La prelazione c.d. artistica: questione di coerenza
Il legislatore nazionale si contraddistingue per una caratteristica peculiare: la carenza di una preventiva ponderazione comparativa degli interessi rilevanti nell’ambito cui indirizza il proprio intervento, basata su un’esaustiva analisi costi/benefici, gli impedisce di valutare quali debbano essere sacrificati in vista del perseguimento di quello reputato prevalente. Conseguentemente, in mancanza di un’adeguata graduazione di istanze tra loro contrapposte, egli tenta di soddisfarle tutte al contempo, elaborando marchingegni normativi la cui complicazione strutturale e procedimentale dà di solito luogo a corto circuiti operativi. Alcuni profili della disciplina inerente ai beni culturali ne rappresentano un palese esempio.
Se, da un lato, la grave carenza di risorse e, dunque, la necessità di “fare cassa”, negli ultimi anni, ha indotto lo Stato a cedere a privati beni pubblici aventi valore artistico, dall’altro, la contestuale e contraddittoria pretesa pregiudiziale di proteggere l’arte dai privati stessi ha originato una normativa che imbriglia la relativa attività contrattuale con vincoli, paletti e burocrazia varia. Si fa riferimento, in particolare, alla normativa relativa al trasferimento tra privati di beni aventi lo status di “beni culturali” (artt. 59 ss. D.lgs n. 42/2004, c.d. Codice dei beni culturali).
Il proprietario (o detentore) è tenuto a denunciare al Ministero gli atti che cedono in tutto o in parte, a qualsiasi titolo, la proprietà (o la detenzione) dei beni culturali. Nel caso di alienazione a titolo oneroso, il Ministero (o la Regione o altro ente pubblico territoriale) ha la facoltà di acquistare il bene in via di prelazione al medesimo prezzo stabilito nell’atto di alienazione. La prelazione deve essere esercitata entro sessanta giorni dalla data di ricezione della denuncia. Lo Stato (o l’Ente territoriale) si ingerisce così nella vicenda traslativa tra privati, caducando il contratto già validamente concluso, anche se sottoposto a condizione sospensiva. Il Codice dei beni culturali non indica le finalità che il legislatore intende siano soddisfatte attraverso la prelazione c.d. artistica, né detta criteri precisi e trasparenti secondo i quali quest’ultima debba essere esercitata: ciò finisce per attribuire al soggetto pubblico una discrezionalità assoluta, che gli consente di riappropriarsi di un bene che aveva rimesso allo scambio nel libero mercato quando ne aveva autorizzato la prima cessione a una controparte privata.
Quest’espressione di supremazia del pubblico sul privato, dunque, non solo limita la libera circolazione dei beni in discorso, comprimendo in maniera onerosa l’autonomia negoziale dei soggetti interessati, ma conferisce incertezza a qualunque relazione economica li abbia ad oggetto. I contraenti non possono, infatti, nutrire alcuna aspettativa, tanto meno ragionevole sicurezza, in ordine alla circostanza che non venga discrezionalmente ripristinato lo status di indisponibilità del bene culturale, già rimosso in precedenza sulla base della valutazione, effettuata in sede di prima autorizzazione, che esso non debba necessariamente appartenere al patrimonio dello Stato. L’incoerenza che quest’ultimo dimostrerebbe laddove decidesse di riappropriarsene, contraddicendo la decisione già adottata, si tradurrebbe in un danno per l’affidabilità che è indispensabile nelle transazioni economiche tra privati.
Peraltro, come accennato, la prelazione artistica interviene dopo che il contratto sia stato concluso, dunque quando una serie di attività, con i costi a esse connessi, siano già stati sostenuti da parte degli interessati: appare evidente l’incongruenza del sistema così elaborato e l’aggravio che ciò comporta per i soggetti coinvolti, in ogni caso. Se infatti, la prelazione venisse esercitata, l’attività contrattuale compiuta anteriormente risulterebbe vanificata; invece, se non la fosse, sarebbero comunque necessari nuovi adempimenti, al fine di attestare in modo ufficiale che i sessanta giorni previsti dalla legge sono decorsi senza che la condizione sospensiva si sia realizzata. Inoltre, si dubita che l’eventuale sopravvenuta esigenza di acquisire nuovamente i beni in argomento nel patrimonio indisponibile dello Stato possa essere adeguatamente ponderata in un periodo così breve, considerato il tempo necessario, da un lato, a operare gli approfondimenti adeguati, dall’altro, a raccordare l’attività dei diversi uffici a ciò competenti e, infine, a stanziare le somme a ciò necessarie. L’indeterminatezza che caratterizza le alienazioni di cui i beni predetti siano oggetto non sembra trovare, quindi, un idoneo contrappeso nella esaustiva valutazione da parte dei soggetti a ciò preposti delle esigenze relative alla loro conservazione, valorizzazione e fruizione.
A ciò può aggiungersi un altro motivo di palese incongruenza, che aggrava la rilevata situazione di incertezza delle transazioni inerenti ai beni in discorso. Il d.l. n. 351/2001, in materia di privatizzazione del patrimonio immobiliare pubblico, sancisce la preclusione da parte dello Stato e degli enti pubblici di rendersi acquirenti dei beni oggetto di dismissione. Lo scopo delle privatizzazioni citate è quello di rimpinguare i fondi dell’erario: pertanto, risulterebbe vanificato se quei beni venissero ceduti ad altri enti pubblici, quindi pagati con pubbliche risorse. Tuttavia, il divieto di acquisizione imposto a tali enti è privo di raccordo con la prelazione artistica che ai medesimi compete ai sensi delle disposizioni sopra esposte. La prelazione, com’è palese, trova il proprio presupposto nella libertà di acquisto dei beni posti in vendita, quindi la contraddizione col divieto indicato emerge chiaramente. Ciò nonostante, in assenza di una disposizione espressa che conferisca coerenza e organicità alla disciplina complessiva, la contraddizione rilevata si traduce in un ulteriore elemento di indefinitezza che inficia la circolazione dei beni in argomento.
Si afferma spesso, anche in base a studi sul deficit di competitività nazionale, che la semplificazione normativa e amministrativa gioverebbe al sistema economico per più di un verso e che l’attrattività del Paese verrebbe incrementata da una maggiore certezza e speditezza delle relazioni giuridiche tra privati. Di certo, le transazioni esaminate non rappresentano una percentuale rilevante di quelle ordinariamente realizzate. Tuttavia, l’eliminazione dell’inutile ostacolo rappresentato dalla prelazione artistica sarebbe un importante segnale del legislatore in favore di un mercato più libero da oneri e gravami, specie se concorrono a rendere incongruente il sistema regolatorio di riferimento. La coerenza è un valore, anche per l’ordinamento.
* Le opinioni espresse sono esclusivamente dell’autore e non coinvolgono l’istituzione per cui lavora.
Di lei ammiro la costanza e la chiarezza con cui continua a dipingerci come una repubblica sovietica.
La prenda con tutto il rispetto: ma riuscirebbe mai a scrivere un articolo in cui questa nazione ha tenuto fede, con una legge, una disposizione, un regolamento, una circolare, ai principi che tanto pubblicizza, nella fattispecie liberalizzazione, semplificazione e trasparenza?
Se ce la fa, mando 10 euro alla sede dell’Istituto Leoni. Cosi’ si beve una birra alla mia salute.
Cordialmente
Gianfranco.
Signora Azzolini, se capisco bene il Suo scritto, i beni culturali di proprieta privata esposti all’esercizio della prelazione artistica sarebbero stati originariamente di proprietà pubblica e quindi privatizzati. Mi spiace contraddirla, ma si tratta invece di tutti i beni appartenenti a privati che presentano le caratteristiche enunciate dall’art. 10 del Codice dei beni culturali e del paesaggio e siano stati oggetto della dichiarazione d’interesse storico-artistico o paesaggistico secondo le disposizioni dello stesso Codice: quindi si tratta di un numero di beni potenzialmente elevatissimo, in crescita costante per effetto del trascorrere del tempo e della voracità del MIBACT. Infatti, non solo i prodotti artistici che compiono l’età prevista dal Codice divengono soggetti alla dichiarazione (tutte le opere d’arte realizzate prima del 1965 lo sono), ma addirittura il Ministero ha moltiplicato le dichiarazioni d’interesse a partire dalla promulgazione del Codice nel 2004: la media annua da allora è un multiplo di quella degli anni 1902/2004! Mi permetta di citare il mio contributo al vol. III dell’opera “Il diritto dell’arte” edita da Skira.
Solo per precisare che la presunzione di culturalità si applica a tutte le opere realizzate più di 70 anni fa (modifica del 2011)
Precisazione per precisazione: non si tratta di presunzione perché, almeno per i beni non appartenenti allo Stato o ad altri enti pubblici, occorre sempre la dichiarazione d’interesse culturale. In ogni caso, settant’anni è il limite per gli immobili; per i beni mobili è rimasto il limite di cinquant’anni (ormai tutte le opere di Piero Manzoni, giusto per fare un esempio, potrebbero essere dichiarate d’interesse culturale e, di fatto, sottratte al mercato).