La natura della politica, di Raimondo Cubeddu—di Tommaso Alberini
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Tommaso Alberini.
Raimondo Cubeddu, ordinario di filosofia politica a Pisa, è un amico dell’IBL. Può capitare di incontrarlo ai seminari, agli eventi organizzati in giro per lo stivale o alla cena con annessa premiazione al freedom fighter dell’anno, tenuta ogni autunno a Milano. Il Premio Bruno Leoni 2016 è andato a Deirdre McCloskey, studiosa eclettica munita di cattedra a Chicago, nella stessa città i cui atenei hanno ospitato tanti altri campioni della libertà, da Milton Friedman a Friedrich von Hayek.
Deirdre McCloskey, a novembre, entrando nella sede dell’IBL, ci chiese come mai ogni singolo cittadino italiano non fosse liberale, constatata la lapalissiana evidenza che lo Stato, da noi più che altrove, sta accumulando un fallimento dopo l’altro. Noi presenti provammo a farfugliare una risposta che potesse suonare assennata, spiazzati come eravamo da una domanda tanto ingenua quanto acuta. E provocatoria. Raimondo Cubeddu, col suo nuovo libro La Natura della Politica (Cantagalli, 2016, 277 pp.), avrebbe certamente offerto una spiegazione più efficace.
Il libro, come la filosofia che trasuda, non è affatto provinciale: l’Italia è presa semplicemente come esempio iniziale per spiegare l’inquinamento del liberalismo odierno. L’Italia in fasce, dice Cubeddu, fu svezzata dal realismo di Cavour che volle conciliare i principi del libero mercato e del libero scambio con la necessità politica di realizzare l’unità nazionale.
Politica e necessità sono le parole chiave di questo testo. “Non è tanto lo Stato ad essere il male necessario, bensì la politica stessa”, e anche se “si fa fatica ad immaginare la politica senza Stato”, Cubeddu suggerisce che “lo Stato è solo una delle possibili forme istituzionali della politica”. Diceva Alexis de Tocquevile che i buoni governanti dovrebbero abituare gli uomini a fare a meno di loro. Applicando quest’unità di misura alla storia più o meno recente, Cubeddu illustra i fallimenti e la protervia dei nostri governanti, che hanno fatto di tutto perché pendessimo dal loro schiocco di dita.
L’isteria legiferante dei governi contemporanei ha fatto sì che la cupa profezia di Montesquieu – secondo cui l’eccedenza di regole ne avrebbe comportato una progressiva svalutazione – si realizzasse nell’epoca della post-verità, in cui ad ogni fatto corrisponde una controprova che lo smentisce. In questa frattura d’epoca che abbiamo la fortuna o la sfortuna di vivere, Cubeddu analizza le ragioni del crollo dell’efficacia della politica, coerentemente con una certa narrazione secondo cui i nodi della matassa della storia – cioè i cambiamenti, quelli veri – raramente provengono dall’azione dei governi.
Sostituendo i diritti naturali con i diritti umani, che per antonomasia necessitano di un’azione positiva da parte della politica, l’Occidente si è condannato ad una dipendenza da quella che è in fondo una “teologia secolarizzata”, una dottrina costruttivista che assembla soluzioni specifiche per problemi generali, cadendo nel più comune degli errori: credere che la politica possa risolvere ogni questione. Riesumando la tradizione scettica radicata intellettualmente nell’illuminismo scozzese – da Bernard de Mandeville a David Hume, da Adam Smith a Edmund Burke e ancora Friedrich von Hayek, Murray Rothbard e Michael Oakeshott – Cubeddu si interroga sulla natura essenziale della politica, chiedendosi se se ne possa fare del tutto a meno. Quel giorno all’IBL, con Deirdre McCloskey, purtroppo nessuno di noi l’aveva ancora letto.
Prima ancora “dell’inquinamento del liberismo”, mi porrei il problema del degrado della partecipazione del cittadino alla vita politica.
La mia esperienza non può certo rappresentare una verità universale ed assoluta, tuttavia la mia sensazione, maturata fin dalla scuola superiore, passando per l’università e arrivando all’età adulta (durante la quale mi capita spesso di incontrare politici di varia estrazione), è quella che alla politica, in linea di massima si sono dedicati i meno capaci.
Chi eccelle preferisce dedicarsi ad altro, alla carriera lavorativa, o occuparsi degli altri attraverso l’associazionismo non legato ai partiti.
La politica è lasciata a chi vi si dedica “professionalmente”, e che la esercita nel proprio interesse, perché al di fuori di essa non sarebbe in grado di combinare nulla di buono.
La colpa di questo è in primis dei cittadini, che dovrebbero votare con maggiore attenzione i politici che li rappresentano, e soprattutto dovrebbero imparare a sacrificarsi un po’ di più per gli altri, occupandosi in maniera più diretta della vita politica, non disdegnando la partecipazione diretta.