11
Giu
2009

La fotografia della crisi

Due notizie forniscono una interessante fotografia della crisi. Oggi, il ministero dello Sviluppo economico ha comunicato che i consumi petroliferi sono scesi dell’8,5 per cento. Si tratta dell’ottavo mese consecutivo di contrazione della domanda nel nostro paese. Punto più, punto meno, la stessa cosa sta accadendo ovunque nel mondo. Sebbene questi dati si riferiscano al solo petrolio (e prodotti raffinati), il messaggio che arriva dai consumi di gas ed elettricità sono identici: a testimonianza di un paese in paralisi, nel quale tutte le attività produttive sono in forte rallentamento, quando non in frenata o in retromarcia. Contemporaneamente, però, arriva una prima, buona notizia (anticipata, come spesso accade, dalla ripresa delle quotazioni del barile): dopo otto revisioni al ribasso, l’Agenzia internazionale per l’energia ha corretto al rialzo le stime sulla domanda petrolifera per il 2009. Anche in questo caso, si parla di greggio ma si potrebbe parlare benissimo di gas o elettricità; e si parla del mondo intero ma si potrebbe parlare benissimo dell’Italia. Cosa suggerisce l’incrocio di questi dati? Da un lato, che la crisi è gravissima. Nonostante il crollo del prezzo del petrolio, i consumi si sono vieppiù ridotti, principalmente perché la domanda è venuta meno. I consumi energetici sono un proxy interessante per valutare la severità della crisi, in quanto attraverso di essi si legge in controluce la sintesi sia delle attività industriali, sia dei comportamenti privati (meno consumi di benzina e gasolio significano che la gente lascia l’automobile in garage). Essi, dunque, riflettono al contempo la difficile situazione economica e le aspettative buie rispetto al futuro. Tutto ciò nonostante un fortissimo impegno dell’Opec in generale, e soprattutto dell’Arabia Saudita, nel rispettare quote di produzione che sono state ridotte in misura considerevole rispetto a quelle precedenti l’impatto della tempesta finanziaria sull’economia reale.

Dall’altro lato, si è osservata una dinamica dei prezzi molto istruttiva. Dapprima, essi non hanno risentito particolarmente del comportamento del cartello dei paesi produttori. E’ vero che, in assenza di provvedimenti, il greggio sarebbe probabilmente sceso più verso i 20 che sui 30 dollari, come credevo sarebbe successo (in realtà non è accaduto, principalmente grazie al rigore con cui le direttive Opec sono state rispettate, anche se poi, non appena i risultati si sono visti, la tentazione a sgarrare ha prevalso). Ma, insomma, l’operazione non si può dire non sia riuscita. Poi, dopo un lungo periodo di fluttuazione nella banda 35-50 dollari (a mio avviso, già indice di ricupero), finalmente il barile è tornato su valori più realistici, almeno rispetto allo scenario pre-crisi.

A questo punto, era inevitabile e facilmente prevedibile la revisione dell’Agenzia di Parigi. Inevitabile e prevedibile, ma comunque l’effetto, anche simbolico, di vederlo scritto nero su bianco non è secondario. A questo punto, direi che si può davvero cominciare a sperare. Che non significa, naturalmente, che si possa tirare un sospiro di sollievo e che tutto sia finito. E’ probabile che per un po’ l’economia resterà asfittica. Ma i segnali si stanno moltiplicando, su una uscita dal tunnel nel medio termine. La vera questione da affrontare, al momento aperta, è se questa ripresa – o almeno il rallentamento della caduta – stia avvenendo grazie, o nonostante, i vari piani di ricupero. Io temo che sia corretto il punto di vista pessimistico: gli stimoli fiscali, in primis quelli erogati con tanta generosità e bipartisan dai governi americani (tanto George W. quando Barack hanno pompato di tutto di più), possono aver gonfiato la domanda, e dunque aver contribuito pro quota al prezzo del barile. Ma, nel medio termine, essi pongono una enorme ipoteca sulle prospettive dell’economia globale. Per un verso, le generazioni future (cioè, noi…) dovranno fare i conti, in tutto il mondo industrializzato, con debiti pubblici di dimensioni italiane. Cioè, anziché vedere la Cenerentola italiana che si fa principessa, abbiamo visto le principesse anglosassoni farsi cenerentole. Per l’altro verso, i governi si sono talmente impastati le mani nell’economia che non si sa dove andremo a sbattere. Adesso più che mai, è il momento di interrogarsi sulle vie d’uscita: più a lungo rimaderemo questo dibattito, più soffriremo i postumi della sbornia statalista.

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