La Svezia tra Nobel e jeans neri
Non vi è forse paese al mondo che rifiuti il confronto politico e commerciale con la comunità internazionale più della Corea del Nord, una delle poche autentiche dittature comuniste ancora in vita. E pochi sono i leader che nutrono un’ostilità così aspra nei confronti dell’Occidente, e degli Stati Uniti in particolare, quanto quella di Kim Jong Il, capace persino di vietare ai propri cittadini di indossare l’indumento che, per la sua versatilità, è forse il più diffuso – “globalizzato” ante litteram – al mondo: i jeans.
Eppure l’ostilità del “caro leader” sembra in qualche modo attenuarsi quando si tratta di produrli per l’esportazione. Certo si tratta, almeno per ora, di solo 1100 capi in due soli modelli e di colore rigorosamente nero. Una scelta quest’ultima che nulla ha che vedere con moda o marketing bensì con l’ideologia, essendo il blu rigorosamente vietato in quanto giudicato troppo “americano”.
Dietro a questo piccolo ma, a ben vedere significativo, gesto di distensione nei rapporti con l’Europa, l’idea imprenditoriale di re giovani svedesi, Rauden Kallstigen, Jakob Ohlsson e Jacob Astrom, tutti sotto i trent’anni, ideatori del marchio “Noko Jeans” – dove “Noko” sta per North Korea.
Per evitare equivoci i tre hanno da subito precisato che la loro iniziativa non era in alcun modo da ritenere mirata ad avvantaggiare un governo così (eufemisticamente) «anti democratico». Più che il profitto in sé, il loro desiderio più vivo è sempre stato quello di tendere la mano a un popolo diverso da quello, ritratto dalla televisione di Stato per impressionare l’Occidente, che marcia irreggimentato dietro missili e carri armati.
Per la vendita dei loro indumenti, oltre che ricorrere al web, i tre giovani imprenditori avevano preso accordi con Pub, uno dei più grandi centri commerciali del paese, due interi edifici nel centro di Stoccolma.
Ora però, a poche ore dal lancio sul mercato dell’inusuale (e non esattamente economico: 200-220 dollari il paio) prodotto, la direzione dei grandi magazzini fa un passo indietro, rischiando di vanificare ancora prima del giudizio del mercato i due anni e mezzo di sforzi dei tre giovani imprenditori. Rene Stephansen, direttore commerciale di Pub, ha dichiarato che «i magazzini non vogliono associare il loro nome» a una questione politica delicata. La paura della strumentalizzazione politica è evidente nell’ulteriore precisazione che «sale e corridoi non possono diventare il forum di dialogo sulla Corea del Nord».
E dire che la Svezia è uno di quei pochi paesi europei che intrattengono rapporti diplomatici con il regime (comunista). E che recentemente ha voluto ancora confermare la sua inclinazione all’ecumenismo geopolitico insignendo del Nobel per la pace una figura che non era certo al di sopra di delicate questioni politiche al momento dell’assegnazione del prestigioso riconoscimento: Barack Obama. Premio – per inciso – quantomeno discutibile e, di fatto, da più parti discusso.
Che il commercio sia il migliore antidoto alla guerra l’hanno spiegato in tanti. Montesquieu e, ancora meglio, Bastiat com’è ben noto. E ancora, per rimanere nella tradizione a noi cara, quel Richard Cobden che negli scritti dell’autore de La loi trovò tanta linfa per la sua battaglia contro quel fatale protezionismo da cui l’Inghilterra si lasciava già circuire sul finire dell’Ottocento.
La Corea del Nord è una perfetta rappresentazione del nesso tra chiusura commerciale e inclinazioni guerrafondaie (per le quali, ricordiamolo, è soggetta a un rigido embargo). Ed è proprio per questo che sarebbe assolutamente qualificata a rappresentare anche la relazione opposta, quella tra libertà economica e libertà politica, così come già è stato in passato per la “sorella” del Sud.
Sul web circola una diceria. Si narra che nella primavera del 1917 alcuni amici svedesi di Lenin, in occasione di un periodo di permanenza del leader bolscevico a Stoccolma si premurarono di accompagnarlo da Pub perché non ritornasse in Russia prima di avervi acquistato un nuovo abito.
Chissà che se gli attuali responsabili dei magazzini avessero il coraggio di tornare sui propri passi tra qualche decennio, navigando su internet, non ci si possa imbattere in un altro aneddoto.
Non sarebbe suggestivo leggere che proprio da lì sarebbe scoccata la scintilla destinata a far scoppiare una grande rivoluzione pacifica in un piccolo e lontano paese accartocciato su sé stesso?