La guerra (commerciale) di Donald Trump
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Giovanni Caccavello.
Seguendo il suo stesso ragionamento, Trump sta perdendo la guerra commerciale.
“Nulla può essere più assurdo di tutta questa teoria sulla bilancia commerciale […]
Quando due nazioni commerciano l’una con l’altra, questa insensata teoria presuppone che,
se la bilancia è pari, nessuna delle due “perda” o “guadagni”, ma se la bilancia è a favore
di una delle due, una nazione tende a rimetterci e l’altra a profittare,
in proporzione alla grandezza dell’avanzo di quest’ultima”
(Adam Smith, 1776. “Indagine sulla Natura e sulle Cause della Ricchezza delle Nazioni”, Libro IV, Capitolo 3, Parte II).
Come abbiamo avuto modo di imparare nel corso di questi ultimi tre anni (campagna elettorale per le elezioni Presidenziali del 2016 compresa), la politica commerciale di Donald Trump si fonda sull’idea del commercio internazionale come “gioco a somma zero”. Questa idea, difesa a spada tratta da diverse figure vicine al Presidente americano (come ad esempio Peter Navarro o John Bolton), reputa il “deficit commerciale” come una variabile economica negativa, che porta sia alla riduzione dei posti di lavoro, sia alla riduzione della ricchezza americana.
È proprio per questo motivo che fin dal primo giorno di insediamento l’Amministrazione Trump ha deciso di rimettere in discussione l’intera politica commerciale americana e di raccontare agli americani che nel giro di poco tempo le nuove politiche protezioniste, a favore di un commercio “più equo” e “più bilanciato”, avrebbero permesso di ridimensionare rapidamente il deficit.
Contrariamente alla retorica protezionista voluta da Trump, i risultati – come prevedibile – non hanno fatto registrare alcuna riduzione del deficit commerciale americano.
Al contrario, nonostante i famosi dazi sull’alluminio, sull’acciaio, sulle lavatrici e sui pannelli solari, la revisione del NAFTA (il nuovo accordo, fa dei passi indietro rispetto al precedente NAFTA, soprattutto per quanto riguarda le barriere non tariffarie nel settore automobilistico), la guerra commerciale con la Cina (nel corso del 2018 Washington e Pechino hanno applicato dazi incrociati per un totale di $360 miliardi di dollari), la revisione dell’accordo commerciale con la Corea del Sud (che prevede – tra le altre cose – il raddoppio dell’export di automobili statunitensi e delle quote sulle importazioni di acciaio dalla Corea), e l’uscita di scena dal TPP e dal TTIP, il deficit commerciale americano è in aumento.
I nuovi dati pubblicati mercoledì 7 marzo dall’Ufficio del censimento degli Stati Uniti d’America certificano per il 2018 un deficit commerciale dei beni pari a oltre $891 miliardi di dollari, il più grande della storia degli Stati Uniti. Un deficit commerciale così elevato supera anche il record precedente, fatto registrare nel 2006, durante il secondo mandato del Presidente George W. Bush. Per quanto invece riguarda il deficit commerciale totale (beni + servizi), il risultato si attesta intorno ai $621 miliardi, ovvero il quinto deficit commerciale più grande della storia statunitense ed il livello più alto dal 2008. Durante la presidenza Obama, il deficit commerciale aveva raggiunto un massimo di oltre $549 miliardi nel 2011.
Grafico 1: Deficit commerciale dei beni degli Stati Uniti, dal 1993 al 2018.
Anche il politicamente sensibile deficit commerciale con la Cina ha toccato un nuovo massimo, pari a $ 419 miliardi, in aumento del 10,5% rispetto al 2017 e del 17,5% rispetto al 2016. Questi però non sono affatto risultati negativi. Come scrive Gregory Mankiw, famoso professore di economia ad Harvard, sul suo blog, l’espressione “deficit commerciale” è un termine che mette in confusione i più.
Come si può ben notare dai dati più recenti, il deficit di beni e servizi degli Stati Uniti ha poco a che fare con la politica commerciale intrapresa da Washington. In generale, infatti, come spiegano molti economisti, il deficit commerciale di una nazione è, prima di tutto, determinato dai flussi di investimenti in entrata e in uscita dal quel paese. Questi flussi sono causati da quanto le persone di quella specifica nazione risparmiano e investono. Per comprendere come funziona la bilancia commerciale di una nazione bisogna, innanzitutto, capire cosa sia la bilancia dei pagamenti. Una volta compresi questi termini, si può arrivare a capire la seguente equazione: risparmi – investimenti = esportazioni – importazioni. Di conseguenza, le variabili macroeconomiche di risparmio e degli investimento sono influenzate solo indirettamente dalla politica commerciale di un determinato paese.
Infine un piccolo, ma importante, dato proveniente da uno studio pubblicato proprio in questi ultimi giorni da tre economisti della Federal Reserve di New York e delle prestigiose Princeton University e Columbia University: le tariffe commerciali imposte dall’Amministrazione Trump nel corso del 2018 sono costate agli Stati Uniti oltre $19 miliardi. Contrariamente a quanto ci ha spiegato più volte Trump stesso, una guerra commerciale non si vince facilmente.