28
Apr
2025

La riforma della giustizia e la rule of law


(la teoria della separazione dei poteri è fortemente esagerata)

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Matteo Repetti.

Siete mai riusciti a spiegare ai vostri figli, quando studiano educazione civica alle medie, in che cosa consiste esattamente il principio costituzionale della separazione dei poteri dello Stato? Che cosa vuol dire, ad esempio, che il Governo, il potere esecutivo, “esegue” le leggi? E poi, se – com’è naturale – la sovranità appartiene al popolo, che si esprime tramite le elezioni ed elegge i propri rappresentanti in Parlamento, com’è possibile che i giudici, il potere giudiziario, tragga la propria legittimazione in maniera autonoma e svincolata dalla sovranità popolare?

Se le cose non si riescono a spiegare probabilmente è perché non sono chiare.

Ed infatti, ci sono fondamentalmente due modi di intendere la cd. dottrina della separazione dei poteri.

La prima è quella che riconosce come opportuno e saggio – per prevenire abusi e derive autoritarie – che il potere politico sia sottoposto a condizionamenti.

Si tratta di considerazioni di carattere antropologico ancor prima che di ordine politico e tecnico-giuridico, diffuse già a partire dalla Grecia classica (Platone aveva teorizzato la necessità di forme di indipendenza dei giudici). Sono temi poi ripresi dalla tradizione anglosassone, dalla Magna Charta alla Gloriosa rivoluzione inglese e a John Locke, fino ai checks and balances dell’esperienza costituzionale statunitense; insomma, parliamo del fondamento stesso degli ordinamenti liberali occidentali.

Altra cosa è – potremmo dire – la sclerotizzazione del principio della separazione dei poteri, tradizionalmente fatto risalire all’opera di Montesquieu e al suo Spirito delle leggi e alla Rivoluzione francese.

Ed infatti, se anche per Montesquieu il potere giudiziario sarebbe concettualmente neutro (i giudici intesi come “bocca della legge”), in realtà fin da subito si assiste negli ordinamenti continentali ad una sorta di autolegittimazione da parte della classe giudiziaria – in origine costituita dai nobili – di fatto contrapposta al corpo elettorale e ai suoi organismi rappresentativi.

Il fenomeno è, almeno nel dibattito italiano, non sufficientemente – se non per nulla – analizzato.

Dalle nostre parti, i tre poteri costituzionali, legislativo, esecutivo e giudiziario, sono – si dice – pariordinati e reciprocamente autonomi. Ma come ciò si concili con la generale affermazione (art. 1 Cost.) secondo cui la sovranità appartiene al popolo non è dato sapere.

Non così succede, invece, negli ordinamenti anglosassoni ed in quello britannico in particolare, dove è fondamentale la cd. rule of law, intesa come assoluta prevalenza della legge, del parlamento, della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario. Ciò è tanto vero che da quelle parti, pur essendo avvertita la necessità di contenere e contemperare i pubblici poteri (i famosi checks and balances), la dottrina della necessità costituzionale della separazione dei poteri – legislativo, esecutivo e giudiziario – ritenuta immanente negli ordinamenti continentali, è sostanzialmente sconosciuta.

Per intenderci, in Inghilterra i giudici (storicamente distinti dalla pubblica accusa) sono tradizionalmente nominati da parte del Lord Cancelliere tra i migliori avvocati del regno, e non esiste qualcosa di comparabile alla classe giudiziaria come la conosciamo ad esempio in Italia con organi di autogoverno e rappresentanze sindacali.

E non è un caso che il sistema britannico non conosca neppure un sindacato di legittimità costituzionale operato da un organo giudiziario, che – seppur affermatosi nell’ordinamento statunitense – rappresenta invece la normalità nell’Europa continentale. Insomma, la volontà popolare, che si esprime tramite i propri organi rappresentativi, non è messa sotto tutela da un organismo giudiziario, a cui spetta di dire se un tale provvedimento legislativo è costituzionalmente legittimo, ovvero – in soldoni – se è giusto o meno.

Allo stesso modo, in America i giudici e i magistrati o sono eletti dal popolo o sono nominati dal presidente federale eletto. C’è sempre una relazione tra la politica e la loro scelta.

Che cosa c’entra tutta questa pappardella con la riforma della giustizia di cui si discute da diverso tempo ormai nel nostro Paese e che sembra ora destinata (ma c’è davvero da crederci?) ad andare in porto?

Nel recente parere emesso dal CSM sull’ipotesi di riforma della giustizia ed in particolare sulla previsione della separazione delle carriere tra magistratura requirente e giudicante, si legge che il nuovo art. 104 della Costituzione – in base al quale “la magistratura costituisce un ordine autonomo e indipendente da ogni altro potere ed è composta dai magistrati della carriera giudicante e della carriera requirente” – non eliminerebbe totalmente il rischio che “si possa determinare un affievolimento dell’indipendenza del pubblico ministero rispetto agli altri poteri dello stato”.

Ma, e qui casca l’asino, già in base all’attuale art. 104 la magistratura è definita – letteralmente – “ordine” autonomo e indipendente da ogni altro potere, ma non essa stessa potere.

Anche nel nostro ordinamento è quindi naturalmente prevista e riconosciuta la prevalenza del parlamento e della volontà del corpo elettorale espressa mediante libere elezioni, rispetto ad ogni altro potere costituito, corpo amministrativo e giudiziario. È il concetto stesso della sovranità popolare e della responsabilità politica.

Ragionare diversamente significa attribuire alle articolazioni amministrative e giudiziarie una legittimazione popolare che invece non hanno, risultando politicamente irresponsabili.

Precisato quanto sopra, sarebbe poi forse il momento di provare finalmente a dire che il fatto che i funzionari del pubblico ministero siano membri della magistratura e godano delle stesse garanzie di indipendenza assicurate alla magistratura giudicante, ovvero ai giudici propriamente e correttamente intesi – com’è attualmente da noi e come continuerebbe ad essere anche dopo la riforma – è da considerarsi comunque eccezionale: non è così neppure in Francia, l’ordinamento più simile al nostro; né in Germania, in Spagna e nei Paesi Bassi, dove i pubblici ministeri fanno direttamente riferimento al potere esecutivo essendo inseriti nell’ambito del Ministero della Giustizia. In Svizzera, per citare un’altra democrazia plurisecolare, tutti i funzionari del pubblico ministero sono di nomina politica.

Per non parlare dei cd. ordinamenti di common law, in cui il cd. prosecutor è tipicamente un avvocato, soggetto alle relative responsabilità.

Solo in Italia la parola giudice viene promiscuamente utilizzata, anche dagli organi di stampa, per indicare anche i pubblici ministeri: potrebbe essere arrivato il momento per correggere questa anomalia. A patto di non voler continuare a fraintendere – per cattiva volontà o appartenenza corporativa – la teoria della separazione dei poteri.

You may also like

Un anno di Milei
La riforma fiscale: dopo il cattivo esempio i buoni (?) consigli
Carlo Nordio: la giustizia e il modo d’intenderla della magistratura
Se io fossi Carlo Nordio

Leave a Reply