22
Set
2014

La legge è legge! Quando il protezionismo è a carico del contribuente

“La legge è legge!”Con questo ritornello il grande attore comico francese Fernandel, nei panni del coprotagonista Ferdinand Pastorellì, ricordava a se stesso l’imperativo morale che doveva costantemente guidarlo nella propria attività professionale di gendarme di frontiera addetto al contrasto dei contrabbandieri Anche quando si trattava di mandare in gattabuia il suo migliore amico, l’indimenticabile Totò, (altro coprotagonista nei panni di Giuseppe La Paglia) che di crediti di riconoscenza con lui ne aveva contratti e non poco, ma che viveva di contrabbando, il gendarme Pastorellì non sentiva ragioni. Il film si intitola appunto: “La legge è legge!”ed è la prima narrazione che mi è venuta in mente durante la lettura di una sentenza del TAR Napoli di cui vado brevissimamente a darvi il resoconto.

Un imprenditore italiano partecipa ad una gara d’appalto pubblica indetta da una amministrazione partenopea per la fornitura di materiale acquedottistico. L’imprenditore si aggiudica la gara poiché è riuscito a presentare l’offerta migliore sia per il prezzo che per le caratteristiche dei materiali. Dopo qualche tempo, però, l’amministrazione appaltante revoca l’aggiudicazione ed assegna la fornitura al secondo classificato.

Il nostro imprenditore si chiede se vi sia stata qualche irregolarità nella presentazione della sua offerta che possa avere giustificato la revoca dell’aggiudicazione o se l’offerta medesima sia risultata inadeguata o inattendibile ad un migliore esame della stazione appaltante. Niente di tutto questo!

L’aggiudicazione della fornitura pubblica è stata revocata perché il Nostro ha dichiarato di gestire un’impresa che produce più del 50% del valore dei materiali oggetto della fornitura in Cina e questo per la legge Italiana e per le direttive europee non è ammissibile!

Non è un problema di qualità dei materiali, sulla quale non vi è nulla da dire, né di affidabilità complessiva dell’offerta, ma la legge è legge, e l’amministrazione l’applica implacabilmente nel modo più draconiano possibile.

Esiste, infatti, una norma all’interno del codice degli appalti (l’art. 234, commi 1 e 2) che riproducendo fedelmente il contenuto di una direttiva comunitaria (17/2004) così recita: “Qualsiasi offerta presentata per l’aggiudicazione di un appalto di forniture può essere respinta se la parte dei prodotti originari di Paesi terzi, ai sensi del regolamento (CEE) n. 2931/92 del Consiglio, del 12 ottobre 1992, che istituisce un codice doganale comunitario, supera il 50% del valore totale dei prodotti che compongono l’offerta. Ai fini del presente articolo, i software impiegati negli impianti delle reti di telecomunicazione sono considerati prodotti.”

Nulla possono, di conseguenza, i giudici amministrativi del TAR Napoli (qui la sentenza) che devono semplicemente dare atto dell’esistenza della norma e della circostanza che l’offerta, nonostante sia risultata la più conveniente per l’amministrazione, “può essere respinta “dalla stazione appaltante senza alcuna ulteriore motivazione.

Sebbene la Repubblica Popolare Cinese abbia aderito al W.T.O. ( World Trade Organization), la stessa, chiosano i giudici, non ha mai sottoscritto l’accordo sugli appalti pubblici (G.P.A. “General Procurement Agreement”) e pertanto non ha acconsentito alla completa apertura del proprio mercato degli appalti pubblici con piena reciprocità e dignità giuridica nei confronti delle imprese della U.E. L’inevitabile conseguenza è che senza reciprocità anche il mercato europeo e quello italiano, in questo caso, hanno diritto di chiudersi a riccio con buona pace della possibilità di approfittare dei risparmi che deriverebbero dalla specializzazione internazionale del lavoro e da un migliore impiego dei capitali. Naturalmente, è appena il caso di ricordarlo, vanno a farsi benedire pure la spending review della pubblica amministrazione che rinuncia ad un offerta economicamente più conveniente e la tutela del contribuente italiano che deve rimetterci di tasca propria la differenza di prezzo fra l’offerta dell’imprenditore che produce in Cina e quella dell’impresa definitivamente aggiudicataria che produce in territorio italiano.

Il nostro protagonista cerca di dare un colpo di reni per salvarsi in extremis facendo notare al Tribunale che la sua impresa è italiana a tutti gli effetti perché in Italia ha la sede legale ed amministrativa, in Italia ha gli uffici di design e progettazione. Quindi non c’è motivo di applicare la norma che fa riferimento alle produzioni in Paesi terzi. Niente da fare: la legge è legge! L’imprenditore reo di avere de-localizzato la produzione non sa che: “la natura italiana dell’impresa non rende italiano il prodotto realizzato altrove, sebbene la produzione sia effettuata in proprio, dovendosi scindere il profilo soggettivo, del produttore, da quello oggettivo, dell’origine del prodotto cui fa riferimento l’art. 234 del codice degli appalti”.

Nel 1944 Ludwig Von Mises, illustre economista austriaco, scriveva nel suo celebre libro “Lo Stato Onnipotente”: “La divisione internazionale del lavoro è un sistema di produzione più efficiente che l’autarchia economica di ciascuna nazione. La stessa quantità di lavoro e di fattori di produzione materiali da luogo ad una produzione più elevata. Questa produzione eccedente va a beneficio di ciascun interessato. Il protezionismo e l’autarchia portano sempre a trasferire la produzione dai centri dove le condizioni sono più favorevoli….ai centri dove esse sono meno favorevoli. Le risorse più produttive restano inutilizzate mentre quelle meno produttive vengono utilizzate. L’effetto è un abbassamento generale della produttività del lavoro umano, e perciò un calo dello standard di vita in tutto il mondo”.

Nessuno oggi sarebbe in grado di dare torto con argomenti razionali a Mises, nemmeno i cinesi, i quali rinunciando alla possibilità di fare partecipare le imprese europee alle loro gare d’appalto pubbliche fanno un torto prima di tutto a se stessi. La risposta a mò di rappresaglia da parte dell’Europa e dell’Italia, tuttavia, si pone sul medesimo piano della rinuncia ai risultati di una produzione comunque più efficiente che consentirebbe effettivi risparmi di spesa e per questo pare a chi scrive del tutto inadeguata.

Un ripensamento appare necessario. Nel frattempo, la legge è legge!

@roccotodero

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1 Response

  1. ALESSIO DI MICHELE

    2 piccole curiosità:

    1) poiché la stazione appaltante PUO’ respingere l’ offerta …, l’ appaltatore non avrebbe meglio fatto ricorso al TAR per lesione di un interesse legittimo (suo e della stazione appaltante) ? Il Tribunale fa pensare al diritto soggettivo.

    2) E se la fornitura attiene merci prodotte solo fuori dell’ Europa ? Una fornitura di spezie per le cucine dell’ Esercito è ugualmente a rischio ?

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