La frittura e l’ordine spontaneo
Tra i balenieri più seri e onorati si fanno sempre, in verità, concessioni nei casi speciali in cui sarebbe una grossa ingiustizia morale il fatto che una parte pretendesse il possesso di una balena cacciata o uccisa in precedenza da altri. Herman Melville, Moby Dick, p.486
La decisione dell’Unione Europea di vietare con regolamento (direttamente applicabile nei diversi Stati membri) il consumo di frittura di pesce ha sollevato un vespaio di critiche da parte dei pescatori e dei tanti cittadini comuni che amano gustare una pietanza così prelibata.
Molti, in particolare, hanno colto l’occasione per stigmatizzare l’eccessivo tasso di burocrazia promanante da Bruxelles. A mio avviso, ciò che si fatica a percepire in casi come questo è che la burocrazia altro non è che l’appendice necessaria di quella “presunzione fatale”– per dirla con Hayek- in base alla quale un minuscolo capannello di tecnocrati è in grado di conoscere quale tipo di pesce debba essere pescato, come debba essere pescato e in quali quantità. Tutto ciò, ridotto all’osso, è ciò che il caro Freddie chiamava socialismo.
Ebbene, il problema esiste e nessuno lo nega. Si chiama “tragedia dei comuni”, una situazione nella quale la mancata attribuzione dei diritti di proprietà genera moral hazard e in ultima istanza uno sfruttamento sregolato della risorsa, che porta alla sua estinzione. L’approccio che si può seguire dinanzi a queste difficoltà è duplice: favorire soluzioni che nascano “dal basso”, dove la conoscenza è meglio distribuita (economia di mercato); prediligere soluzioni autoritarie in base alle quali sarà un’autorità centrale a plasmare il diritto (economia pianificata).
Nel suo fortunato volume “Governare i collettivi”, il Premio Nobel Elinor Ostrom fornisce un vasto numero di esempi empirici, che dimostrano come gli accordi spontanei tra pescatori in ordine a tempi e modalità del “gettare le reti” siano un metodo potenzialmente vantaggioso per proteggere le risorse ittiche. Come argomentava Pietro Monsurrò in una recente conversazione, in taluni casi, qual è ad esempio quello della pesca costiera o di allevamento, l’attribuzione di diritti di proprietà è meno difficoltosa; talora invece, come nel caso della pesca d’altura la possibilità di individuare norme adatte è marcatamente più problematica, laddove i pesci (a differenze delle “zona di pesca”) si muovono. Che alcuni sistemi citati dalla Ostrom siano fragili (come quello di Alanya, in Turchia) e altri abbiano avuto poco successo (in Sri Lanka o ad Izmir, sempre in Turchia) è riconducibile a diversi fattori, primo fra tutti i costi di transazione spesso molto elevati. Non è d’altra parte neanche da sottovalutare l’apporto distorsivo prodotto dai governi (e dall’UE stessa con la famosa PCP), come la stessa Ostrom rileva:
La sovvenzione dell’acquisto di nuove tecnologie ha costituito una strategia frequente dei governi nazionali in relazione alle attività di pesca, con risultati che a volte sono stati disastrosi. Lo sforzo di finanziare una nuova tecnologia presuppone il fatto che i pescatori locali non adotteranno nuove tecnologie più efficienti senza aiuto esterno. Il conservatorismo dei pescatori riguardo all’uso delle nuove tecnologie può rispecchiare la consapevolezza che la gestione di sistemi di risorse complessi dipenda da un delicato equilibrio tra le tecnologie in uso e le regole adottate per controllare e autorizzare l’accesso e l’uso. Se l’adattamento alle nuove tecnologie viene accelerato, il rapporto tra le regole e le tecnologie in uso può diventare seriamente squilibrato (…) L’introduzione rapida di una tecnologia più efficiente da parte di un’autorità esterna può innescare proprio quella tragedia dei comuni che le stesse autorità pubbliche presumono che avverrà se essi non regolano l’uso di questa attività di pesca.
La ricerca di una regola che soddisfi tutti gli attori in gioco richiede insomma molto tempo, spesso quello di generazioni. Ciò non significa, come si è detto, che le soluzioni “dal basso” à la Ostrom debbano per forza avere successo o siano più efficienti, ma piuttosto che siano metodologicamente preferibili, in quanto compatibili con un sistema che abbia a cuore la libertà umana. Saranno proprio i ripetuti trials and errors a garantire “catallatticamente” l’individuazione di norme giuste. L’alternativa è una regolamentazione brutale, senza conoscenza.
Un meccanismo di mercato funzionerebbe sicuramente se si lasciasse i pescatori pescare quanto vogliono, al che la fauna si ridurrebbe, il prezzo salirebbe, la domanda scenderebbe, e la pesca alla fine si stabilizzerebbe su livello oltre cui non può salire se non distruggendo la propria fonte di ricchezza in relazione anche al prezzo che si può spuntare sul mercato stanti le possibilità di “sostituzione” (non telline ma calamari ecc…). Diventerebbe necessario, e conveniente, un accordo tra i pescatori per non superare certi limiti.
Il punto in tal caso credo sia la difficoltà nell’esaminare per tempo il livello di break even, oltre cui la pesca può veramente distruggere l’ecosistema (con danno per tutti pescatori compresi); in questo spazio possono subentrare giudizi di opportunità a “frenare” esogenamente la pesca, perché non si valuta eccessivo il rischio di sovrasfruttamento.
D’accordo con Boggero che la soluzione “dal basso” sia metodologicamente più giusta. Ma mi chiedo se veramente riesca, in questo caso specifico e non in generale, a internalizzare adeguatamente i rischi (ammesso e non concesso che i regolatori dispongano di informazioni superiori). Purtroppo quando si passa dalla ragion del merito metodologico a una valutazione di opportunità si finisce in politica (=regolamentazione esterna), tanto più brutale quanto più non disponga di informazioni superiori al mercato.
Il problema è che se servono generazioni per arrivare ad una soluzione efficiente nell’ordine spontaneo, i tonni si saranno già estinti nel frattempo.
Un altro problema è che se basta l’introduzione di una nuova tecnologia per vanificare generazioni di diritto consuetudinario, allora non serve lo stato per rompere l’equilibrio: basta un qualunque imprenditore “schumpeteriano”.
Infine, probabilmente i gruppi sociali che si autoregolavano erano relativamente chiusi. Questo significa che occorre o mettere d’accordo i pescatori di tutti i paesi che pescano in una zona, oppure escludere (il che sarebbe una forma di privatizzazione) l’accesso a determinate aree a determinati gruppi di pescatori.
Non mi pare esista una soluzione semplice. Io proporrei quattro soluzioni aprziali:
1. escludere dal divieto tutti i prodotti per cui il problema dei common non si applica, cioè la pesca di molluschi e specie che non si muovono granché e sono facilmente “privatizzabili” concedendo diritti di pesca localizzati ed esclusivi ad ogni pescatore o società di pescatori.
2. trasformare il divieto senza “se” e senza “ma” in un sistema cap ‘n trade, che è più flessibile, e consente di limitare la pesca senza vietarla completamente.
3. (non so com’è la situazione attuale) liberalizzare completamente gli allevamenti ed ogni forma di mercato dove non c’è il problema dei commons, ad esempio allevamenti in mare aperto (in Norvegia allevavano salmone imprigonandolo nei fiordi, ad esempio, ma pare che l’UE lo abbia vietato per non danneggiare i produttori degli altri paesi con “troppa” concorrenza: i soliti mafiosi). Non c’è da trascurare il problema che gli allevamenti abitualmente danno prodotti infimi, e quelli in mare aperto probabilmente sono migliori. Qui però bisogna analizzare i dettagli del mercato. In ogni caso, l’aumentata produzione da allevamento ridurrebbe i prezzi sul mercato, e quindi ridurrebbe la pesca in marea aperto rendendola meno proficua.
4. Evitare qualsiasi forma di incentivo alla pesca in mare aperto. Immagino sia un’attività sovvenzionata come l’agricoltura, per moviti “sociali”. Solo che se si deve salvaguardare il pesce, tanto vale cominciare dai sussidi (eventuali, non so come stanno le cose).
Che non esistano soluzioni semplici mi pare di averlo scritto. Sono d’accordo sul meccanismo di segnale svolto dai prezzi di cui parla Leonardo, così come sono convinto che esso potrebbe segnalare in ritardo il “break even”. E’ un’eventualità, non possiamo saperlo. Quello che mi premeva far capire era la questione metodologica…
Che non serva lo Stato per far “saltare” il diritto consuetudinario mi pare evidente. La mia era una replica alla soluzione di comodo, “ci pensa lo Stato, perchè sa di più”. No, la politica non sa di più e infatti, quando ha la presunzione di sapere, rende ancora più difficile la risoluzione del problema. Che le sovvenzioni distorcano mi pare una questione che dovrebbe metterci tutti d’accordo, al di là del fatto che le innovazioni poi possano esservi comunque…
Sulle proposte di Pietro concordo in toto. E si tratta di misure che vanno tutte nella direzione catallattica, non in quella opposta… Solo sul cap and trade sono più scettico. O meglio sono più scettico sul chi lo pone…
Qui qualcosa sulla PCP comunitaria
In fondo l’allevamento ha permesso che le mucche prolificassero… ed è un bel sistema per “privatizzare” la risorsa. infatti il problema dei salmoni nei fiordi è solo, pare, un problema di mafiosi, non di ragioni economiche o ambientali.
@Boggero
Giusto per capirci, io non volevo darti contro, ma solo stressare ulteriormente la tua precisazione “metodologica” e evidenziare il concetto di “opportunità” che è tutto politico (e non necessariamente più informato del privato).
@Leonardo, IHC
Absolutely!
Il cap ‘n trade è una soluzione di carta. Come ogni forma di regolamentazione, attiva l’assalto alla diligenza e alle rendite di posizione, e alla fine a guadagnarci sono solo lobby organizzate e politici affaristi. Però tecnicamente è meglio del divieto totale…
@Pietro M.
Eccolo lì. Purtroppo hai ragione.
Per quanto concerne gli allevamenti ittici, il prodotto è sicuramente meno apprezzabile di quello naturale, ma anche qui c’è modo e modo di fare allevamento, dalla roba italiana mi sento abbastanza garantito.
Il mio sospetto, oddio come sono sospettoso, è che i nostri cari euroburocrati stiano cercando di aiutare qualche azienda che importa dall’Asia, o dall’Africa o Sud America.
Scommetto che fra qualche tempo ci troveremo invasi da misto per frittura importato da qualche azienda del Nord Europa.
Complimenti, hai colto due tragedie con un regolamento: quella dei beni comuni e quella della ue. Senza considerare che di qualche “common” se ne potrebbe fare anche a meno..
Bella la citazione di Moby Dick. Gli accordi internazionali sul divieto di caccia alle balene sono pieni di “presunzioni fatali”, ad ex. vietandone l’uccisione se non ad autorizzati fini scientifici, ne vietano di fatto forme di allevamento e di sviluppo di diritti proprietari, contribuendo così a mantenere artificialmente alto il prezzo e a incentivare fenomeni di free riding. Spesso poi si dimentica che sono il petrolio ed il kerosene ad aver abbatuto la caccia alle balene per scopi industriali.
Mi è piaciuto l’articolo, direi che applichi efficacemente i principi che Hayek illustra nell’intervista, e sul piano metodologico sono d’accordo con te, a partire dall’effetto distorsivo delle sovvenzioni.
Tuttavia, di fronte ai danni provocati dall’eccessivo interventismo statale in un settore (e.g. le sovvenzioni alla tecnologia di cui parla la Ostrom), non sono sicura che la soluzione più efficace nell’immediato -per evitare un danno all’ecosistema- sia rimettersi alla spontaneità del mercato. Il cuore del problema, come rileva Leonardo IHC, è quando il mercato riesce a rilevare il break-even: forse troppo tardi.
“La riluttanza delle autorità nazionali a sviluppare un sistema di regole strutturato su livelli concentrici, che faccia tesoro di molte generazioni di pescatori che conoscono molto bene le loro zone di pesca, può distruggere un gruppo di istituzioni locali nate per disciplinare l’uso di determinate risorse collettive, senza necessariamente sviluppare alternative efficaci” : eppure sono questi pescatori locali, non giapponesi cattivi o chissà chi, ad avere pescato in modo eccessivo una risorsa. Sicuramente perché l’introduzione di nuove tecnologie -a partire dall’ecoscandaglio negli anni 70- gli ha permesso una pesca più efficace a scapito dell’equilibrio dell’ecosistema marino.
Monsurrò fa dei rilievi interessanti, ad esempio il punto sui diritti di pesca, su cui non avevo mai riflettuto. Però la parte sugli allevamenti mi trova un po’ scettica. “l’aumentata produzione da allevamento ridurrebbe i prezzi sul mercato, e quindi ridurrebbe la pesca in marea aperto rendendola meno proficua” :
a) non tutto si può allevare, ad esempio il pesce da paranza. Magari puoi friggere altri pesci che son d’allevamento, ma la questione è diversa.
B) se fosse vera questa relazione, non si capisce perchè, di fronte a branzini d’allevamento a 9 euro al chilo e quelli d’amo a partire da 45 (esempio), non si sia ancora avverata
@Chiara: quello che vuol dire la Ostrom è che spesso e volentieri le sovvenzioni per la pesca d’altura, per il carburante, per determinati strumenti di pesca più all’avanguardia creano un incentivo ulteriore alla pesca selvaggia, destabilizzando magari il precario sistema istituzionale che si era venuto a formare per opera dei pescatori.
Sul resto lascio rispondere a Pietro, ma in ogni caso credo che la relazione non si sia verificata, semplicemente perchè la pesca d’allevamento non è così diffusa come la pesca d’altura. Poi è ovvio che ci sono altri mille fattori (i gusti in primis) a determinare che cosa verrà venduto, ma mi pare che il principio di per sè tenga.
Chiaramente il sovvenzionamento di certi fattori produttivi induce un’artificiosa espansione “locale” dell’offerta, creando così una sorta di “effetto ciclo” analogo a quello cui si assiste in ambito monetario.
Ma siccome avete già detto voi tutto quello che c’era da dire, mi limiterò a lanciare una modesta provocazione. Me ne dà lo spunto proprio la citazione che Giovanni mette in esergo al pezzo: i processi di mercato fondati su una solida consuetudine fanno perno su sistemi di valori largamente condivisi dagli attori afferenti a un certo comparto commerciale. Di qui, localmente, i criteri morali e prasseologici idonei a valutare la sostenibilità del modo in cui si sfruttano determinate risorse (e, nel caso, a estromettere dal circuito attori spregiudicati o free rider, lex mercatoria docet).
In altre parole, esistono molte formulazioni dell’esternalità, legate anche a variabili di tipo contingente. L’errore è ricondurle all’opportunità tecnico-politica e quindi demandarne la regolazione ad autorità di ultima istanza, come giustamente avverte Leonardo, così conferendo al potere costituito il monopolio nella definizione dell’utilità collettiva nei suoi vari campi d’applicazione. Quello che a una certa conventional wisdom può apparire come un male (o, viceversa, un bene) in sé può non esserlo in assoluto: se il Dodo vien fatto estinguere, gli allevatori di Dodo piangano se stessi. Idem per i pescatori. Non sto sottovalutando le conseguenze di eventuali tragedie dei beni comuni, in sintesi, ma rifiutando una soluzione che punti sull’accentramento dell’autorità regolatoria (o su una sua passiva accettazione) per scongiurarle.