 un giovane su quattro era disoccupato, oggi il tasso di disoccupazione giovanile è pari al 35,9% (più di un giovane su tre è senza lavoro).
Non vi sono dubbi nel considerare la situazione attuale estremamente complessa per tutti ma non considerare una possibile soluzione lo sblocco di un mercato del lavoro cementato ormai da anni, permettendo così un naturale ricambio e un apporto di energie e competenze nuove negli apparati produttivi, significa non voler risolvere realmente il problema, preoccupandosi solo di limitare gli effetti attuali di una crisi sistemica che tornerà a riproporsi ciclicamente.
E a tal affermazione non è opponibile l’assunto, spesso profetizzato, che così aumenterebbe la disoccupazione. Quella c’è già; l’unica differenza sarebbe quella di garantire a chi non ha il lavoro (pur avendone tutti i requisiti) e neanche una pensione futura, di garantirsi almeno la prima delle due cose. La vera sfida è combattere l’immobilismo che attanaglia l’Italia e mettere tutti sullo stesso piano, quello della concorrenza, ove la regola del merito è ancora quella che, fortunatamente, governa.
http://www.linkiesta.it/austria-la-ricetta-economica-che-funziona#ixzz1sa6Vmpbm
È dal 1970 che questo paese è ingessato da un potere sindacale che, come una mamma troppo protettiva, ha viziato i propri associati ad un lavoro che non doveva mai finire fino alla pensione, che poteva essere improduttivo, che doveva essere remunerato sempre meglio man mano che si invecchia, che ci si puó mettere in mutua al bisogno etc.. Ma prima c’era la crescita che consentiva tutto ciò, oggi che non si cresce più, tutto si ritorce contro quel sistema ormai insostenibile. E alla mamma non puoi oggi dire che ha viziato troppo suoi figlioli, che adesso non essendo stati educati a cambiare lavoro non sanno come cavarsela. Che le remunerazioni non possono più crescere senza merito ecc.. E adesso li difende al di la del difendibile tanto che pur di cambiare quelle ideali situazioni è meglio stare a casa (vedi Pomigliano). Peccato che tutto questo sia stato costruito sulla pelle dei lavoratori più onesti che al pari degli altri oggi sono alla disperazione. Ma piuttosto che riconoscere i propri errori e cercare di ricreare le condizioni di lavoro sostenibili, si afferma che è il sistema il responsabile ultimo che sono gli evasori o gli industriali di turno che scappano dal paese etc. etc.. Certo ci sono responsabilità anche diffuse, ma resistendo su posizioni non sostenibili cosa si ottiene? Forse che si tema che qualcuno incominci a mettere sotto inchiesta i poteri sindacali con tutte le schifezze che nascondono dietro di loro?
Mi sembra che non siano ben circoscritti i problemi da analizzare.
Se stiamo parlando di “un’impresa in bonis, in crescita, che non ha alcuna intenzione di privarsi dei suoi elementi qualificati per rifornire la concorrenza di possibile forza lavoro altamente specializzata e a conoscenza del know-how e degli altri segreti industriali.”, allora è abbastanza chiaro che si tratta di Dirigenti.
I Dirigenti non sono mai stati soggetti alla disciplina dei contratto collettivi.
Se invece parliamo del fatto che un giovane su tre è disoccupato, mi pare chiaro che si tratta di un’altra platea di riferimento.
Di soggetti comunque deboli che non possono essere lasciati da soli a competere con il Mercato.
Ha senso parlare di flessibilità in entrata, di un apprendistato lungo tre anni, per un ragioniere che inserisce i dati o un operaio addetto alla catena di montaggio, laddove per imparare tutto quel che c’è da imparare non ci vogliono tre anni, ma bastano tre giorni?
D’accordo sulla filosofia di fondo, ma non dimentichiamo che l’azienda descritta è parzialmente un’utopia: quante realtà sono in grado di sfruttare non dico appieno, ma ad un 60% le competenze fornite da una laurea tecnica? L’immobilismo da sindacati si è spesso trasferito come mentalità verso i (piccoli) imprenditori, che portano avanti la propria azienda con logiche familiari, portando quindi ad un’ulteriore spreco di risorse.
Probabilmente la mia è una casistica molto particolare ma, ad esempio, dei miei colleghi di università (Ingegneria, diversi indirizzi) credo che 6 su 15 abbiano un ruolo strettamente tecnico, mentre i rimanenti rivestono funzioni attinenti al commerciale.
Quali sono le esperienze in merito degli altri commentatori?
Io eviterei questi post.
Capisco il problema della gessatura del mercato del lavoro ma dobbiamo costruire un sistema migliore, non solo una fetta (il lavoro).
Inutile dire bisogna poter assumere e licenziare con più facilità sensa difendere le persone che per cause non da loro dipendenti sono a casa senza reddito… chi paga i mutui? Chi paga l’affitto? Chi paga le rate della macchina? chi paga l’asilo nido? Non venitemi a dire che non ci avete pensato?
A me sembra pura ipocrisia dire di voler sistemare le cose solo facilitando l’uscita (perchè di entrata ultimamente non se ne parla) dal mondo del lavoro.
Bisogna riformare l’intero welfare, l’intero Paese. Io non vorrei che storicamente ci sia stato una sorta di accordo del tipo: ok per articolo 18, ma stipendi da fame, perchè mi sembra proprio di vederla così.
Come riformare il tutto? Fantasia?
@giuseppe
Ripeto una osservazione elementare che , non capisco perchè , viene quasi sempre dimenticata. In Italia ci sono quasi cinquemilioni di stranieri in maggioranza giovani che in stragrande maggioranza stanno lavorando . M aè possibile che a nassuno venga in mente che se i “poverini ” italiani si degnassero di accettare i lavori che fanno questi stranieri la disoccupazione italiana diminuirebbe drasticamente ?
A Roma per duemila ” posti ” al Comune sono state presentate quasi centocinquantamila domande . Per molti mestieri molto più utili di quello di passacarte al Comune romano o di camminatore alla Regione Sicilia , non si presenta nessuno e quelli che si presentano sono giovani stranieri . Finchè i giovani non si renderanno conto che è meglio fare un lavoro ” umile ” piuttosto di continuare a farsi mantenere dai genitori , dai nonni , dai contribuenti , la disoccupazione dei giovani non migliorerà mai.
@Claudio Di Croce
Capisco il suo punto di vista. Ma generalmente un giovane che accetta un lavoro umile ci rimane ingarbugliato per tutta la vita. E’ come un marchio dell’infamia che non si stacca più. Qualcuno dice che sia perchè siamo in un Paese Cattolico, dove conta più l’Apparire che l’Essere (ed invece dovrebbe essere esattamente il contrario) Non so se sia vero, e non me la sento di sostenerlo. Ma nei Paesi Protestanti e Anglosassoni si può iniziare anche da molto in basso senza correre il rischio di bloccarsi. Ma quei lavori sono molto più apprezzati (ogni lavoro ha la sua utilità) e pagati di più. Non è vero il contrario. Per esempio in Germania l’operaio della Wolkswagen guadagna più che in Italia, ma il medico ospedaliero tedesco molto meno che in Italia. Il Direttore di Museo Italiano guadagna più del suo collega francese. Senza parlare dei casi più eclatanti,quelli che fanno ribrezzo a tutti. Di questa situazione i giovani italiani hanno piena avvertenza, anche se non la hanno formulata in termini di rivendicazione o di protesta. E’ solo fiuto, ma un fiuto molto acuto e ben diretto. E hanno sviluppato una certa risposta, che è il rifiuto.
In genere il ” fiuto ” porta gli animali a ottenere un risultato positivo indirizzandoli correttamente .; il ” fiuto ” dei nostri giovani li porta , ripeto, al ” risultato ” di farsi mantenere dai genitori, dai nonni, dai contribuenti . Io non lo chiamerei ” fiuto ” ma fannullaggine per non dire peggio , con concorso di colpa di chi gli ha fatto credere per decenni che con un pezzo di carta avrebbe ottenuto un ” posto di paga ” sicuro, garantito a vita, ben pagato , con il lavoro come optional , quando non aveva di meglio da fare .
Questo mondo è finito e fino a quando non se ne renderanno conto tutti la situazione continuerà a peggiorare.
D’accordissimo con l’articolo, ma alla libertà di licenziamento vanno affiancati quegli ammortizzatori sociali che l’Unità Europea ci chiede da anni di inserire.
Si tratta di avere un mercato del lavoro che sia, sì, molto mobile, ma all’interno di un sistema che mantenga una vita dignitosa a chi il lavoro non ce l’ha, meglio se a fronte di formazione mirata, gestita dalle aziende, e/o da lavori “socialmente utili” presso il terzo settore.
Intanto bravo Claudio Di Croce.
Aggiungo che quello che suggerisce il sig. Vangelisti non è affatto “provocatorio”, è il minimo che si possa fare per restare agganciati ad un contesto internazionale in tumultuosa trasformazione e aspra competizione.
Del resto qual’è il principio per cui lo Stato obbliga un datore di lavoro a pagare per dei servizi anche quando il fornitore e/o i servizi stessi non sono più necessari, richiesti o di proprio gradimento?
Che casalinga accetterebbe di essere obbligata dallo Stato a comprare tutta la carne da un certo macellaio X, quando sa benissimo che i prezzi è la qualità del macellaio Y sotto casa sua sono molto migliori?
Una proposta veramente provocatoria è questa: tutti con Partita IVA!
Stipendi, buste paga, ritenute d’acconto, consulenti del lavoro e sindacati: tutto svanirebbe come per incanto.
Per arrivare a questo non serve neanche una riforma organica delle leggi sul lavoro, basterebbe abolire quella norma che obbliga il cliente ad assumere un fornitore di servizi nel caso che questi risulti essere monocommitente (ha un solo cliente, il succitato).
E tutto il resto può restare benissimo così com’è, tanto a quel punto sarebbe solo una questione di tempo…
Un effetto collaterale DESIDERATO di questa riformina riguarderebbe le tasse sul reddito: l’abolizione della ritenuta d’acconto, oltre a ripristinare il principio della legge uguale per tutti, metterebbe in scacco lo Stato spendaccione, perché l’arma propagandistica della “lotta all’evasione” risulterebbe spuntata e perché finalmente tutti i lavoratori, ma proprio tutti, avrebbero modo di constatare come i servizi “offerti” dallo Stato non siano affatto gratuiti.
Allora forse ciascuno lavoratore, ciascun cittadino, ciascun individuo, comincerebbe a essere più responsabile per se stesso, più libero nelle proprie scelte e sempre più, artefice del proprio destino (faber fortunae suae, dicevano i latini).
Geniale claudio p e Claudio Di Croce: sempre bello sentire i discorsi da bar “eh questi giovani fannulloni, ai miei tempi nel vecchio West, quando ancora non c’era ancora la ferrovia, allora sì…”
Io ho partita IVA e sono stato dipendente. Il lavoro è COMPLETAMENTE diverso. Io vengo pagato per l’output non perché obbedisco! Non ho vincolo di subordinazione. Voglio vedere come tieni insieme un lavoro su 8h/5g senza vincolo di subordinazione. Oppure volete che uno sia una partita IVA monocliente e debba sottostare agli orari e agli ordini del committente?
Faccio presente che nella mia città la servitù della gleba l’hanno eliminata nel 1257 col Liber Paradisus e scommetto che vent’anni dopo c’erano quelli che, sorseggiando un boccale di cervegia, sputavan sentenze “eh questi giovani sfaticati, quando erano servi e si poteva comandarli con la frusta! Eh questa modernità! Troppi diritti!”
Premesso che il sottoscritto pur cominciando a lavorare come dipendente, non trovando gratificazioni sufficienti, ha deciso di diventare autonomo. Qualifica che ho ancora oggi. Quindi precario da una vita con piena soddisfazione. Certo se non ci appassiona al proprio lavoro diventa difficile qualificarsi e competere sul mercato. Io ho sempre sostenuto che chiunque deve porsi sul lavoro, cercando continuamente di crescere professionalmente per poter offrire sempre di più. Rispetto al problema dell’affitto, le bollette etc. da pagare, lo capisco, ma si inquadra il problema al contrario. Il Governo deve creare le condizioni ideali per i propri cittadini per metterli in condizioni di competere (e sicuramente fa poco, come sempre ha fatto peraltro). Tocca peró a noi, sin dalla scuola, capire cosa è opportuno studiare, e poi cosa cercare di fare. Nessuno regala nulla, ma se uno dimostra che ci sa fare, comprendendo che tutti i lavori sono opportunità che bisogna imparare a cogliere.
@Alessandro Guerani
Credi che siano stati quelli come te a liberare i contadini dalla servitù della gleba?
Se tu fossi nato mille anni fa, allora come oggi, avresti fatto discorsi in favore della subordinazione e dello status quo.
Io piuttosto, allora come oggi, avrei scalpitato per difendere il mio lavoro, la mia proprietà e la mia dignità.. e magari sarei stato anche cacciato dalla gleba.
Ve lo immaginate Fantozzi con la sua Bianchina, la moglie racchia, e tre figli sfigati a competere col mercato? Non si tratta di essere liberali o meno.
Ma di non essere del tutto cinici e coltivare un pò di sano buon senso.
@Alessandro Guerani
Onestamente ho capito poco il suo intervento : penso che lei sia più chiaro con i suoi clienti altrimenti la vedo dura . Potrebbe comunque rispondere alla mia banale osservazione circa i giovani italiani ( ovviamente non tutti )che sventolando il loro pezzo di carta urlano il loro DIRITTO ad avere il posto di paga conforme alle loro ” aspirazioni ” ?
SONO D’ACCORDO CON LEI, PURTROPPO NOI SIAMO ABITUATI AD AFFRONTARE LA REALTA’ NON PER QUELLO CHE ESSA E’, MA USANDO CRITERI IDEOLOGICI, LIBERISTI O MARXISTI CHE SIANO, ANCHE INCOSAPEVOLMENTE E IN BUONA FEDE.LE IDEOLOGIE SONO PERO’ SEMPRE DELLE LENTI DEFORMANTI CHE CI PORTANO VERSO IL NULLA.
Semplifico ancora per rendere l’argomento adatto al tono da bar.
Se volete che la gente lavori sotto vincolo di subordinazione solo quando serve, oggi lavori, domani no, state proponendo semplice “bracciantato”.
Vedete voi come questo si può conciliare con una struttura produttiva un minimo moderna. Discorsi da bar appunto.
Uguali discorsi da bar “ah questi giovani ventolando il loro pezzo di carta urlano il loro DIRITTO ad avere il posto di paga conforme alle loro ” aspirazioni”.
Io non so quanti anni ha lei ma questi discorsi si sono sentiti fin dalla preistoria in tutti i bar del mondo, basta avere un minimo di cultura letteraria per trovare mille esempi:
“- Sì! brontolò ‘Ntoni, intanto, quando avremo sudato e faticato per farci il nido ci mancherà il panico, e quando arriveremo a ricuperar la casa del nespolo, dovremo continuare a logorarci la vita dal lunedì al sabato; e saremo sempre da capo!
– O tu che non vorresti lavorare più? Cosa vorresti fare? l’avvocato?”
(G. Verga – I Malavoglia)
Buon caffè al bar e mi raccomando, state attenti a quei capelloni che vi scippano!
@Alessandro Guerani
Per scrivere frasi senza senso tirando in ballo la ” cultura ” non è necessario frequentare bar , basta attaccarsi alla bottiglia o farsi una canna a casa.
Poche decine di anni fa i giovani italiani -pezzo di carta o no – si comportavano come gli immigrati di oggi e come le decine di milioni di giovani che nel mondo si affacciano al mercato del lavoro senza arroganza ma con la voglia di lavorare e di migliorare la propria situazione economica . Grazie a questi ex giovani l’Italia è diventato un Paese ricco e grazie ai giovani di adesso ritornerà povera.
@Claudio Di Croce
Si potrebbe anche precisare che i giovani di poche decine di anni fa hanno vissuto in un periodo in cui buona volontà e duro lavoro erano condizioni sufficienti.
Oggi le cose sono un po’ diverse, per i giovani di oggi la voglia di lavorare (che forse molti non hanno, ma molti altri si) da sola non è più sufficiente, e questo principalmente perché quegli ex-giovani che hanno reso l’Italia un Paese ricco l’hanno fatto creando un debito che i giovani di oggi devono pagare, creando un sistema economico rigido incapace di competere sul mercato di un mondo che nel frattempo è cambiato, l’hanno fatto creando un sistema corrotto dove emergono i figli di qualcuno e giovani capaci sono costretti a cercare fortuna all’estero.
Quello che ci serve, tra le altre cose, è proprio un cambiamento culturale e la consapevolezza che il mondo è cambiato – la nostalgia dei “bei tempi andati” non aiuterà.
@Alessandro Guerani
Il povero N’toni, che finisce contrabbandiere, alcolizzato, assassino e galeotto non è esattamente un saggio, un eroe, un vincente a cui ispirarsi.
Anzi, direi che se avesse dato retta a suo nonno (che non è poi così lontano da Claudio Di Croce), magari le cose gli sarebbero potute andare un po’ meglio…
Per quanto l’idea della Partita IVA per tutti sia dichiaratamente provocatoria, non è difficile dimostrare che le strutture produttive non “un minimo moderne” ma “più moderne” sono quelle che più si avvalgono dell’outsorcing e di collaboratori freelance.
@Ricardo
I giovani di adesso che si fanno mantenere dai genitori , dai nonni e dai contribuenti hanno goduto e continuano a godere di un tenore di vita che le generazioni precedenti non si sono manco sognati. Il debito deriva proprio dal fatto che dagli anni ottanta in avanti è diminuita la voglia di lavorare ed è continuata ad aumentare la spesa e di questo ne hanno goduto e continuano a godere i giovani fannulloni dai venti ai quarantanni . Del resto come si spiega il fatto a cui tutti quelli come lei non rispondono mai : i giovani immigrati, e sono quattro milioni , lavorano e fanno i lavori che i nostri giovani fannulloni non vogliono fare ; preferiscono continuare a farsi mantenere come prima ho detto . ( non tutti ovviamente )