La sfida dei servizi per crescere di più
La sfida per l’Italia è riprendere a crescere senza scassare la finanza pubblica. Ora che il commercio internazionale ha ripreso lentamente a salire, altri Paesi stanno cambiando marcia. Per procedere più spediti sulla strada della ripresa. In questa nuova fase, dobbiamo cambiare marcia anche noi, ha detto oggi Emma Marcegaglia agli industriali di Roma. Ma la sfida è di non aumentare il debito pubblico. Solo tassi di crescita più elevati possono nel medio periodo stabilizzare il debito pubblico, tornare nel tempo a farlo decrescere, rendere meglio sostenibili i conti previdenziali, altrimenti nuovamente destinati ad aggravarsi. Ma come? Crescere di più, dopo un decennio di aumento del Pil della metà o di un terzo addirittura rispetto ai nostri concorrenti, significa rinunciare al fatalismo, smettere di rinfacciarsi l’un l’altro le ragioni per le tante occasioni mancate del passato. Altrimenti, altre occasioni verranno perdute oggi e domani. In questo anno giustamente ci si è concentrati soprattutto sulle difficoltà del cuore pulsante della nostra industria, il manifatturiero che esporta. Aveva preso ad accrescere il valore aggiunto medio per unità esportata, dopo le ristrutturazioni seguite all’ingresso nell’euro, e al venir meno delle svalutazioni competitive. La crisi del commercio mondiale l’ha duramente colpito. Ed è soprattutto pensando al manifatturiero, che sono state assunte alcune misure come la moratoria dei debiti bancari o il fondo di garanzia per le Pmi. Altre Tremonti ne ha annunciate – chissà per quando, sono state richieste otto mesi fa – come un fondo speciale per la patrimonializzazione e l’aggregazione.
Ma all’assemblea di Roma giustamente l’attenzione si è spostata su un altro capitolo, indispensabile a dimostrare come si debba e si possa crescere di più, senza compromettere la finanza pubblica. È il capitolo che riguarda i servizi. Come ha detto il presidente degli industriali romani, l’economia della Capitale può conseguire un vero balzo in avanti, puntando sulle tecnologie della comunicazione e sulla banda larga, investendo privatamente grazie a incentivi in connettività, risparmio energetico, infrastrutture, mobilità nazionale e internazionale, cultura. Vedere per credere, naturalmente. La sfida per un terziario più avanzato e produttivo non riguarda però solo Roma. È nazionale. Guardiamo i numeri, per esempio quelli elaborati dall’ottimo Mariano Bella responsabile nazionale dell’ufficio studi di Confcommercio. I servizi nel 2008 hanno rappresentato il 71% del totale del valore aggiunto nazionale. Per la prima volta da sempre, nel 2008 la spesa per servizi ha superato il 50% del totale dei consumi nel nostro Paese. E l’Italia non esporta solo la manifattura che tanto ci sta a cuore. Esporta anche servizi. Per 3,8% punti di Pil nel 2000, ma la quota è scesa al 3,3% nel 2008. La Spagna ci ha superato, con il 3,8% di Pil nel 2008.
Facciamo allora un solo esempio, di che cosa potrebbe apportare alla crescita italiana un deciso salto in avanti nel settore dei servizi. Il saldo commerciale nel settore turistico dell’Italia nel 2008 valeva 15,2 miliardi di euro, poco più di un punto di Pil. Purtroppo, era stazionario rispetto a 10 anni prima, quando ne valeva già 15. Ma se solo portassimo il nostro saldo turistico a quello austriaco, che vale il 2,4% del Pil, il prodotto nazionale italiano crescerebbe di 24 miliardi di euro. Se poi volessimo raggiungere la performance del turismo in Grecia, il Pil italiano crescerebbe per questa sola ragione a parità di condizioni del 2,8%. Di ben 44 miliardi di euro in più!
Naturalmente, non sono obiettivi che si realizzino con la bacchetta magica. Ma non servono miliardi pubblici. Bensì decisi interventi volti ad agevolare la crescita dimensionale e organizzativa, tecnologica e logistica delle troppe microimprese che abbassano la produttività nel terziario italiano, che rendono inferiore l’offerta alberghiera e turistica, dell’accoglienza e della ristorazione nel nostro Paese, facendone soffrire il commercio rispetto agli altri concorrenti sui quali anno dopo anno perdiamo posizioni, Spagna e Francia. È un discorso che vale per l’intero comparto dei servizi. Non solo per quelli privati, ma innanzitutto per quelli ancor oggi gestiti da migliaia di società pubbliche, a livelli troppo spesso bassissimi di efficienza e produttività. Il recente decreto Ronchi è stato un modesto passo avanti. Con le contraddizioni di tempi lunghi e procedure contraddittorie, anche nell’acqua che pure ha fatto urlare tanti – a torto – alla privatizzazione. Ma le resistenze sono forti. Centinaia di società pubbliche locali restano con piante organiche e ambiti di servizio incompatibili con l’efficienza, prive di economie di scala necessarie all’economicità di gestione. Avvicinare i servizi all’industria e l’industria ai servizi, in una comune logica di produttività crescente e liberalizzazione, significa inevitabilmente disincrostare anche molte rendite di posizione. Ma non si cresce di sola industria. E tanto meno di denaro pubblico.