27
Giu
2016

La ripresa non arriverà il prossimo anno: quello dopo.

La scorsa settimana l’esito inaspettato del referendum sulla Brexit ha dato ragione a quell’adagio per cui “è più facile inventare il futuro che predirlo”. Questa frase vale anche per tante delle previsioni fatte dagli economisti che spesso si rivelano non tanto diverse da ciò che gli inglesi chiamano wishful thinking, pensieri positivi ma che poi non si realizzano.

Qualche tempo fa avevo messo a confronto le previsioni sulla crescita economica emesse da alcune istituzioni internazionali con i valori successivamente registrati. La commissione europea pubblica ogni autunno un documento, intitolato European Economic Forecasts, in cui fornisce una previsione della crescita del PIL reale per i due anni successivi. Nell’autunno 2011, per esempio, stimava una crescita dello 0,1% per il 2012 e dello 0,7% per il 2013. Ex-post, l’Eurostat ha rilevato una variazione pari a -2,8% e -1,7%, rispettivamente, con un errore  di previsione a un anno pari a -2,9 punti percentuali (p.p.) e pari a -2,4 punti nella previsione a due anni.

Tasso di crescita del PIL reale in Italia (valori percentuali) secondo le previsioni European Economic Forecasts

Anno di

previsione

2006 2007 2008 2009 2010 2011 2012 2013 2014 2015
2004 1,8
2005 1,5 1,6
2006 1,4 1,4
2007 1,4 1,6
2008 0 0,6
2009 0,7 1,4
2010 1,1 1,4
2011 0,1 0,7
2012 -0,5 0,8
2013 0,7 1,2
2014 0.6
Ex-post* 2 1,5 -1,1 -5,5 1,7 0,6 -2,8 -1,7 -0,3 0,8
*Fonte: Eurostat

Sorge allora la necessità di interrogarsi autonomamente sulle prospettive future della nostra economia. Quando torneremo a crescere? Come sarà l’economia italiana tra 5 o 10 anni? Come adattare le nostre scelte individuali rispetto a tali scenari?

La tabella mostra l’ampiezza degli errori di previsione. Di fronte alla domanda “quando torneremo a crescere?” non consiglierei insomma a nessuno di affidarsi alle previsioni “ufficiali”. Mi sembra infatti che queste previsioni abbiano chiaro solo su un punto: la promessa di una ripresa non il prossimo anno, quello dopo. Prospettiva, questa, certamente non sgradevole e che però – alla luce della tabella di cui sopra – suona un po’ come quei cartelli che certi ristoranti americani appendono all’entrata: “free lunch tomorrow”.

A quasi dieci anni dall’inizio della crisi finanziaria, ci si domanda se ci sarà mai una ripresa, se l’economia italiana tornerà ad essere come l’abbiamo conosciuta in passato. Mettendo da parte l’andamento altalenante e imprevedibile del PIL, sono tanti i trend che fanno pensare ad un continuo deterioramento dell’economia italiana nel medio e nel lungo periodo. Il debito pubblico che continua a crescere, la tassazione che non accenna a diminuire, la politica che non accenna a stabilizzarsi. Vorrei qui mettere l’accento su una variabile che più di tutte influisce sulle prospettive di lungo termine dell’economia: la demografia.

Da questo punto di vista assistiamo al ben noto fenomeno dell’invecchiamento demografico. Tra il 2002 e il 2016 l’Istat registrava la crescita dell’indice di dipendenza anziani – rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione in età attiva (15-64 anni), moltiplicato per 100. Una simile dinamica veniva registrata nell’indice di vecchiaia – rapporto tra popolazione di 65 anni e più e popolazione di età 0-14 anni, moltiplicato per 100 – e nell’età media. Quest’ultima è aumentata di quasi tre anni nell’arco di 15 anni, passando da 41,9 a 44,7.

Indice di dipendenza anziani Indice di vecchiaia Età media
2002 27,9 131,7 41,9
2003 28,4 133,5 42,2
2004 28,8 135,7 42,3
2005 29,4 138,1 42,5
2006 30,1 140,6 42,7
2007 30,5 142,3 42,9
2008 30,7 143,4 43,1
2009 30,9 144,1 43,2
2010 31,2 144,8 43,4
2011 31,3 145,7 43,6
2012 32,0 148,6 43,8
2013 32,7 151,4 44,0
2014 33,1 154,1 44,2
2015 33,7 157,7 44,4
2016 34,3 161,4 44,7

Tanti osservatori hanno spiegato cosa questo invecchiamento demografico significhi per l’economia italiana, soprattutto per la spesa pubblica (attraverso pensioni e sanità). Da un punto di vista più generale, e volendo restare nella metafora, ci si potrebbe chiedere quale destino attenda una società che continua a invecchiare: fatale. L’iceberg verso cui l’Europa sta facendo rotta, come ha detto José Piñera.

E a questo punto torna la domanda ineluttabile: un trend è un destino? La fine dell’economia italiana per come l’abbiamo conosciuta è irreversibile? Si dice che un destino è creato dalle abitudini, le abitudini sono create dalle azioni e le azioni sono create dai pensieri. Sicuramente il trend non si invertirà senza mettere in discussione alcune idee fondamentali che hanno dato forma alla economia in cui viviamo, ad esempio il patto intergenerazionale. E’ anche certo che non sarà la prossima riforma economica a cambiare questo destino, ma solo iniziative individuali potranno re-inventare il futuro. Nel bene e nel male, negli scorsi giorni abbiamo avuto – in politica – la prova che anche qualcosa che sembrava irreversibile, non lo era (semi-cit).

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