La liberalizzazione delle rette universitarie, per togliere ai ricchi e dare ai poveri
Pubblicato anche su Libertiamo.it – Partiamo da un dato: le rette universitarie sono molto inferiori al costo che lo Stato sopporta per erogare ad ogni studente l’istruzione universitaria. Come scrive Francesco Giavazzi su lavoce.info, uno studente universitario costa allo Stato circa 7mila euro l’anno, mentre le rette raramente superano i 3mila euro l’anno. Non giriamoci intorno: con ‘prezzi’ tanto più bassi del costo dell’istruzione, si riduce l’incentivo a studiare e pretendere una elevata qualità del servizio.
Ma c’è di più. Un punto cruciale delle tesi di Roberto Perotti nel suo libro “L’università truccata” (Einaudi, 2008) è il seguente: rette uguali per tutti, o poco differenziate, sono di fatto un modo per trasferire reddito dai poveri ai ricchi. L’argomento dell’economista è il seguente: circa un quarto degli studenti universitari proviene dal 20 per cento più ricco delle famiglie; e meno di uno studente su dieci proviene dal 20 per cento più povero. Numero più numero meno – il libro di Perotti usa dati del 2006, ma le cose non sono mutate – la sostanza è questa: all’università vanno soprattutto i figli dei più abbienti, che potrebbero pagare rete più alte, mentre la loro laurea viene finanziata con le tasse di tutti, incluse i contribuenti più poveri, che solo eccezionalmente mandano i loro figli all’università.
E invece, con il risparmio derivante dall’innalzamento delle rette universitarie sarebbe possibile garantire non solo una migliore qualità complessiva, ma anche l’accesso gratuito dei poveri all’istruzione superiore attraverso borse di studio e prestiti d’onore. All’ombra dell’ideologica concezione della giustizia sociale, insomma, prospera la vera ingiustizia dell’accademia pubblica italiana.
Come nasce il problema? Gli atenei non sono liberi di determinare le loro rette, perché per legge (l’articolo 5 del DPR 306 del 1997) la contribuzione studentesca non può superare il 20 per cento dei trasferimenti statali ordinari. Con la conseguenza diabolica che la riduzione dei trasferimenti statali finisce per ridurre in proporzione anche l’ammontare delle risorse reperibili attraverso le rette. Da tempo Francesco Giavazzi e Roberto Perotti (ma l’argomento è da molti anni un cavallo di battaglia di Antonio Martino, per fare un esempio) sostengono che il taglio dei trasferimenti statali alle università – una costante di questa legislatura – è sostenibile e ‘intellettualmente onesto’ solo se accompagnato dalla concessione alle stesse di piena autonomia nella determinazione delle rette. E da tempo il governo fa orecchie da mercante, forse timoroso delle inevitabili proteste dei tanti che, quando parlano di giustizia sociale, non sanno guardare oltre il proprio naso.
Con un emendamento firmato da tre deputati di Futuro e Libertà (Barbaro, Della Vedova e Di Biagio) la proposta di liberalizzazione delle rette arriva oggi in Commissione Cultura alla Camera, dove è appunto in discussione la riforma dell’università. Difficile che la maggioranza si apra, ed altrettanto difficile che il centrosinistra sostenga l’iniziativa, ‘catturato’ com’è in questi ambiti dal peggior sindacalismo studentesco. Ma l’emendamento di FLI è come una goccia di benzina: di per sé non serve a far girare il motore, ma un piccolo incendio nel dibattito lo può provocare. Soprattutto se chi ha davvero a cuore il futuro dell’università italiana farà sentire la propria voce a supporto.
Accanto alla proposta di eliminazione del tetto alla contribuzione studentesca, i tre deputati hanno presentato un’altra misura a nostro giudizio interessante: la deducibilità all’80 per cento delle donazioni private alle università, potenzialmente una spinta decisiva per una vera autonomia degli atenei. Vedremo.
L’argomento ha un suo fascino per essere controintuitivo, tuttavia ho l’impressione che i più poveri, per quanto meritevoli, rischino di ritrarre un saldo negativo nella misura in cui la liberalizzazione delle tasse verso l’alto non si accompagna in pari misura all’ampliamento serio di borse di studio.
Quanto ai prestiti sull’onore, ritengo sia una forma poco efficace soprattutto in periodi in cui il mercato del lavoro non è ricettivo nei confronti del laureato o, il che è lo stesso, il laureato non ha le competenze richieste dal mercato del lavoro: di fronte a questa asimmetria concreta, quanti acconsentiranno ad ipotecare redditi futuri ed oltre modo incerti?
La misura proposta ha sicuramente una sua utilità, ma per cortesia non contrabbandiamola come un favore fatto ai poveri; più serio è pensare di rivolgersi a tutti i capaci e meritevoli, che è concetto – anche costituzionalmente – diverso.
La FGR Emilia-Romagna nel dicembre 2008 aveva presentato 12 proposte per riformare l’Università che andavano nella direzione indicata dai professori Giavazzi e Perotti.
Forse possono essere di spunto per FLI.
http://www.fgr-fc.it/proponifestazione.htm
Credo che la questione sia innanzitutto politica.
Molto brevemente, da “liberale” ritengo che il nostro Stato dovrebbe permettere a tutti di accedere alla formazione universitaria, in modo “effettivo”, la frequenza cioè non dovrebbe generare oneri per lo studente ovvero per la sua famiglia.
Ciò significa, ad esempio, rendere disponibili alloggi o erogare “assegni” per chi risiede lontano dalla sede universitaria. L’iscrizione deve essere gratuita, il materiale didattico deve essere disponibile a costo zero, e così via.
Perderà progressivamente il diritto – riduzione dell’assegno, aumento del costo di iscrizione – chi non procede ad una velocità sufficiente verso il diploma.
L’accesso effettivo alla formazione superiore è uno degli elementi di abilitazione della mobilità sociale.
L’altra questione, ovvio, è la fattibilità economica.
Non è garantita, ma uno “stato liberale” compiuto, al quale tendere e del quale magari parlerò in un prossimo intervento, determina le condizioni migliori, il più alto potenziale possibile, per generare la ricchezza necessaria.
Cordiali saluti.
gianluigi.calisesi@libero.it
Il problema della formazione, non solo universitaria, è che è fatta seguendo modelli che non sono cambiati dai tempi del Far West e che progressivamente sono peggiorati nella loro applicazione.
Le università, in particolare, dovrebbero essere divise in due parti totalmente indipendenti:
1) La parte formativa (che insegna)
2) La parte certificativa (che certifica le conoscenze / capacità acquisite)
Entrambe queste parti dovrebbero essere finanziate e pagate separatamente per il loro lavoro. Ed entrambe dovrebbero essere pesantemente aggiornate per utilizzare la tecnologia più moderna per fornire i servizi meno costosi e più efficaci possibili.
Progetti come il MIT OpenCourseWare (ed altri simili), la Kahn Academy, dovrebbero essere incoraggiati, così come l’utilizzo di testi gratuiti e liberi da copyright. Non mi risulta che la Matematica sia molto cambiata con il tempo e richieda continue revisioni, ne mi pare sia differente per la Fisica e la Chimica. Già tagliare sui costi dei libri permetterebbe a molte più persone di studiare le materie universitarie. Se si aggiunge lo sviluppo di applicazioni informatiche (via web, oppure applicazioni per PC e simili) che permettano agli studenti di praticare quello che studiano mano a mano che lo studiano, allora la necessità di lezioni o laboratori con presenza obbligatoria crollerebbe, insieme ai costi collegati (spesso indiretti).
L’unica controindicazione è che parecchia gente dovrebbe cercarsi un posto di lavoro nuovo e produttivo, dato che in un mercato concorrenziale non sarebbero in grado di fornire nulla che la gente è disposta a pagare. Niente rendite di posizione.
Privatizzare completamente l’Università, abolire il valore legale del titolo di studio, questi sono i passi in avanti necessari per ottenere un miglioramento della qualità dell’istruzione generalizzato.
Certo, se poi non si passa anche a privatizzare la scuola pubblica, il problema delle masse di ignoranti prodotti dalla scuola non potrà essere risolto.
Arthur B. Robinson ha insegnato ai suoi 6 figli a casa (homescholing) e sono tutti e 6 perfettamente istruiti (visto che sono tutti Ph.D. in campo scientifico), ed è rimasto vedovo improvvisamente con il più grande di 12 anni e il più piccolo di 16 mesi. La sua esperienza, dalla quale ha sviluppato un Curriculum venduto in decine di migliaia di copie, dimostra che un bambino richiede circa 15 minuti al giorno di attenzione per ottenere risultati eccellenti, dopo che gli è stato insegnato a leggere, scrivere e le minime basi dell’aritmetica.
Il costo annuale per l’istruzione di un bambino è di 200$ (degli anni 90), oggi saranno 300$ al massimo. E non solo lui, ma anche altri homeschooler riportano le stesse cifre.
Il loro successo è tale che molte università americane tendono a preferire i giovani che hanno fatto homeschooling, in quanto i loro risultati e la loro educazione è migliore di quelli delle scuole pubbliche.
Ma se qualcuno vuole pagare di più vada alle Università private, non alle pubbliche. Di quando in quando nelle pubbliche si dovrebbe pagare di più? allora togliamole completamente e lasciamo solo le private.
Le Università pubbliche devono essere pubbliche, devono funzionare bene, essere di qualità, avere dei responsabili della gestione e delle spese, eliminazione degli sprechi.Se possiamo permettercene poche ne teniamo poche, se possiamo permetterci pochi corsi di laurea senza grandi giardini , teniamo pochi corsi di laurea senza giardini, ma il pubblico è pubblico.
Che politica è questa? E’ bene che si sappia chi ha proposto, l’ elettore giudicherà.
Intanto si parta con dei gruppi sull’ argomento dell’ eliminazione del limite massimo delle tasse su internet, si coinvolga quanta più gente possibile(studenti, amici, genitori), si tengano tutti i nomi dei parlamentari sotto osservazione.Si proponga un referendum se necessario.
Vedremo questa riforma alla fine, ed aspetteremo le elezioni.