La riforma degli enti lirico-sinfonici
Vista la situazione di emergenza cronica degli enti lirico-sinfonici, era da tempo che si vociferava di un decreto legge preparato dal ministro Bondi. Ieri questo decreto ha fatto la sua comparsa durante il canonico consiglio dei ministri del venerdì. Dopo una riforma che ha trasformato gli enti lirici in fondazioni (correva l’anno 1998), i numerosi passivi di bilancio realizzati, i conseguenti commissariamenti e le giustificate polemiche, era inevitabile cercare di porre un argine al dissesto del nostro settore lirico-sinfonico.
La “privatizzazione” degli enti lirici avrebbe dovuto conferir loro l’autonomia necessaria per quanto riguarda gli aspetti culturali ed artistici. Nello stesso tempo, si è cercato di renderle sempre meno dipendenti dalle sovvenzioni statali, coinvolgendo maggiormente nuovi finanziatori privati. La realtà ci dice che nessuno di questi due obiettivi è stato centrato, di qui le difficoltà che si sono palesate in questi anni.
Il Fondo unico per lo spettacolo ha continuato a rappresentare la maggior fonte di finanziamento (il 50 per cento del Fondo viene ogni anno destinato ai 14 enti lirici). Ai soldi dello Stato si sono poi affiancate ingenti sovvenzioni da parte di altri soggetti pubblici (dai comuni alle regioni). Nonostante vi siano state modifiche nel tentativo di coinvolgere in maggior misura i privati, queste non hanno prodotto gli effetti sperati: tra il 2004 e il 2005 si è stabilito che i privati potessero partecipare alla gestione delle fondazioni; è stata abbassata (dal 12 per cento all’8 dell’apporto finanziario statale) la soglia minima perchè i soggetti privati potessero nominare un proprio rappresentante nel consiglio di amministrazione. Anche altre misure sono state messe in campo; a distanza di alcuni anni possiamo dire che tutti questi tentativi si sono rivelati inadeguati.
Come detto, la realtà ci parla di un controllo gestionale e di un sistema di finanziamento che vede i soggetti pubblici quasi egemoni. Dallo Stato al comune dove risiede la fondazione, di qui passano le sovvenzioni e da qui provengono i consiglieri di amministrazione.
Stando a quanto scritto in un articolo comparso sulla rivista Aedon, nelle fondazioni lirico-sinfoniche «la maggioranza di tutti i consigli di amministrazione delle fondazioni è appannaggio di questi [soggetti pubblici], non solo perché così, di fatto, dispone la legge, ma soprattutto perché i soggetti non pubblici che hanno titolo alla designazione di consiglieri di amministrazione sono assai pochi e con presenza circoscritta, sia pure in quasi tutte le fondazioni (La Scala, Verdi, Carlo Felice, Comunale di Bologna, Maggio, Opera di Roma, Massimo, Petruzzelli); sicché, le maggioranze per l’adozione della gran parte delle decisioni sono assicurate dal consenso dei membri designati dal consorzio pubblico dei fondatori. […] In più l’assetto finanziario, anche qui con notevoli differenze tra tutte le fondazioni, espone una situazione per la quale, in grande linea di massima, si può dire che esse lavorano con risorse che, grosso modo, derivano per poco meno della metà dal trasferimento statale, per circa un quarto dalle entrate proprie, per circa un quinto dai trasferimenti degli enti regionali e locali, e per il restante (un decimo scarso) dall’apporto di privati».
Il risultato vede ogni anno almeno metà di queste fondazioni chiudere i bilanci in passivo, Così è stato nel 2008: 7 su 14 hanno chiuso l’esercizio in rosso. Mentre da Napoli a Genova, passando per Firenze, si è proceduto negli ultimi anni a commissariare gli enti lirico-sinfonici presenti in queste città.
Se il panorama è questo, allora risulta veramente inevitabile cercare di porvi rimedio. Il decreto legge approvato ieri dal consiglio dei ministri prende atto sostanzialmente di una cosa: il settore è composto da un personale molto ampio (sulle 5.500 unità) che assorbe circa il 70 per cento del finanziamento pubblico. Per rendere l’idea dei costi fissi legati al personale, basti dire che le spese sostenute per questo capitolo dagli enti lirici superano le sovvenzioni erogate dallo Stato. Nel 2008, a fronte di una spesa di € 340.146.756 per il personale, il contrbuto statale erogato è stato di € 235.465.231. Il governo è partito da questo dato di fatto: i costi per il personale sono troppo elevati, vanno ridotti. In che modo? Viene riformulato il metodo per la stipula del contratto collettivo. Ad esempio, l’obbligo di certificazione da parte della Corte dei Conti dovrebbe servire a tenere sotto controllo i costi contrattuali. Oppure, si vieta fino alla fine del 2012 di assumere personale a tempo indeterminato, mentre dal 2013 si potrà assumere a tempo indeterminato solamente all’interno di meccanismi di turnover. Altre sono poi le misure aventi sempre la medesima finalità: ridurre i costi per il personale.
Questo quanto si dispone dettagliatamente da subito. Poi vi è un passaggio del decreto in cui si dà mandato al Ministero di rivedere, entro un arco temporale definito, i criteri attraverso i quali lo Stato eroga i contributi a questi soggetti. Si prevede dunque una seconda fase della riforma: dopo avere disposto il contenimento dei costi si rimette mano al modo in cui le sovvenzioni vengono date agli enti lirico-sinfonici. Su questo punto bisognerà attendere quanto verrà deciso. Per ora vi sono vaghi riferimenti ai criteri che verrano adottati: qualitativi, quantitavi e legati al buon andamento nella gestione dell’istituzione sussidiata. Par di capire che i soldi saranno dati tenendo conto dei bilanci, della qualtà artistica dell’offerta e dei risultati conseguiti (ad esempio in termini di coinvolgimento di pubblico).
In attesa di avere più chiaro il quadro degli interventi, si può dire che, pur non essendo una riforma epocale, la direzione intrapresa è quella giusta. Da una parte si cerca di bloccare la deriva dei bilanci di queste fondazioni, dall’altra ci si propone di rivedere i meccanismi di erogazione delle sovvenzioni statali (nel senso di premiare quelle realtà virtuose e ben gestite). Insomma, se proprio dobbiamo tenere in piedi con denaro pubblico questi enti, almeno si cerchi di non sperperarne troppo. Tenendo sempre presente quello che dice il sovrintendente del Teatro Massimo di Palermo, Antonio Cognata: «L’idea del finanziamento pubblico all’opera lirica o ai teatri sta semplicemente nel fatto che lo Stato, nella sua funzione etica e paternalistica di allocazione delle risorse per conto di tutti noi, decide che l’opera deve essere prodotta, perchè altrimenti, se l’opera non fosse prodotta oggi attraverso i finanziamenti pubblici, mio figlio, che ora ha 4 anni, non avrà mai la possibilità di vedere un’opera perchè nessuno la produrrebbe attraverso mezzi privati». Cognata parte dall’assunto tutto da dimostrare che senza l’intervento pubblico non si avrebbe l’opera lirica. Di sicuro, dice una verità: la scelta che compie lo Stato nel finanziarla è puramente arbitraria, lo si fa per ragioni di prestigio, identitarie e meritorie. Sono buone ragioni?
Il commento di Cavezzoni che ho letto, non lo condivido per la ragione che quando si vuol far passare il discorso che le difficoltà delle Fondazione sono a causa del numero delle persone che ci lavorano si dice una cavolata.
Il personale, chi suona canta allestisce le scene, sono lo spettacolo e qualcuno mi deve dire come se ne può fare a meno. Le opere che sono state scritte nei secoli scorsi, prevedevano già l’utilizzo di personale che viene impiegato oggi, non vi sono automatismi per sostituirli.
Allora ci si dica una buona volta se questo paese è in grado di darsi il (lusso) di avere simi li rappresentazioni oppureNO, senza tanti giri di parole o trovare colpevoli per la situazione in essere.
Se un colpevole va trovato bisogna cercare nella politica, la stessa che le riforme le fa a metà. Alla riforma delle fondazioni andava aggiunto lo sgravio fiscale dei donatori che volevano aiutare le Fondazioni, cosa che non è mai stata fatta ( a destra come a sinistra)poi le cose vanno male e la cosa più semplice è dare la colpa a chi lavora e a chi li rappresenta i lavoratori.
Mi auguro che i lavoratori stessi possano avere l’idignazione necessaria per respingere questo decreto e che non si prestino a forme egoistiche, questo decreto serve a medicare le ferite inferte ai teatri da sovrintendenti INCAPACI come TUTINO sov. a Bologna
Sono ovviamente d’accordo sul principio generale espresso da Cavazzoni circa la necessità di meccanismi di controllo della spesa. Ma questa è un’esigenza che riguarda tutta la spesa pubblica italiana, stante lo scarso potere effettivo che la Corte dei Conti dimostra di avere.
Nel merito, però, ricordo all’autore che musicisti e tecnici di scena sono un tipico esempio di lavoro in cui la produttività non può crescere più di tanto. Se i salari di questi lavoratori sono, almeno in parte, trainati in alto dagli incrementi di produttività di altri lavoratori (del manifatturiero, dei servizi), si configura il classico caso del “morbo di Baumol”, in cui i costi di gestione dei teatri, privati e pubblici, vanno su e su, e ancora su… e non c’è controllo dei conti che tenga. Anche con la crescita della produttività anemica che c’è in Italia, tali costi non possono certo diminuire!
Questo per dire che: va benissimo affinare i criteri qualitativi di selezione dei dipendenti, va benissimo anche concentrare le risorse su quegli istituti che dimostrano maggior affluenza di pubblico. Ma, visto che io preferisco vivere in un paese europeo dove si riconosca il valore di “merit good” dell’arte anche tramite sovvenzioni pubbliche, mi sembra insensato discutere di riduzioni della spesa a tal fine. A meno che, ovviamente, una tale decisione non scaturisca dal voto degli italiani. Se non erro, il programma elettorale dell’attuale governo non includeva una tale proposta.
Dissento dagli interventi precedenti: se i costi eccedono il contributo pubblico e non vi sono fonti alternative o integrative per sostenerli, rifiutarne la riduzione significa chiedere un aggravio del prelievo tributario che è già molto elevato.
Ma allora sembra lecito chiedersi perché il contribuente debba pagare per permettere la produzione di opere teatrali che interessano ad un pubblico ristretto (la scelta paternalistica di cui si parla nell’articolo di Cavazzoni). Solo per sostenere i redditi dei lavoratori dello spettacolo? Ma allora non sarebbe più semplice fornire loro una pensione e affidare il teatro al mercato?
Quasi nessuno pare ricordare che il teatro lirico italiano era quello che era – nell’età di Verdi e Puccini, per intenderci – quando l’intero settore era dominato da logiche imprenditoriali. Un nome può bastare: Giulio Ricordi.
Ora la musica è nelle mani di sovrintendenti di nomina politica, con il risultato che per concedere a pochi il piacere di ascoltare “Casta diva” si destinano somme ingenti, sprecate nelle più diverse direzioni.
Qualunque iniziativa che riduca il peso dello Stato nella gestione dell’arte può solo aiutare quest’ultima, oltre che limitare un’iniqua redistribuzione delle risorse.
Mah, non so… una rapida scorsa a dati Eurostat (http://tinyurl.com/yydbuqd e http://tinyurl.com/y6gj2lu) mi pare evidenziare che il consumo di arte e, specificamente, di musica in Italia sia in linea con gli altri paesi EU. Lo stesso dicasi per il personale impiegato nei settori “artistici”.
I 340 milioni di costi di cui si parla nell’articolo sono pari a circa lo 0,04% della spesa pubblica italiana. In UK, mi risulta, solo per i teatri si corrispondono sussidi attorno allo 0,02% della spesa pubblica totale. La spesa per i teatri sinfonici e lirici nostrani è davvero tanto più elevata degli altri paesi europei ricchi?
@ Carlo Lottieri: verissimo. Ma potremmo discutere per delle ore sui meriti e demeriti di un sistema basato sul mercato, rispetto ad uno basato sulla spesa pubblica. J.S. Bach ha vissuto (musicalmente parlando) grazie ai concorsi vinti a Weimar come musicista di corte e poi Konzertmeister. Wagner dovette fuggire dai creditori dei teatri da lui diretti in fallimento finanziario, e a Parigi fece la fame e andò avanti a lungo grazie a prestiti (mai ripagati) di ricche signore di buon cuore. E l’orchestra più antica ancora oggi in opera, la Gewandhaus di Leipzig, forse non avrebbe retto fino alla direzione di Mendelssohn se non avesse ricevuto un cospicuo finanziamento comunale per il rinnovo di un salone da adibire ai concerti, in sostituzione della tavernetta dove si esibivano i musicisti.
Ci farò una trasmisisone a radio24, martedì, perchè ritengo che il confrontodebba assolutamente uscire dalla ristretta cerchia degli addetti ai lavori, per ridursi alla maestranze teatrati che ritualente inscenano proteste additando nel governo il colpevole. Di fatto, la domanda che avevamo poto nel luglio dell’anno scorso, quando Filippo scrisse per IBL il focus sul FUS chiedendo che i tagli NOn venissero ripristinati, è rimasta senza risposta. Perché, secodno me, abbiamo ragione.
Il FUS è la principale fonte di all’opera lirica, la forma più dispendiosa delle arti sceniche. E la giustificazione del controbuto pubblico sta nella legge di Baumol – per chi fosse interessato, Baumol W., Bowens W. Performing Arts : the Economic Dilemma Princeton University Press, 1966 – per la quale lirica e grande sinfonica sparirebbero senza l’intervento pubblico perché i loro costi non possono abbassarsi per effetto di progresso tecnologico. Spesso un vate di economia dei beni culturali , Bruno Frey dell’Università di Zurigo, ha documentato le inefficienze che l’alto finanziamento pubblico provoca per esempio al festival di Salisburgo. Analisi comparate recenti sottolineano l’effetto di spiazzamento della spesa privata da parte di quella pubblica nel comparto delle arti sceniche e gli effetti regressivi (vedi per esempio: Smith Th.M. The Impact of Government Funding on Private Contributions to Nonprofit Performing Arts Organizations , Annals of Public and Cooperative Economics, March 2007). In uno dei maggiori teatri italiani – san Carlo di Napoli – ciascun spettatore, di norma in fasce alte, fruisce di una sovvenzione media di € 400 per spettacolo.
Esistono molti esempi di attori completaente privati, come quello dell’Orchestra Sinfonica Romana, complesso nato otto anni fa e con un’età media sui 30 anni, sostenuto dalla biglietteria, da una fondazione bancaria, da un’associazione di appassionati e dai proventi da tournée estere. Non riceve contributi dal FUS o da enti locali.
Non ha senso continuare a finanziare come anche l’attualeriforma popone, sia pur rialineando i costi. Nell’esperienza mi – semplicemente mutuata da amici come Denis Krief, che di professione allestiscono regie di successo di opere liriche nei maggoiri teatri italiani ed esteri – all’ombra di molti teatri italiani si annidano concrezioni di vecchie clientele e insensati diritti delle maestranze tecniche e d scena, che continuano a rendere alti i costi, bassa la produttività e assai poco interessante per grandi professionisti stranieri accettare di lavorarvi. Dai massimali oari di prova per le orchestre al diritto per gli orchestrali di suonare eraltri complessi con remunerazioni aggiuntive, alle idennità ridicole per le masse corali, ai limiti orari d’impiego per attrezzisti etc, a inveterate commesse a prezzi mai abbasati nel caso di realizzazioni di nuove scenografie e costumi. Chiedere per favore al maestro Muti, per chi credesse che sto attaccando i poveri lavoratori dello spettacolo, a che condizioni ha accettato di tornare al Costanzone di Roma, e il suo primo impatto con il coro e l’orchestra romana: gli hanno naturalmente minacciosamente ricodato gli impegni sindacali, mica lo han salutato e ringraziato…
uno sfoggio di qualunquismo veramente sorprendente. Prima di parlare o scrivere a vanvera sarebbe prudente ed opportuno fare qualche approfondimento. Il numero dei dipendenti (per giunta in calo negli ultimi anni) è quello che deriva da piante organiche ratificate dal Ministero stesso, nonostante ciò in moltissimi casi il perosonale impiegato è al di sotto di questi organici. Inoltre, non è mai superfluo ripeterlo, per stessa ammissione degli alti funzionari del Ministero, la professione di Musicista è altamente specializzata e pertanto, come ci rammenta la Costituzione, il lavoro va remunerato in maniera proporzionata ed adeguata. Senza considerare che ormai è assodato che il lavoro nella Musica assorbe in sè anche quel fattore produttivo denominato “materia prima”. Ma invero non si possono omettere sprechi e diseconomie, che andrebbero ascritte all’incapacità degli amministratori incaricati dalla politica, spesso solo su basi meramente clientelari, ed incapaci quindi di contrastare capricci o fisse di registe e scenografi, alla ricerca del tal effettaccio.
Nel 2006 il teatro ha avuto dal FUS 75,3 milioni di euro a fronte di 14 milioni e mezzo di spettatori; il cinema ha ricevuto 77,9 milioni per un totale di 105 milioni di spettatori; per la lirica sono stati stanziati 197,4 milioni per circa 2,1 milioni di spettatori. Anche su questi dati credo ci sia da fare una riflessione. La lirica, rispetto alle altre forme di spettacolo, riceve ingenti risorse. Di tali risorse beneficia un numero molto esiguo di italiani. Alla lirica si preferisce il teatro e soprattutto il cinema. Inoltre, questi 2 milioni sono persone che per reddito e livello di istruzione fanno parte delle fasce medio alte della popolazione. Tendenzialmente, il pubblico della lirica è fatto di persone con un reddito elevato e ben istruite. Pertanto, la collettività si fa carico di garantire che un ristretto numero di persone benestanti possa fruire della lirica. In questo caso si parla di effetti antiredistributivi dell’imposizione fiscale. Ovvero, sono le tasse di un operaio che finanziano una attività di cui a godere è una persona con un livello di reddito superiore a quello di un operaio.
Per quanto riguarda il costo del personale, cito ancora Antonio Cognata (bravissimo sovrintendente del Teatro Massimo): “chi conosce i teatri sa che la percentuale dei costi del personale è l’origine di molti dei problemi e ci vuole abbastanza coraggio per dirlo” (A. Cognata, “Fondazioni liriche e finanziamenti pubblici”, in Cultura e territorio, Milano, Franco Angeli, p. 107). Cognata di coraggio ne ha da vendere, a tal punto che da un po’ di tempo gira sotto scorta. Quando è arrivato ad amministrare l’ente lirico di Palermo ha ereditato una situazione disastrosa. Oggi il Teatro Massimo ha i conti in ordine. Questo però ha comportato inevitabilmente dei sacrifici. Sempre con le parole di Cognata: “ovviamente abbiamo abbassato di molto anche il costo del personale, in diversi casi anche prendendo provvedimenti drastici” (p. 108).
Per quanto riguarda invece il morbo di Baumol va detto che la produttività nello spettacolo dal vivo può essere aumentata (soprattutto grazie alle economie di scala oppure a un management più capace), anche se la possibilità di innovazioni tecnologiche è però più limitata rispetto ad altri ambiti economici. Baumol però non è mai arrivato a dire che, visto che non si possono fare proprie le innovazioni tecnologiche, allora è necessario l’intervento pubblico. Vi sono anche altri settori in cui la produttività è stagnante, non per questo deve intervenire per forza lo Stato. La scelta finale se finanziare o meno un settore spetta sempre alla politica.
Grazie della risposta molto esaustiva.
Posto che ovviamente è possibile ottenere risparmi di costi e incrementi d’efficienza semplicemente allontanadosi dall’assurdo schema dei contratti di lavoro delle PA, e posto anche che altrettanto ovviamente i teatri dovrebbero essere gestiti con criteri di totale autonomia, siano essi amministrati pubblicamente o affidati a gestione privata… a mio parere rimane il fatto che tali “tagli” possono al più riguardare il personale non artistico ed entro limiti forse poco significativi. Ma su questo punto posso sbagliare, non ho dati pertinenti e precisi da offrire, quindi mi affido alla consueta serietà di Chicago-Blog e spero in approfondimenti successivi (il tema merita secondo me, fate bene a parlarne).
Riguardo l’ipotesi di una gestione totalmente privata, senza neppure la previsione di sussidi di alcun genere, ventilata alla fine dell’articolo e qui ripresa, ecco è qui che sono scettico. L’idea di ridurre tout court i fondi pubblici destinati alla lirica e sinfonica, col fine di ridurre un ipotetico esistente spiazzamento della domanda privata non mi convince per due ragioni:
1) contributi del genere ci sono praticamente in tutta Europa. Negli USA esistono circuiti di fund-raising per queste cose (ed altre) che noi europei non utilizziamo, o non altrettanto. Sono dunque tutti scemi a massacrare il settore che altrimenti fiorirebbe sotto le virtù del mercato competitivo? E rinnovo la domanda: esiste un confronto tra i fondi nostrani e quelli degli altri paesi OECD? Almeno per capire se, e di quanto, saremmo fuori benchmark. Per capire se il nostro è un problema quantitativo (“quanto spendiamo”), o solo qualitativo (“come spendiamo i fondi”).
2) Proprio il numero ridotto di fruitori di musica classica (non solo sinfonica e lirica) mi preoccupa. Esiste un problema se il mercato non sussidiato si riduce sino a rendere la nicchia troppo piccola. E dubito che questi utenti abbiano un prezzo di riserva così alto, da spingere i teatri nazionali a mettere ripetutamente in cartellone Wagner con 80 e più elementi d’orchestra, o rappresentazioni costose come la Carmen, quando basta un Allevi qualsiasi per fare il pieno di un’utenza meno raffinata.
Oggi un musicista “normale” (non parlo delle eccellenze come un Pollini o un Abbado, ma del professionista mestierante che partecipa ad un’orchestra di buon livello) guadagna quanto un impiegato, e deve investire tanto di più: in termini di anni di formazione, poi di ore di studio quotidiane, ed anche in capitale fisico (vi invito ad indagare sui prezzi di un pianoforte o di un’arpa da concerto, per comprendere di cosa si parla). Deve inoltre mantenere una forma fisica adeguata per essere sempre pronto ad ottenere la giusta qualità dell’esecuzione: niente raffreddori per cantanti e fiati, guai ad avere doloretti vari, ecc. Con queste premesse, veramente non vedo perché già oggi un giovane abbia stimoli ed incentivi ad intraprendere la professione di musicista classico, se non per una notevole dose di incoscienza.
Se l'”effetto Baumol” c’è ed i sussidi sono tagliati, non vedo altro che un futuro di nicchia ancor più piccola, una riduzione dei rendimenti per la professione del musicista che perderà ancor più appeal per le nuove leve. Dove lo peschiamo un novello Chopin, se né lo stato, né mecenati si faranno avanti come si usava nei secoli pre-novecento? Provocatoriamente: i fallimenti dei teatri gestiti da Wagner, non sono forse valsi a darci un capolavoro come il Tannhäuser? Non è meglio spendere un po’ di fondi pubblici per inspessire il mercato (con criteri d’efficienza come detto sopra), così da ottenere un “vivaio” sufficiente a mantenere in vita il ricambio generazionale di musicisti e fruitori di musica classica?
Ci si stupisce del fatto che il 70% dei bilanci degli enti lirici vada in stipendi: rimango colpito dalla superficialità di questa analisi.
Per mettere in scena un’opera lirica occorre il lavoro in palcoscenico e in buca di minimo un centinaio tra orchestrali, coristi ballerini e tecnici che vengono pagati con uno stipendio. Mi sembra ovvio che il 70% dei bilanci dei teatri vada in stipendi. Inoltre le faccio notare che quanto si spende in stipendi è quanto si risparmia in appalti esterni.
Io personalmente mi stupisco del fatto che solo il 70% vada in stipendi; che il 30% venga usato per pagare un direttore, una compagnia di canto e il materiale per costruire le scene mi sembra, dal mio punto di vista, addirittura un’esagerazione.
E’ vero che il contratto integrativo e accessori vari sono pari al 50% dello stipendio, ma va detto che un primo violino di un’orchestra senza quel 50% guadagnerebbe molto meno di una colf .
Se poi il lavoro viene organizzato, in alcune realtà, in modo improduttivo prendiamocela con chi prende molto più di uno stipendio per organizzarlo.
Io suono il fagotto nell’orchestra del Teatro dell’Opera di Roma, non sono un sindacalista e non rappresento nessuno. Io personalmente guadagno meno e lavoro di più dei miei colleghi francesi, tedeschi, svizzeri, austriaci ecc.
Distinti Saluti.
Fabio Morbidelli
Le diverse considerazioni sin qui riportate sono frutto di analisi a prevalente indirizzo economico, ed è certamente un percorso possibile. E’ però anche possibile porsi la domanda se lo Stato debba avere qualche interesse nell’occuparsi di cultura (spero si faccia rientrare l’opera lirica in questa categoria). Nel caso dello Stato italiano (al momento) è ancora un dettato costituzionale. Io lavoro in una fondazione lirico sinfonica, ho studiato musica tutta la vita e studio ancora oggi tutti i giorni. Non ho fatto da subito questa professione perciò conosco sufficientemente bene anche parte del resto del mondo del lavoro per esperienza diretta. Il mio Cud è di 25.000 euro netti l’anno, ho al mio attivo 35 anni di lavoro dei quali dieci passati in questo settore.Sono un professionista molto specializzato perchè faccio un’attività che richiede caratteristiche specifiche che solo una parte delle persone hanno (voce addatta oppure attitudine a suonare uno strumento) ma il mio reddito somiglia a quello di un impiegato di concetto. Sono stato assunto dopo avere vinto un concorso, aperto al pubblico che poteva assistervi. Mi debbo vergognare di qualcosa? Il mio contratto di lavoro prevede almeno il doppio della produttività che al momento mi viene richiesta, anche due spettacoli al giorno. Non potrei certo oppormi e protestare, nè lo vorrei. Si capisce dunque che l’incremento della produttività non dipende dai dipendenti ma dagli amministratori. Si potrà dire che se cinque opere liriche costano 100, facendo spazio a giovani esordienti, artisti poco conosciuti o di non alto valore se ne potrebbero fare 10 per la stessa somma, ecco aumentata la produttività senza toccare i costi. Resta da vedere se manovre di questo tipo siano compatibili con la qualità che si vorrebbe vedere (criterio contenuto anche nelle linee del decreto di riforma) e se il pubblico risponderebbe favorevolmente (altro criterio nel decreto). Ci sono teatri che non applicano il contratto delle Fondazioni, pagano molto poco il personale e lo pagano solo nei giorni di effettivo utilizzo. Anche questi teatri faticano con i bilanci ed a volte producono deficit eppure il costo del personale è sotto controllo. Spero siate tutti coscienti che quello del costo del personale è un grande alibi per non andare a rivedere il sistema di produzione, forse l’unico vero punto da riformare. Per ciò che attiene alla privatizzazione dei teatri, sappiamo che il fund raising costa allo Stato in termini di mancato introito di tasse, dunque non tutti i soldi provenienti dal privato sono interamente a carico di chi lo versa, una buona parte la paga la collettività. Infine rigetto il commento che definisce nicchia elitaria il pubblico della lirica. Chi lo ha scritto evidentemente non frequenta i teatri o vede solo i servizi mondani mandati dalle TV il giorno della prima de La Scala. Il grosso del pubblico pagante è formato da persone di tutte le classi sociali, ci sono i torpedoni che provengono dai paesi di provincia che riempiono i loggioni e le platee. Perchè ci sarebbe bisogno di prezzi “popolari”, tariffe speciali per pensionati o studenti, abbonamenti mirati per l’Università della terza età, i Cral aziendali, le associazioni culturali se i fruitori fossero tutti benestanti ed appartenenti all’elite? Due milioni e mezzo di persone che seguono la lirica non sono poche, credetemi, dato che i teatri che producono opera lirica sono molto pochi a causa della complessità di un simile spettacolo. Normalmente le maggiori difficoltà risiedono nel trovare un posto a teatro, non nel riempirlo.
Ad oggi il Presidente della Repubblica non ha ancora firmato il decreto legge. Il dibattito, però, rimane molto acceso. Da una parte, i sindacati minacciano di occupare i teatri; dall’altra, compaiono finalmente alcune voci che sostengono la necessità di un intervento come quello messo in piedi dal Governo (ad esempio, il commissario del Teatro Carlo Felice di Genova: http://www.giornaledellospettacolo.it/index.php?option=com_content&task=view&id=4654&Itemid=75). Va detto che il testo del decreto ora al vaglio del Quirinale è top secret, in pochi sanno veramente quello che c’è scritto nel dettaglio. Ad ogni modo, dalle indiscrezioni circolate, sembra che quanto affermato nel post trovi corrispondenza nella versione definitiva del decreto.
Uno dei grossi problemi che permette di affermare che le riforme degli anni 1996/1998 hanno sostanzialmente fallito nel loro intento, è il mancato apporto dei privati nel finaziamento degli enti lirici. Guardando la relazione del Fus per il 2008 si scopre che l’apporto economico dei privati pesa solamente per un 8 per cento sul totale dei contributi (ovviamente a farla da padrone sono i sussidi statali: 64 per cento). Tra l’altro, nella stessa relazione si fa proprio riferimento a questo problema: “L’entità riscontrata nella partecipazione dei privati richiederebbe, infine, un’attenta riflessione sulla effettiva riuscita della trasformazione degli enti lirici in fondazioni di diritto privato, ma non è questa la sede; qui ci soffermiamo a valutare solo l’entità e l’articolazione di un intervento scarsamente significativo”. Nel decreto sembra si faccia riferimento anche alla necessità di rivedere quelle norme che dovrebbero incentivare l’afflusso di risorse dal settore privato. Nel testo, però, non si dice come, ma si rimanda a futuri interventi ministeriali. Ecco, questo è un punto fondamentale, al quale credo si debba dedicare la massima attenzione.
I teatri lirici sono finanziati per legge dal ’36. A teatro si fa e si è sempre fatta politica, nei foyer: è lì che le rappresentanze politiche e il nobiliato locale si mettono in mostra e fanno accordi. Quindi il prestigio dell’arte non è l’unica ragione che ha permesso da allora ad oggi ingenti finanziamenti locali e statali. Le forme giuridiche degli Enti lirici così come quelle dei Teatri stabili (da Enti pubblici a Fondazioni private) sono cambiate per mettere un argine all’ utilizzo senza controllo di denaro pubblico. Ma non è stato sufficiente perchè, di fatto, poichè salda i debiti la comunità e non il singolo, non c’è mai stato un reale controllo delle assunzioni. I teatri oggi, perdonate la sintesi, soffrono dello stesso male della politica e dell’amministrazione pubblica: stipendi esorbitanti rispetto al privato e un eccesso di personale amministrativo. Faccio un esempio: ci sono teatri che si possono permettere tre impiegati per l’ufficio stampa, uno legge, l’altro scrive e il terzo risponde al telefono. Non dirò dove lavorano… L’aggravante, per quel che riguarda la prosa e la lirica, è che tolto il bilancio per gli stipendi, non ci sono più soldi per le produzioni e quindi per gli artisti. Gli artisti sono il vero bene da tutelare, non gli amministrativi assunti spesse volte grazie a contatti personali e non per merito. Vorrei inoltre additare anche la responsabilità dei sindacati che, politicizzati e conniventi con la classe politica locale, hanno reso possibile e hanno difeso questo stato di fatto. Se non cambia qualcosa saremo costretti a “comprare” spettacoli dall’estero solo per programmare le stagioni e quindi giustificare gli stipendi del personale. E questo si sta già verificando per costi e per qualità artistica. Ridiamo ossigeno agli artisti e soprattutto alle maestranze (macchinisti, scenofrafi, tecnici) e ai giovani artisti, la vera ricchezza di ogni Stato evoluto che investe nell’arte per le generazioni future.
Mi presento : mi chiamo Enrico Enrichi e sono stato concertino dei secondi violini nell’ orchestra del teatro La Fenice di Venezia dal 1970 al 2006 , ho da sempre vissuto immerso nella musica ( quella ” di qualità” ) fin da bambino ma questo non mi ha portato ad isolarmi dal mondo né a disdegnare altri tipi di attività : i miei interessi sono assai vasti e vanno dalla scienza all’ arte , dalla letteratura alla politica ed alla sociologia .
Amo progettare apparati vari e costruirmeli ( hi-fi ), il lavoro manuale anche pesante e la natura .
Posso però assicurare tutti i tromboni che pretendono di parlare degli artisti e del loro lavoro partendo da conoscenze teoriche , da mansioni amministrative o politiche o , comunque , solamente dirigenziali ( registi e sovraintendenti non escludendo anche qualche compositore ) che le loro argomentazioni non hanno alcun riscontro con la realtà della situazione attuale della musica in Italia .
La scarsa affluenza ai teatri è dovuta unicamente al bassissimo livello d’ istruzione musicale unito alla pervasività di una musica ( generalmente stupida ) diffusa sempre e comunque da milioni di altoparlanti nelle case e nei luoghi pubblici da emittenti radio pubbliche e private con l’ unico scopo di procurare guadagni immensi alle case discografiche ( che guadagnano assai di più con quel genere di musica ) .
E’ un sottofondo devastante per le menti che perdono la sensibilità necessaria a farsi coinvolgere dal messaggio assai più complesso e raffinato della musica classica .
Ma si sa che il potere non vuole avere a che fare con menti ben sviluppate , autonome,
sensibili : la musica è un mezzo potentissimo per sviluppare i cervelli ma li può anche ottundere se non è di qualità .
Dato ciò é assai facile capire a cosa tendano tutte le manovre per limitare la diffusione dell’arte musicale lirica , sinfonica e da camera , manovre sostenute da personaggi asserviti al potere , in malafede ma non credibili per chi sa come stanno veramente le cose .
Purtroppo ci sono milioni di persone che non potranno mai gioire ed essere educate dall’
ascolto dei capolavori di Gesualdo ( da Venosa ), Bach , Mozart , Beethoven , Brahms , Mendelsshon , Schubert , Chopin , Verdi , Cherubini , Puccini , Strawinsky , Prokofiev
( sono solo alcuni dei più importanti autori ) causa l’ ingordigia di alcuni , la “carogneria” di altri ed il servilismo dei loro portavoce .
Non é strano che io enumeri tra coloro che dicon fandonie anche i compositori ( e , magari , pure qualche direttore d’ orchestra ) : costoro , se vogliono lavorare , devono stare molto attenti a non mettersi contro il potere dei politici e delle multinazionali del disco e dei media in generale .
La situazione é veramente sconfortante perché i musicisti ” normali ” ( non i concertisti che si salvano lavorando in giro per il mondo) hanno tutti contro e quando alzano la testa vengono accusati delle peggiori nefandezze politico sindacali possibili ;
l’ unica sarebbe di emigrare in qualche paese ( vicino ) assai più civile culturalmente
lasciando il popolo italiano al suo ( triste ) destino tra riti celtici , populismo , gossip ,
corruzione , escort ed altre varie amenità esibite da un potere idiota , egoista e feroce
con i deboli .
Ciao a tutti e……………..auguri !