La saggezza economica ne I promessi sposi–di Carlos Rodríguez Braun
Di Carlos Rodríguez Braun
Questo testo è tratto da due articoli pubblicati da Expansion.
Grazie alla ferma raccomandazione di Alberto Mingardi, ho letto questo celebre romanzo del 1827 di Alessandro Manzoni, che un economista del calibro di Luigi Einaudi ha qualificato come «personificazione vivente della sapienza ed insieme della chiarezza». [L. Einaudi, “Galiani economista”, in Atti dell’Accademia Nazionale dei Lincei. Rendiconti della Classe di Scienze morali, storiche e filologiche, Serie VIII, vol. IV, fasc. 3-4, 1949, ora in Saggi bibliografici e storici intorno alle dottrine economiche, Roma, Edizioni di storia e letteratura, 1953, p. 274]
In un passo del romanzo, ambientato intorno al 1630, si parla del secondo anno di scarso raccolto nel milanese (nel primo, erano state consumate le scorte), tragedia che si andava sommando alla guerra, al «guasto e allo sperperìo» dei governanti e alle «insopportabili gravezze» che opprimevano la popolazione.
Per censurare le imposte, Manzoni utilizza la parola «cupidigia», che oggi a nessuno verrebbe in mente di riferire ad altro che non sia il libero mercato.
Torniamo ad ogni modo alla penuria, e a «quel suo doloroso, ma salutevole come inevitabile effetto, il rincaro». Si noti la destrezza nel giudicare positivamente l’aumento dei prezzi, quale soluzione reale e controintuitiva. La reazione tipica fu, allora come sarebbe oggi, nonostante «tanti scritti di valentuomini», pensare che «non ne sia cagione la scarsezza … Si suppone tutt’a un tratto che ci sia grano abbastanza, e che il male venga dal non vendersene abbastanza per il consumo: supposizioni che non stanno né in cielo, né in terra; ma che lusingano a un tempo la collera e la speranza».
Gli imprenditori sono ritenuti responsabili del problema, li si accusa di approfittarsene e si adotta il classico strumento di imposizione di prezzi massimi, cosa che non risolve nulla: «il male durava e cresceva. La moltitudine attribuiva un tale effetto alla scarsezza e alla debolezza de’ rimedi, e ne sollecitava ad alte grida de’ più generosi e decisivi». Il governatore aveva fissato il prezzo del pane a 33 lire, quando il prezzo di mercato era di 80.
Pare quasi che Manzoni stesse pensando al Venezuela populista del chavismo: la conseguenza fu infatti la rovina dei fornai e la scomparsa del pane. Le autorità decidono quindi di aumentare il prezzo, e la popolazione, indignata, si accalca sulle strade e comincia ad assaltare e saccheggiare i forni, cosa che, logicamente, non fa aumentare l’offerta di pane: «non sono i mezzi più spicci per far vivere il pane; ma questa è una di quelle sottigliezze metafisiche, che una moltitudine non ci arriva».
La folla, piena di pregiudizi instillati dalle autorità, non si rende conto che i suoi problemi sono conseguenza diretta dell’interventismo delle stesse autorità, e reclama soluzioni facili. Nessuna di queste prevede il creare ricchezza, ma al contrario consistono nell’appropriarsi di quella altrui, incoraggiando questi comandi affascinanti, completamente contrari alla realtà e tipici della fantasia di coloro che propiziano scorciatoie facili per raggiungere il paradiso a discapito della libertà: «Viva l’abbondanza! Moiano gli affamatori! Moia la carestia! Viva il pane!»
Nel capitolo 28 Manzoni analizza l’impatto sulla popolazione di questo tipo di strumenti ritenuti benefici. In un primo momento, essi possono dare un’impressione di soddisfazione, ma a poco a poco anche la fissazione dei prezzi comincia a generare effetti controproducenti. Se il prezzo del pane viene artificialmente abbassato dalle autorità, i consumatori lo comprano in grandi quantità ma il prezzo contenuto scoraggia una produzione maggiore. Il risultato è una scarsità ancora maggiore, a seguito della quale il governo impone sempre più controlli, divieti e sanzioni, entrando in una spirale disastrosa. Si legge nel romanzo: «È poi facile anche vedere, e non inutile l’osservare come tra quegli strani provvedimenti ci sia però una connessione necessaria: ognuno era una conseguenza inevitabile dell’antecedente e tutti del primo, che fissava al pane un prezzo così lontano dal prezzo reale, da quello cioè che sarebbe risultato naturalmente dalla proporzione tra il bisogno e la quantità». Si può dire più forte, ma non più chiaro.
Per risolvere la scarsità degli alimenti, il Governo interviene e ottiene per risultato di allargare la miseria e la fame nera tra disgraziati che alla fine contano soltanto sull’aiuto della Chiesa. I promessi sposi «riconcilia il cristianesimo con i principi fondamentali dell’umanesimo liberale», dice Itziar Hernández Rodilla, [Curatore della edizione spagnola de I promessi sposi pubblicata da Akal, Madrid, nel 2015] e è comprensibile la difesa di Manzoni della religione in un’epoca liberale anticlericale, che ha rappresentato sicuramente una grave irresponsabilità da parte di molti liberali e ha intossicato la relazione tra la Chiesa e il liberalismo fino ai nostri giorni.
La situazione italiana del 1630 raccontata dal romanzo peggiorò fino alla tragica combinazione di fame e peste, aggravata dall’interventismo politico e dallo sperpero: «i danari del pubblico si trova sempre, per impiegarli a sproposito». Lo scrittore osserva che la popolazione, inizialmente infiammata d’ira contro gli imprenditori, all’accusarli sbagliando, come sempre, di essere i colpevoli dell’aumento dei prezzi quando diminuisce l’offerta, man mano che la tragedia si consuma protesta sempre meno; noi uomini, conclude Manzoni, «ci rivoltiamo sdegnati e furiosi contro i mali mezzani, e ci curviamo in silenzio sotto gli estremi».
La destrezza intellettuale dello scrittore è stata lodata dall’illustre economista italiano Luigi Einaudi, che raccomandava ai politici e burocrati di leggere Manzoni per analizzare e comprendere i risultati disastrosi dell’interventismo nel «buon mercato». Egli conclude, a proposito de I promessi sposi: «È uno dei migliori trattati di economia politica che siano mai stati scritti» (Corriere della sera, 3 luglio 1919).