17
Mag
2020

La dura lezione dell’epidemia

Riceviamo, e volentieri pubblichiamo, da Gabriele Pelissero.

Nel dibattito che in Italia e in tutto il mondo, si sta aprendo in questa fase epidemica  si confrontano posizioni e idee diverse sulla ripresa delle attività economiche e della vita sociale, che per altro sono intimamente e indissolubilmente connesse, originati da un dilemma profondo, dalla necessità di una scelta difficile e comunque dolorosa.

Il protrarsi dell’isolamento e il blocco delle attività produttive fa infatti emergere un  sempre più profondo conflitto fra le esigenze della salute e quelle della produzione di beni e servizi e del loro consumo da parte della popolazione.

Se guardiamo esclusivamente l’aspetto sanitario, è ovvio che in assenza di uno strumento definitivo di eradicazione dell’epidemia – un vaccino veramente efficace – la soluzione migliore è la più assoluta separazione fra gli individui. Paradossalmente, se ogni essere umano fosse messo in uno scafandro impermeabile al virus per un tempo sufficientemente lungo questo probabilmente scomparirebbe.

Ma questo è ovviamente impossibile. Dunque, in attesa di un efficace strumento di eradicazione, dobbiamo abituarci per un tempo che non sarà breve a  convivere con il virus, frase un po’ eufemistica che significa in realtà accettare un certo numero di malati e un certo numero di morti.

Più si allargheranno le maglie del distanziamento, più riprenderanno le attività economiche e sociali, più crescerà la probabilità di ammalare e di morire, e contemporaneamente più si ridurrà il rischio di crisi economiche, anche esse foriere di malattia e morte.

La suggestione di poter vivere indeterminatamente di erogazioni statali restando isolati nelle proprie case è, appunto, una suggestione illusoria e pericolosa destinata a generare precocemente vere catastrofi sociali.

Ma come trovare un punto di equilibrio?

Il dilemma fra lavoro/contagio e isolamento/miseria non ha una soluzione perfetta, ma un forte contributo ad attenuarne le criticità può derivare dal potenziamento della capacità di curare i malati.

Dopo aver implementato tutte le misure di prevenzione possibili (mascherine, distanziamento, disinfezione delle mani, sanificazione degli ambienti) e aver ripreso le attività produttive e il commercio, che ne è un terminale indispensabile avremo nuovi casi e nuovi malati.

Potranno essere piccoli focolai epidemici o casi isolati, ma a questo punto ciò che potremo  fare sarà solo curarli al meglio, e per questo torna come fattore centrale di successo l’ospedale.

Perché ridurre la letalità, cioè il numero dei morti dovuti alla forma più grave di malattia, è un obiettivo che si può realizzare soltanto con cure specialistiche in un ambiente qualificato come quello ospedaliero, dove specialisti di diversa formazione lavorano insieme con le migliori tecnologie.

Dopo decenni di politiche sanitarie antiospedaliere, dopo la drastica riduzione della rete ospedaliera del Paese avviate con il Regolamento degli standard ospedalieri del 2015, dopo tutta la retorica territoriale usata in chiave ideologica contro la medicina specialistica e la nozione stessa di ospedale, l’epidemia da Covid-19 ci impartisce questa dura lezione di realismo sulla quale dovremo tornare per rivedere tante affermazioni e tante decisioni degli ultimi decenni.

E per iniziare occorre, a breve, accanto ad una giusta azione di rinforzo delle strutture di sanità pubblica per il ruolo che dovranno assumere nella prevenzione del contagio, anche sviluppare un progetto di riorganizzazione delle reti ospedaliere regionali che consenta di riprendere in piena sicurezza l’attività di ricovero e ambulatoriale ordinaria, sospesa in tutto il Paese nella fase acuta dell’epidemia, e contemporaneamente di rimanere in condizioni operative adeguate a curare, in degenza ordinaria e intensiva, i casi di Covid che si verificheranno.

L’attenzione principale nel disegnare questa riorganizzazione dovrà essere, a mio modo di vedere, la netta distinzione per la rete ospedaliera non – Covid e la rete ospedaliera Covid.

E’ prematuro oggi determinare la dimensione di quest’ultima, ma è possibile definire i requisiti principali che devono essere la separazione assoluta dalla rete non – Covid (con padiglioni o meglio con interi ospedali esclusivamente dedicati) e la flessibilità dimensionale, che richiede un impianto strutturale (posti letto e attrezzature) sovradimensionato rispetto alla stima dei valori medi di occupazione. E dobbiamo anche  prepararci a mantenere la rete ospedaliera Covid attiva e operativa anche se non ci saranno più casi, almeno fino alla disponibilità di un vaccino efficace.

Tutto questo presuppone, in termini più generali, una revisione degli standard di dotazione di posti letto in tutto il Paese, superando la rigidità e i limiti imposti dall’attuale Regolamento degli standard ospedalieri, e ovviamente una adeguata e stabile maggiore dotazione di risorse umane e finanziarie.

E questo significa operare in netta controtendenza rispetto all’ultimo decennio, che ha visto tagliati drasticamente gli investimenti in sanità, con la perdita di un punto  di PIL nella spesa sanitaria pubblica e la conseguente sempre maggiore distanza rispetto ai livelli di investimento dei Paesi UE a noi comparabili, anche perché il contrasto all’epidemia ha già oggi aumentato il costo complessivo del SSN, e lo aumenterà ancora nei prossimi anni.

L’evidente importanza di disporre di una valida struttura di ricerca biomedica, infine rimanda all’altra stringente necessità di incrementare adeguatamente questa componente fondamentale della filiera della scienza della vita.

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