La “giungla” delle 11 mila partecipate pubbliche nel report ISTAT—di Francesco Bruno
Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Francesco Bruno.
“10.964 unità”, è questa la cifra indicata nel report pubblicato dall’Istat lunedì 16 novembre sulle società che presentavano una forma di partecipazione pubblica in Italia nel 2013. Per fare un semplice e banale paragone con i partner dell’Eurozona, la Francia (che in quanto a intervento dello Stato nell’economia sa il fatto suo) ne conta circa un migliaio.
Il secondo dato che attira subito dopo l’attenzione nella lettura del report, è che le società attive sono state 7.767, quindi vi erano 3.197 imprese con partecipazione pubbliche inattive, che impiegavano il 2,7% degli addetti totali (tra queste anche un migliaio di imprese fuori dal Registro Asia Imprese da cui il report ha estratto i dati). Inevitabile chiedersi immediatamente perché si debba mantenere partecipazioni pubbliche in imprese inattive e sarebbe molto interessante scoprire se nel corso degli ultimi due anni siano avvenute le doverose dismissioni dalle stesse.
Terzo dato, nelle unità con partecipazioni pubbliche operavano quasi un milione di persone (927.559), un milione di tessere elettorali per quanto interessa alla politica. Agevole capire il perché è così arduo razionalizzare tali partecipazioni in maniera efficiente.
Ma il report dice anche altro.
Utili e perdite
Con riguardo alle società sottoposte a controllo pubblico, il bilancio di esercizio è stato in utile per i due terzi, mentre il 23% ha fatto registrare una perdita. Le migliori performance di bilancio si segnalano nei settori di fornitura dell’acqua, nella gestione dei rifiuti e nell’erogazione di gas ed energia elettrica, mentre le maggiori perdite si rilevano nel settore dei traporti.
Nel 2013, le società controllate hanno prodotto utili per circa due miliardi di euro e perdite maggiori al miliardo. Il saldo complessivo è quindi positivo. Ma restano diverse ombre dietro i dati.
Innanzitutto, le perdite sono molto pesanti. Un miliardo di euro che finisce inevitabilmente a gravare sulla fiscalità generale, perché gli enti pubblici sono costretti a destinare risorse al risanamento dei bilanci. Si badi bene che si tratta di società che nella quasi totalità dei casi opera in regime di monopolio e con l’apporto di erogazioni pubbliche. Sentendo parlare spessissimo di “fallimenti del mercato”, vien da chiedersi perché nel mercato privato le imprese in perdita finiscono inevitabilmente per fallire, mentre lo stesso destino non tocchi alle società controllate da enti pubblici. “Per garantire i servizi pubblici essenziali” si potrebbe facilmente obiettare. Ma una società che non è in grado di evitare perdite di esercizio nonostante erogazioni di fondi pubblici e regimi di monopolio, sarà in grado di offrire un buon servizio ai cittadini? Difficile da credere.
Secondariamente, anche sul versante delle società in utile non si può ritenere che sia tutto oro qualcosa che luccica. In primis è doveroso far notare nuovamente che si tratta di società che ricevono erogazioni pubbliche, che operano in regime quasi esclusivo di monopolio e in settore altamente remunerativi, come quelli della fornitura di energia e gas. Se fossero in perdita anche tali società…..
Inoltre, quando si valuta il costo delle partecipate per i cittadini, non si può non tener conto anche delle tariffe applicate da queste aziende che vediamo nelle nostre bollette. Sarebbe minore questo costo in caso di apertura al mercato e alla concorrenza? Difficile dare risposte secche, ma sicuramente se la liberalizzazione e la dismissione delle quote pubbliche venisse eseguita correttamente, è probabile che gli utenti ci guadagnerebbero.
L’opinione della Corte dei Conti
Nella relazione depositata il 22 luglio 2015 dalla Corte dei Conti – Sezione delle Autonomie inerente “Gli Organismi partecipati degli enti territoriali”, sono molte le summenzionate ombre evidenziate dalla magistratura contabile.
Per brevità, le più rilevanti:
- Nei bilanci 2013 delle società a totale controllo pubblico, la Corte individua importanti squilibri tra le Regioni in merito a utili (di seguito “U”) e perdite (di seguito “P). In particolare il riferimento è a Lazio (U 4,4, mln – P 31,9 mln), Umbria (U 6,4 mln – P 32,7 mln), Molise (U 292 mila – P 2,9 mln), Campania (U 4,6 mln – P 24,3 mln), Calabria (U 798 mila – P 7,4 mln).
- In Calabria, Basilicata, Campania e Sicilia il costo del lavoro incide pesantemente sul costo della produzione, anche in modo superiore al 50%. Il dato è probabilmente dovuto al fenomeno delle assunzioni inutili decise dalla mala-politica che controlla dette società.
- La Corte evidenzia che nelle società a totale partecipazione pubblica il fattore tecnologico è meno prevalente di quello umano. Anche qui la produttività fa spazio a esigenze occupazionali e di consenso politico.
- Dalle analisi si ricavano perfino molti casi di eccedenze delle erogazioni pubbliche rispetto al valore della produzione. Inoltre l’ente pubblico affidatario spesso riconosce alla partecipata altri finanziamenti ordinari e straordinari, nonché contributi per ripianare le perdite. In tali situazioni il peso della partecipazione è eccessivamente gravoso per le finanze dell’ente pubblico.
Da questi dati emergono alcune criticità importanti inerenti le società a totale controllo pubblico, nelle quali è la politica a prendere tutte le decisioni. Ma anche le società dove il controllo pubblico non è totale o è minoritario destano forti preoccupazioni di sostenibilità finanziaria. I risultati possono indignarci, ma non devono sorprenderci. Il politico razionale pensa alla sua rielezione ed ha quindi un incentivo ad allargare il suo consenso, a danno delle casse pubbliche ovviamente.
Cosa si può fare
Tanto, tantissimo. Non servono genialate, Carlo Cottarelli – come tanti altri – ha già suggerito cosa si dovrebbe fare nelle sue memorie pre-licenziamento senza giusta causa.
Cosa si può fare concretamente? Assolutamente nulla se manca la volontà politica. Il Rottamatore avrebbe dovuto ridurle a mille, ma Palazzo Chigi favorisce l’oblio.
Affinché la riduzione delle partecipazioni pubbliche in società private avvenga, è necessario che questo risulti conveniente per la politica. Evidentemente al momento questo non avviene perché le misure di efficientamento della spesa pubblica non godono di un favore popolare che sia superiore o almeno pari al malumore generato dai tagli (ricordare il milione di addetti).
Probabilmente è errato anche il messaggio comunicativo trasmesso. I tagli indiscriminati generano tensioni e paure per un’eventuale diminuzione nel livello di alcuni servizi fondamentali che svolgono le partecipate. Si dovrebbe far capire che mentre esistono dei casi dove tali aziende vanno chiuse o dove è necessario che l’ente pubblico controllante ceda il controllo o il non controllante dismetta le sue quote, ve ne sono tanti altri dove non si deve necessariamente decurtare le erogazioni pubbliche: i soldi possono rimanere gli stessi, ma si può spenderli meglio.
Inoltre, a mo’ di esempio, se si fa capire che queste società hanno bisogno di investire in tecnologie innovative piuttosto che assumere scriteriatamente, forse sarà più facile incontrare il favore popolare.
Il messaggio potrebbe altresì far leva sui benevoli effetti della concorrenza per gli utenti, derivante da un’aperura al libero mercato della gestione di servizi notoriamente affidati ad aziende pubbliche: se si fa capire che la liberalizzazione degli affidamenti dei servizi può comportare una riduzione cospicua delle tariffe, il cittadino potrebbe essere maggiormente favorevole al cambiamento.
Ovviamente non è facile convincere il contribuente, il quale resta preoccupato, perché l’esperienza gli insegna che spesso in Italia specialmente la privatizzazione di aziende pubbliche o a controllo pubblico è coincisa con il passaggio da un monopolio pubblico a uno privato. La sfida diventa quindi quella della totale trasparenza delle gare e di una migliore regolamentazione sul conflitto d’interessi.
Trovare l’incentivo giusto che convinca la politica a farsi spazio nella giungla delle partecipate, tagliare molti rami e potandone altri, è una sfida senz’altro difficile, ma non impossibile, perché in fondo sarebbe sufficiente rendere l’intervento popolare e il politico razionale reagirebbe di conseguenza.
Se questo non avverrà, continueremo invece a narrare di perdite che aumentano, di numeri esorbitanti e ci consoleremo alla sera ascoltando i Guns N’Roses (https://www.youtube.com/watch?v=o1tj2zJ2Wvg).
Sitografia: