La Sfida di Luca Ricolfi e l’economia politica del declino
Non c’è un momento migliore di oggi – sospesi tra l’incarico pieno assegnato a Enrico Letta e l’incertezza sulla possibilità per il vicesegretario Pd di coagulare una maggioranza stabile – per leggere l’ultimo libro di Luca Ricolfi, La Sfida. Ricolfi tenta un doppio sforzo: da un lato compie un esame (con molta autocritica) dell’impasse attuale. Dall’altro offre una via d’uscita ai partiti e all’opinione pubblica. Una via d’uscita che, però, convince solo in parte, perchè rischia di ricadere nello stesso tipo di sabbie mobili che Ricolfi denuncia.
Ma andiamo con ordine. Il senso del libro è, per Ricolfi, cambiare totalmente approccio rispetto a quello adottato finora, nel tentativo di mettere la propria competenza specialistica al servizio dell’opinione pubblica e dei decisori politici. Fino a oggi, dice Ricolfi, si è tentato di “diagnosticare il male, per poi somministrare la cura”. Cioè identificare le cause della scarsa produttività, bassa crescita, eccetera, e suggerire politiche che avrebbero potuto rimuoverle. Al contrario, prosegue, occorre partire dal fondo; cioè interrogarsi non più sulla “migliore diagnosi” ma sulla “migliore terapia”.
In breve, i problemi italiani hanno trovato diverse letture (diagnosi). Per semplificare: la destra ha ritenuto che il carico fiscale fosse responsabile della bassa crescita, e quindi si è sforzato di tagliare le tasse anche al costo di ridurre i servizi. Al contrario, la sinistra ha messo nel mirino le disuguaglianze, e si è dunque impegnata a offrire migliori servizi pubblici a costo di aumentare le tasse. Sullo sfondo, due presenza ingombranti: l’evasione fiscale, che la sinistra ha individuato come nemico pubblico numero uno ma la destra ha in qualche modo difeso per timore che la lotta al sommerso si traducesse in un aumento della pressione fiscale; e gli sprechi della spesa pubblica, che la destra avrebbe voluto aggredire ma che la sinistra ha tutelato per paura di mettere in discussione il primato della politica sull’economia. Poiché queste diverse diagnosi erano incompatibili tra di loro, in quanto fissavano obiettivi strategici diversi, anche le terapie derivanti da ciascuna finivano per apparire incompatibili. Aver mantenuto il conflitto politico sui “principi primi” (libertà vs. uguaglianza) ha impedito di avviare un confronto pragmatico sugli strumenti. In realtà destra e sinistra non sono state proprio così coerenti rispetto allo schema teorico, ma – per amore di semplicità – prendiamolo pure per buono.
Dunque, argomenta Ricolfi, dobbiamo fare un passo di lato. Non esiste infatti una ragione per cui la lotta all’evasione debba essere incompatibile con la lotta agli sprechi. Il fatto è che legare la lotta agli sprechi alla riduzione delle tasse (come ha fatto la destra) e la lotta all’evasione all’erogazione dei servizi (come ha fatto la sinistra) ha prodotto incomunicabilità. La sfida consiste nell’impegnare destra e sinistra a cambiare occhiali: se noi pensiamo la lotta all’evasione come lo strumento per trovare risorse da destinare al taglio delle imposte, e la lotta agli sprechi come lo strumento per finanziare il welfare state, abbiamo trasformato il conflitto in (potenziale) cooperazione. Guardando le cose in modo diverso, si può superare l’ostacolo che per vent’anni ha paralizzato la politica italiana.
Il presupposto del ragionamento di Ricolfi è che, almeno nel medio termine, né la pressione fiscale né la spesa pubblica (come aggregati) vadano intaccati. Devono essere, entrambe, redistribuite al loro interno: il peso delle tasse va redistribuito dai contribuenti leali agli evasori, il beneficio della spesa pubblica dagli “sprechi” allo Stato sociale. Ricolfi ha scoperto la pietra filosofale della politica italiana?
Ci sono tre ragioni di scetticismo.
La prima è che, a dispetto delle premesse iniziali, la terapia di Ricolfi deriva da una diagnosi. Anzichè interrogarsi sulle cause economiche e scatenanti del declino, Ricolfi indaga sulle cause politiche e predisponenti. Ma il suo retropensiero – enunciare un’analisi di per sé razionale e condivisibile porterà a sciogliere i nodi – è purtroppo viziato dal fatto che la political economy del declino non viene portata alle estreme conseguenze. Ricolfi è un illuminista: assume un punto di vista “terzo”, lo enuncia, e confida che questo basterà a convincere i partiti. Invece non è così: i partiti si sono comportati in un certo modo non perchè fossero ignoranti o stupidi, ma perchè – dati i loro incentivi e i loro obiettivi – era perfettamente razionale fare così: Ricolfi sovrastima, per così dire, il tasso marginale di sostituzione tra gli elettori “cattivi” (evasori e fannulloni, rispettivamente) e quelli “buoni”. Se (stando all’analisi di Ricolfi) gli evasori votano destra, e i beneficiari della spesa pubblica improduttiva votano sinistra, è ovvio che destra e sinistra cerchino di accontentarli, a meno che, facendolo, non scontentino in misura più che proporzionale la restante parte della loro base elettorale. Fino al 2013 non è stato così; ed è tutto da vedere se il voto a Grillo sia la prova che, al margine, un voto guadagnato da evasori e parassiti abbia fatto perdere più di un voto da parte di altri.
La seconda ragione per cui Ricolfi non appare del tutto convincente è che la diagnosi sottostante tiene fino a un certo punto. E’ probabilmente vero che, in assenza di vincoli, possono esservi buone ragioni per aumentare la spesa sociale. Ma, se anche questo obiettivo potesse essere raggiunto (e ciò è vero solo parzialmente) attraverso una ridistribuzione della spesa, vi sono pochi dubbi che la spesa pubblica debba scendere nel suo aggregato, per consentire alla tassazione di calare nel suo aggregato. Allo stesso modo, c’è un problema di composizione del prelievo fiscale (ed è abbastanza sorprendente che anche Ricolfi si unisca a quanti chiedono l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, quando è ovvio che mantenere l’attuale livello di tassazione sui patrimoni è la precondizione per ridurre, in qualunque scenario reaslitico, il prelievo sui redditi, che è la vera anomalia italiana). Ma c’è anche un tema non rinviabile legato al livello del prelievo. Le tasse vanno tagliate; e non si possono tagliare a parità di spesa.
La terza ragione è che Ricolfi insiste nell’errore che lui stesso ammette (e che, per inciso, anche chi scrive confessa di commettere spesso e volentieri): guardare alla natura tecnica delle decisioni senza coglierne l’implicazione politica. Un esempio evidente è quello del debito pubblico. Ricolfi riconosce che esso rappresenta la maggiore ipoteca sullo sviluppo del paese e suggerisce di ridurlo attraverso politiche di privatizzazioni. Giusto. Ma la scelta se e cosa privatizzare non è mera questione contabile o amministrativa: è anche e soprattutto legata alla decisione, politicissima, su quale debba essere il confine tra lo Stato e il mercato. E poco importa se vi siano buone ragioni per ritenere che questa scelta politicissima possa essere risolta alla luce del pragmatismo: la larga maggioranza degli italiani, come dimostra il referendum sull’acqua, non la pensa così. Sicché, ancora una volta, la political economy affossa quello che la economic policy dà per scontato.
In altre parole, a prescindere dagli elementi specifici su cui si può o meno convenire con le tesi di Ricolfi, La Sfida appare un ottimo manuale al servizio di un dittatore benevolente. Sfortunatamente, i dittatori sono raramente benevolenti, e in ogni caso l’Italia non ha tanto un problema di lucidità nell’individuazione delle politiche da seguire, ma di effettività nella loro esecuzione.
Anche Breznev voleva ridurre gli sprechi.
Il problema è che non basta. Occorre ridurre il perimetro dello stato e dire agli elettori che certe cose non sono più finanziate dalle imposte.
Ma gli elettori non sono pronti. Per “prepararli” ci vorrà ancora qualche anno di disoccupazione di massa e povertà.
Si salvi chi può
Agghiacciante.
Ricolfi in sostanza non propone di fare l’unica cosa giusta (tagliare spesa pubblica e tasse) ma propone di dare un colpo al cerchio di sinistra (perseguitare gli evasori: come se evadere on significasse semplicemente sopravvivere impedendo al Grande Ladro di derubarti del tutto) e uno alla botte di destra ( “tagliare gli sprechi”: espressione insensata, perché almeno l’80 % della spesa pubblica è spreco).
Speravo che nella seconda parte dell’articolo Stagnaro demolisse come si deve le tesi di Ricolfi, e invece scivola su una buccia di banana: “è abbastanza sorprendente che anche Ricolfi si unisca a quanti chiedono l’abolizione dell’Imu sulla prima casa, quando è ovvio che mantenere l’attuale livello di tassazione sui patrimoni è la precondizione per ridurre, in qualunque scenario realistico, il prelievo sui redditi, che è la vera anomalia italiana”.
In sostanza, Stagnaro propone di tassare i patrimoni per tassare meno il lavoro. Che è esattamente come dire: il fisco deve scegliere meglio chi derubare, derubare più uno e meno l’altro. E’ la solita favola social-democratica della “ridistribuzione del carico fiscale”. E invece no: il fisco non deve tassare né il lavoro né il patrimonio, vale a dire non deve derubare né gli uni né gli altri. Per due ragioni. La prima è che rubare è intrinsecamente immorale, sia che si rubi ai poveri sia che si rubi ai ricchi. La seconda è che lo Stato è un tossicodipendente all’ultimo stadio, cui le dosi di denaro-droga non bastano mai. Quindi, se gli dai i soldi dell’Imu non è che smette di prendere i soldi dal lavoro e dalle imprese: semplicemente comincia a prenderseli a entrambe le parti.
Quindi, no al cerchiobottismo ricolfiano.
Qui c’è una sola cosa da fare: tagliare la spesa pubblica con la mannaia e mandare subito a casa almeno un milione di impiegati statali. Tanto non lavorano e, anche se lavorassero, il loro lavoro non servirebbe comunque a niente.
A me pare che molto più banalmente Ricolfi provi ad indicare una strada percorribile.
In un paese dove i due partiti principali sono, per ragioni diverse, strenui difensori del perimetro dello Stato è utopistico e velleitario immaginare soluzioni tatcheriane.
E invece io mi convinco sempre più che la soluzione è la Tatcher.
Finora i liberali in Italia hanno avuto percentuali da fame perché hanno fatto troppo i cerchiobottisti per non scontentare nessuno: se ci votate tagliamo un po’ le tasse ma non troppo per non irritare gli statali. Ma questa strategia non paga sul piano elettorale, come si è visto.
Invece occorre una posizione netta: Cari tax payers, votateci e noi vi tagliamo le tasse, cari tax consumers, odiateci perché vi manderemo a casa.
La Gran Bretagna negli anni Settanta aveva una spesa pubblica da socialismo reale. Ebbene, la Tatcher è riuscita a vincere le elezioni ottenendo unicamente i voti dei tax payers. Ma per fare questo, ha dovuto dividere il paese, mettendo i tax consumers e i tax payers gli uni contro gli altri, in una spietata lotta di classe. I consumers protestavano con violenza da guerra civile quasi tutti i giorni, ma hanno perso. Insomma, la morale della favola è che non bisogna “unire il paese”: bisogna dividerlo fino in fondo e combattere.
In linea di principio sono d’accordo col “metodo” Ricolfi. Davanti a due visioni opposte occorre introdurre un terzo punto di vista che superi e comprenda entrambe.
Nello specifico il problema di fondo secondo me, è che è mal stutturato il modo di lavorare, che nella PA da i risultati che conosciamo, ma pesa anche nelle aziende private: L’approccio top-down dove pochi hanno una visione del “processo” e definiscono procedure rigide e dettagliate agli esecutori. Questo approccio è improduttivo e soffocante. Non è lo spazio per un post dettagliare questo. Non è ruolo della politica “direttamente” risolvere questo problema, ma occorre che anche i pollitici se ne rendano conto
Accusare di cerchiobottismo chiunque non condivida strettamente le proprie concezioni ideologiche è un procedimento polemico discutibile. Ricolfi fa un discorso da uomo di sinistra, non è un thatcheriano né un reaganiano, né ci si può aspettare che lo sia, quindi che c’è di strano che abbia idee prossime alla tradizione socialdemocratica? Il problema serio, semmai, è che di thatcheriani e reaganiani non c’è abbondanza neanche nella nostra destra.
Bell’articolo cosi’ come quello sull’imu.Concordo in pieno.Aggiungerei pero’ che le aliquote o comunque i calcoli per arrivare all’imu non da prima casa sono francamente eccessivamente elevati soprattutto quelli sui beni strumentali alle imprese.Sulla necessita’ della loro esistenza sono invece d’accordo.Come molti ricordano il problema della tassazione non e’ tanto nella necessarieta’ della sua presenza quanto nel peso enorme per quantita’ e consistenza dovuta a una dominanza dello Stato su tutto.Tale dominanza richiede quantita’ sempre maggiore di denari,consente sempre maggiore corruzione,clientele etc..E qui pero’ arriviamo al punto:in Italia( e in Europa perlomeno del Sud)stiamo pensando,preparandoci cosi’ la fossa,che fino a che qualcuno ci comprera’ i titoli di debito statali le cose non stiano andando poi cosi’ male(come dimostra il ritorno del buon vecchio Berlusconi).Se anche le imprese chiudono per i motivi di cui sopra poco importa..intanto ormai siamo un popolo di pensionati e impiegati piu’ o meno protetti..finche dura..!!
@Giovanna Jacob
Finalmente!!
Un piccollo passo avanti ancora ……prima via le tasse e poi (quasi automaticamente) via la spesa.
Tatcher e chi è? Forse si parla della Thatcher e meno male che è considerata una beniamina da qualche commentatore. Forse è il caso di fare prima buone letture, è come se un ultrá scrivesse Toti o Zaghetti al posto di Totti e Zanetti: un ultrá sui generis per non dire altro
bell articolo carlo…
l evasione fiscale dovrebbe essere la priorità
http://www.4minuti.it/news/editrice-europea-srl-meno-tasse-basta-guerra-evasione-0078070.html
avanti cosi..tutti uniti
Per debellare l’evasione ci vogliono leggi severe e inflessibili come s’usa nei paesi civili .
Questo non è però possibile da noi perché abbiamo un codice civile con tra leggi, commi etc (credo il triplo del Regno Unito che fornisce sempre comode scappatoie sccappatoie agli incivili, specialmente quelli che evadono in grosso .