La vera partita sui prepensionamenti: quando si dice una non-priorità
Per abbattere l’incertezza che ormai sull’Italia si espande nei mercati, per l’esito molto incerto del prossimo referendum e una nuova possibile instabilità governativa, bisognerebbe PRIMA del referendum approvare la prossima legge finanziaria, e SMETTERLA di fare annunci quotidiani su pre-pensionamenti senza numeri, perché nel dubbio i pensionati per cautela consumano ancora meno. Lo scrive oggi sul Corriere della sera Francesco Giavazzi: ma sono considerazioni da mondo ragionevole ideale, qui da noi avverrà l’esatto opposto. Tanto vale allora parlarne chiaramente, delle incertezze che gravano sulla prossima legge finanziaria, e della partita vera che si gioca sui prepensionamenti.
La manovra finanziaria in arrivo è appesa ancora a molte incognite. Sui saldi, il governo intende chiedere in Europa un altro mezzo punto di PIL di deficit in più rispetto al concordato, salendo al 2,3% invece dell’1,8%. Ballano dunque per questo 8 miliardi, non noccioline, e al di là degli effetti di Brexit e del rallentamento della congiuntura per il governo è la differenza tra una manovra che consenta di inviare più segnali alla sinistra del pd e al sindacato, oppure no. Esattamente questa è la seconda incognita, quella politica, di una manovra che sarà a metà dell’esame parlamentare quando verrà proclamato il risultato del referendum sulle modifiche costituzionali, diventato per il governo la partita della vita.
Il governo è impegnato ad annullare per un punto di PIL le clausola di garanzia fiscali che vedrebbero l’aumento di IVA e accise. E che a questo si aggiunge la discesa dell’aliquota IRES per le imprese dal 27,5 al 24%, già prevista per il 2017 nel tendenziale pluriennale approvato con la legge di stabilità 2016. Malgrado i molti annunci di Renzi è praticamente impossibile immaginare un anticipo dell’intervento sull’IRPEF previsto per il 2018, in assenza di tagli di spesa che non fanno parte dell’orizzonte di questo governo. Ma è sulla previdenza, che da 9 mesi a questa parte un pezzo del Pd e ovviamente il sindacato hanno incatenato il governo alla necessità di vasti interventi “sociali”.
Molto ci sarebbe da dire, sul fatto che dalla sinistra alla destra tanto ci s’incaponisca sul teme di prepensionare chi un lavoro ce l’ha, invece di considerare prioritario destinare incentivi all’aumento della produttività – la cui stagnazione ventennale è il problema numero uno dell’Italia – e varare politiche attive dell’occupazione per chi un lavoro non ce l’ha, e ha già cumulato un enorme problema di continuità contributiva. Ma è inutile obiettare in nome di queste ragioni: in politica conta la forza della rappresentanza. Quella dei giovani è inesistente, debole è quella delle imprese. Mentre Renzi e il suo governo, per come stanno le cose, non possono ignorare né un pezzo del Pd né il sindacato.
Ergo sarà prepensionamento, sia pur sotto il nome di “flessibilità in uscita”. Anzi APE, anticipo della pensione. E la battaglia, prima ancora di conoscere i dettagli delle misure, è innanzitutto sulle poste in bilancio: 1 miliardo e mezzo secondo il governo, 2 e mezzo almeno secondo sindacati e chi obietta “da sinistra”.
Alcune delle misure in arrivo hanno una loro equità di fondo, rispetto alla piramide dei redditi italiani. Come per esempio attenuare fortemente fino ad annullare la spropositata onerosità dei ricongiungiumenti per chi ha versato nella vita lavorativa contributi a enti diversi (si tratta di quasi fino a 100mila lavoratori l’anno, se si estende il meccanismo anche a chi si prepensionasse rispetto ai requisiti di vecchiaia oggi vigenti, con un costo potenziale fino ai 400 milioni in 10 anni) . Oppure, in alternativa, alzare la no tax area attuale oltre gli 8mila euro, oppure ancora estendere la platea della 14esima mensilità previdenziale (ma in questo caso, se si passa dall’attribuirla a coloro che come oggi sono sotto i 9787 euro lordi l’anno a chi fosse sotto i 12mila, i 2 milioni di soggetti aggiuntivi beneficiari significherebbero, a dar retta alle ipotesi più generose, anche un onere di circa 600milioni annui).
Il cuore della faccenda però è un altro: a chi riservare la possibilità di andare in pensione con 3 anni e 7 mesi di anticipo rispetto ai requisiti anagrafici di vecchiaia previsti dalla legge Fornero, e con quale ripartizione degli oneri. Le risposte ai due quesiti segnano il confine tra il governo e chi chiede di più.
Non è la differenza muscolare tra chi ha più forza a braccio di ferro. Di mezzo ne va un punto di principio. Se cioè si voglia preservare l’impianto della progressività dei requisiti per la pensione ancorati all’attesa di vita, grazie ai quali abbiamo messo in relativa sicurezza i conti previdenziali italiani, e quando dichiamo “relativa” intendiamo comunque attraverso la devoluzione in pensioni di 4 punti di PIL l’anno più che nella media europea. O se, invece, nella prossima legge di bilancio si dia a quella progressività la spallata iniziale, per farlo crollare poi inesorabilmente anno dopo anno. Inutile dire che la seconda prospettiva fa spallucce sul maggior deficit che ciò comporterà, e sugli aggravi per i più giovani, che continueranno a pagare nel sistema a ripartizione anche le pensioni date prima a chi ne ha maturate come i meno anziani non ne avranno mai.
Vedremo solo in parlamento dove si fermerà il pendolo. Ma sin d’ora la differenza si vede. Il governo fa capire di dividere in due la platea dei soggetti a cui applicare la facoltà della pensione a 63 anni. Solo per coloro che rientrano nelle categorie – vedremo come definite – di disoccupati di lungo periodo prossimi a esaurire la copertura degli ammortizzatori, o di coloro che godono comunque di bassi redditi (anche qui, la soglia è fondamentale), l’onere del prepensionamento dovrebbe essere a carico pubblico, e per questo si parla di 600milioni. Per tutti gli altri, scatterebbe l’abbattimento dell’assegno previdenziale in cambio del prepensionamento, un decalage maggiore maggiore quanto più si è lontani dai 66 anni e 7 mesi del requisito previsto. In pratica: se vuoi andare in pensione prima rinunci a una parte dell’assegno perché ne godrai più a lungo, e in maniera esattamente proporzionata al più lungo godimento. In soldoni: con tagli dell’assegno fino al 15-20%. Perché si tratta di coprire non solo i pagamenti anticipati INPS, ma il costo del rischio – ancora da definire – a cui si esporrebbero le banche chiamate ad anticipare all’INPS gli esborsi, nonché la sua copertura attraverso polizze assicurative, visto che in caso di deprecabile decesso del prepensionato prima che sia terminato l’ammortamento dell’anticipazione le banche non potrebbero certo rivalersi sui superstiti, e sulla loro pensione di reversibilità.
Come si vede, in questa impostazione i tetti della legge Fornero restano, tanto che è rispetto a loro che si calcola il piano di copertura finanziaria a carico del pre-pensionato. Cosa del tutto diversa se invece, oltre ai soggetti “socialmente da tutelare” a cui il governo vuole estendere l’intervento, l’onere dello Stato sarà esteso anche per tutti coloro che non vi rientrano, né perché disoccupati di lungo periodo vicino alla pensione, né perché a reddito bassissimo. In quel caso sarebbe inutile far finta di non vedere la sostanza: è la breccia attraverso cui rimettiamo in discussione tutti i conti dell’INPS per decenni a venire.
E’ un falso problema, sostengono i fautori dello sfondamento. Basta aggiungere ai 600 milioni a carico publico per i prepensionati “sociali” a cui pensa il governo, altri 600 milioni che dall’anno prossimo le imprese non saranno più tenute a versare per il venir meno del contributo a loro carico dello 0,3% del salari lordo per finanziare la vecchia indennità di mobilità, sostituita dai nuovi ammortizzatori previsti dal Jobs Act. Non è un ragionamento, però. Primo non si capisce che senso abbia dire alle imprese che le si sgrava fiscalmente, se poi con la mano sinistra ci si riprende quel che la destra toglie. Secondo: la decisione di pre-pensionarsi è del lavoratore, non dell’impresa. Queste ricorrono a prepensionamenti anche co-finanziati quando vi sono accordi con il sindacato per stato di crisi o per esubero di personale. Ed è tutt’altro paio di maniche.
Ma chi obietta al governo ha un’altra carta in mano. Se prevedete davvero prepensionamenti onerosi a carico di chi li richiede con tagli all’assegno così elevati, ammiccano al governo, la vostra ricetta sarà un flop perché pochissimi vi faranno ricorso. E quell’eventuale flop ci sarà chi lo userà politicamente con durezza.
Sui conti previdenziali bisogna ragionare con un’ottica di lungo periodo, non delle prossime eleziomi. Speriamolo, in nome di chi è più giovane. Ma, allo stesso tempo, disperiamone dando un’occhiata alle dichiarazioni quotidiane.