La funzione dei media è ormai quella di non far sapere?
La riflessione di Gianfilippo Cuneo sull’uso scorretto e fuorviante delle parole da parte dei giornalisti nel descrivere la situazione italiana pone un quesito complementare: a chi giova il linguaggio edulcorato/falsato, di cui è evidente la finalità quando impiegato dai politici ma che è contrario alla deontologia professionale e riprovevole quando utilizzato dai giornalisti? Come è possibile, ad esempio, presentare l’ipotesi di ingresso di Etihad in Alitalia come ‘salvataggio’ e quella di Air France come ‘conquista’ quando le condizioni dettate dalla prima sono almeno altrettanto dure, e probabilmente molto di più, di quelle della seconda? Come è possibile scrivere che il debito pubblico dell’Italia si sta riducendo quando è vero il contrario? Come è possibile utilizzare il termine ‘privatizzazione’ riferito al progetto su Poste Italiane, che non solo non privatizza ma congela il controllo congiunto statal-sindacale e lo status quo, rendendo impossibile per il futuro dirimere i rapporti dell’azienda con le casse pubbliche? Come è possibile che si elogino con cadenza periodica i risultati finanziari di Poste e Ferrovie omettendo di ricordare che si tratta di monopoli di fatto e che i risultati industriali non sono esattamente in linea con quelli finanziari? Come è possibile parlare di risanamento dei conti pubblici attraverso il rigore quando il deficit/pil non scende più e il debito/pil corre più veloce di prima?
L’uso superficiale, improprio e spesso fuorviante delle parole ha l’effetto, consapevole o inconsapevole, di impedire all’opinione pubblica di rendersi conto della reale situazione del paese, di disporre di una descrizione fedele e comprensibile dei nostri problemi, di prendere cognizione della necessità del cambiamento e delle opzioni razionali possibili. Tutto sembra in realtà riconducibile a un problema di vestito del re: il re è nudo, lo status quo è insostenibile e indifendibile, ma l’opinione pubblica non lo può vedere direttamente. La visione è infatti mediata dai mezzi di comunicazione i quali, anziché contribuire correttamente alla formazione dell’opinione pubblica, avallano una rappresentazione di comodo. L‘uso improprio delle parole ha l’effetto di tessere un vestito virtuale sulla nudità del re impedendo che i sudditi possano percepirla.
Vi è anche un importante effetto collaterale: se si distorce la possibilità di formulare diagnosi corrette si impedisce un dibattito razionale sui rimedi regalando uno spazio enorme ai sostenitori di ricette eccentriche e impraticabili. Se si chiude l’agorà si apre il circo.
Eccellente. il prof. Arrigo si merita le mie 5 stelle, che vado a contrassegnare anche a Gianfilippo Cuneo, mi ero scordato di farlo. Mi si consenta di integrare la riflessione di Arrigo con un contributo sulla possibile soluzione del problema – che mi pare sia importante, una prospettiva di soluzione.
Essa è fondata sulla lezione, circa la ‘società partecipativa’, di quel grande intellettuale del ‘900 che è stato Pier Luigi Zampetti, che ho sintetizzato in diverse versioni, fra le quali vi propongo questa:
http://lafilosofiadellatav.wordpress.com/fiatpomigliano-darcomelfi-come-mettere-a-frutto-la-lezione-di-pier-luigi-zampetti-per-risolvere-il-conflitto-tra-capitale-e-lavoro/
Jessup: “Do you want answers ” ? Kaffee: ” I think I’ m entitled to” ! Jessup: “DO YOU WANT ANSWERS ” ? Kaffee: ” I WANT THE TRUTH “!
Jessup: “YOU CAN’ T HANDLE THE TRUTH “! (A few good men, 1992).
E’ uguale: la pubblica opinione italiana can’t handle the truth.
Supponiamo di vivere in un Paese in cui non sia possibile nominare il colore grigio e neppure usare attributi come plumbeo, ecc.
In questo paese dell’assurdo l’unico modo per descrivere il cielo quando piove è dire “il cielo è non azzurro”.
Oggi siamo costretti a esprimerci con un linguaggio artefatto, farcito di termini impropri, pena essere aggrediti mediaticamente, sindacalmente, politicamente e persino giudiziariamente. Ad esempio, se uno dice “lü l’è negher” viene automaticamente accusato di razzismo anche se il nero è una proprietà cromatica e non un’offesa.
Il linguaggio “politically correct” è un modo di mascherare la verità (veline di regime), ma è anche un tentativo di piegare la volontà della gente impedendole di esprimersi e minando alle radici la possibilità di parlare al di fuori dei ristretti spazi concessi dalla gentile autorità. Quello che sembra assurdo trova spiegazione. Purtroppo questa spiegazione è assai inquietante.
Caro Professor Arrigo, forse è davvero arrivato il momento di scrivere un dizionario “Italiano – Giornalese” e “Giornalese – Italiano”…..
Forse in buona parte tutto ciò dipende anche dalla partigianeria o piaggeria di chi fa “informazione”,scrive e dirige i giornali o comunica in televisione e sulla rete.Sono sicuro che in ogni caso chi scrive o comunica in un modo o nell’altro finisce per esprimere oltre a dati oggettivi ( che dovrebbero essere) uguali per tutti anche la sua opinione e le sue conoscenze,e qui si apre un ventaglio infinito di gradi di conoscenza e serietà professionale,però a volte quello che leggiamo sui giornali o vediamo in televisione o internet non può più essere chiamata informazione ma mera propaganda,che sia per una parte politica o per un interesse finanziario poco conta.Io sono portato a intendere il titolo di questo interessante articolo in questo modo,cioè che mentre in un passato neppure troppo remoto le fonti di conoscenza erano meno di quelle disponibili oggi,adesso invece ad ognuno è data la possibilità di poter comunicare la propria idea e la propria interpretazione di quelli che da dati oggettivi di fatto possono essere adattati ad esprimere una personale opinione,anche a costo di elaboratissime acrobazie dialettiche.Tutto ciò comporta un eccesso pesantissimo di dati che spesso non sono informazioni ma opinioni e solo chi ha adeguati strumenti critici e culturali può tentare di decodificare separando i fatti dalle opinioni.