15
Mar
2014

La presunta strategicità della spesa pubblica sfatata dall’empiria

“Occorre dare nuovo slancio all’economia con investimenti pubblici in settori strategici”

“Dobbiamo mantenere anzi rafforzare gli asset pubblici per promuovere la crescita del sistema Paese”

I politici sembrano spesso molto esperti in “strategie d’investimento”, ma quanto incidono i presunti investimenti strategici di spesa pubblica sulla crescita economica?Assunto che l’impegno preso da Matteo Renzi di tagliare la spesa pubblica non possa che essere visto di buon occhio (e posto che sono da seguire con l’aggiunta degli occhiali l’effettiva realizzazione e quantificazione), anche l’approccio inaugurato dal jobs act con lo stanziamento di due miliardi alla scuola statale è però in linea con la più tradizionale “logica” politica fondata sul dogma della strategicità degli investimenti statali in aree fondamentali per la crescita, che a ben vedere ha poco di logico, non infatti consequenziale a quanto emerge per ultimo da uno studio empirico pubblicato oggi dal Centre for Policy Studies dal titolo Not Paved with Gold: government ‘investment’ does not equal growth di Brian Sturgess.

La ricerca si basa sull’aggregazione dei dati di 19 Paesi membri dell’OECD (Organization for Economic Co-operation and Development) relativi al periodo 1996 – 2011 che rilevano la relazione tra la crescita economica e la spesa pubblica su Pil analizzata nei principali settori di spesa (General public services, Defence, Public order and safety, Economic affairs, Environmental protection, Housing and community amenities, Health, Recreation culture and religion, Education and Social protection – Welfare), mentre la stessa correlazione per il settore delle infrastrutture per trasporti ed energia sono stati considerati 29 Paesi nell’intervallo 1996-2010.

Il rapporto evidenzia anzitutto come nel periodo considerato la spesa pubblica su Pil è mediamente aumentata dal 45% del 2007 al 50.7% del 2010 a seguito dell’adozione di misure di “sostegno” pubblico all’economia da parte dei Paesi interessati dalla crisi finanziaria.

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Nel grafico sottostante si può invece osservare la distribuzione della spesa pubblica su Pil , che risulta mediamente composta per il 38% da Social Protection (nel caso italiano include principalmente la spesa pensionistica, le assicurazioni sul lavoro, ammortizzatori sociali ed altre spese assistenziali), per il 15% dalla sanità, 12%  dall’istruzione, 10% da “affari economici”(come sussidi alle imprese ed enti economici) , 6% da funzioni minori e soltanto per il 19% da “Traditional functions”, le funzioni più essenziali che gli Stati si limitano ad esercitare (nella teoria dello stato minimo) per garantire l’esercizio della libertà dei cittadini tramite la giustizia e la sicurezza (difesa e ordine pubblico) .

tab2surgess

In quest’ultima prospettiva spetta alla mano invisibile del mercato, quindi all’intrapresa economica dei cittadini perseguire lo sviluppo e la crescita economica.

Ma un’aggiunta di spesa pubblica in questa direzione aiuta?

E’ bene domandarselo visto che “l’aggiunta” per mano statale mediamente registrata dallo studio è invece ben visibile, l’81% del Pil degli Stati considerati ed è trasversalmente giustificata proprio come “supporto” all’economia (e non solo come mezzo di attuazione dei diritti derivati dal principio di uguaglianza sostanziale affermato nella teoria dello stato sociale).

La risposta che arriva da questo studio empirico è no, almeno nella sua applicazione alle economie sviluppate degli Stati europei nel periodo considerato.

Se è vero infatti che un settore come il Welfare o Social protection rappresenta esclusivamente un costo per le economie nazionali (ma spesso un investimento elettorale) mentre la spesa per l’istruzione e sanità si rivela efficace in alcuni Paesi più di altri come investimento sul capitale umano, non vi è però nessuna evidenza di correlazione tra la spesa pubblica in questi tre settori e la crescita economica: per quanto riguarda spesa scolastica e crescita economica il coefficiente che misura la correlazione tra le due variabili vale 0,016;  – 0,548 è invece il valore del coefficiente calcolato per quanto riguarda la spesa sanitaria anche se in questo caso è importante sottolineare che il valore medio non può tenere conto di differenze rilevanti nei fattori demografici degli Stati considerati, è comunque rilevante ai fini dello studio constatare che il valore ha segno meno; mentre per quanto riguarda la spesa per il welfare (politiche di sostegno alle famiglie, sussidi di disoccupazione ecc.) se la discussione sull’utilità è controversa perché difficilmente risolvibile sul piano teorico a favore di posizioni che la ritengono un disincentivo economico piuttosto che, al contrario, ne sostengono la necessità per evitare costi-opportunità peggiori, i risultati empirici indipendentemente da queste ipotesi a confronto rilevano che la correlazione con la crescita economica è negativa con un coefficiente di – 0.626.

Ma il dato più rilevante emerge dall’analisi sugli investimenti pubblici in infrastrutture, quelli che da noi in Italia vengono abitualmente presentati dagli esponenti politici come spese strategiche per le grandi opere di interesse nazionale. In questo caso la spesa non potrebbe che essere giustificata da un ritorno atteso sull’investimento, in modo quindi indipendente da altre valutazioni tipo etico come in altri settori. Anche qui, però, la correlazione risulta tutt’altro che scontata ed è misurata dal coefficiente di segno meno 0.066.

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Le conclusioni derivate dall’indagine non hanno la presunzione di essere presentate come definitive proprio in ragione del carattere empirico dello studio, ma sono relative a un periodo di durata comunque rilevante che termina nel periodo in cui ci troviamo ed è incentrato specificamente su economie sviluppate, quali l’Italia.

Il valore empirico dei risultati della ricerca (pubblicata da un prestigioso centro di ricerca indipendente inglese) verrà recepito a livello europeo?

“…Budgetary consolidation strategy, based on

expenditure restraint, should not be achieved at

the expense of the most ‘productive’ components

of public spending (such as public investment,

education and research expenditures)”.

 

 “…Parts of government spending can be highly

efficient, including by increasing physical and

human capital, or raising the productivity of the

private sector.” 

Come giustificare nel frattempo posizioni come quelle appena menzionate espresse dalla Commissione Europea (tra le istituzione sovranazionali più rilevanti rispetto alle economie sviluppate degli Stati considerati)?

Semplicemente non sono state giustificate, fa notare Sturgess, poiché infatti non sono state supportate da dati ed analisi empiriche, non definitive d’accordo, ma fondamentali per assumere posizioni non teoriche bensì “interventiste”, e anche molto abbiamo visto.

Quanto alla politica, da quella americana a quella Italiana passando per gli Stati analizzati dallo studio, in realtà qui sì c’è una logica ed anche ragioni piuttosto empiriche che spiegano perché sarà sempre più facile promettere investimenti piuttosto che tagliare la spesa:

https://www.youtube.com/watch?v=6uR4lqa7IK4

twitter @giacreali

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1 Response

  1. Mike_M

    “Il valore empirico dei risultati della ricerca (pubblicata da un prestigioso centro di ricerca indipendente inglese) verrà recepito a livello europeo?”. Figuriamoci. Ci vorrebbe un miracolo. Quindi, non ci resta che sperare nel default prossimo venturo dell’Europa o almeno dell’Italia. Solo per questa via lo “stato minimo” ha una chance di diventare realtà.

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