La cultura dell’analisi di impatto giova alla cultura (seconda parte).
Non solo ai privati, come visto nella prima parte, serve stimare quanto più precisamente l’impatto che i fondi da essi destinati alla cultura possono produrre. Anche per lo Stato è necessario valutare accuratamente la portata degli effetti delle risorse impiegate nel settore in esame, in termini di ricadute positive sul sistema economico nazionale.
Ciò risulta essenziale laddove si consideri che le attività culturali hanno una ridotta sensibilità al ciclo economico, caratteristica che può fare di esse importanti fattori di stabilizzazione, a fronte della variabilità che caratterizza aree diverse; inoltre, in un Paese qual è l’Italia, dotato di un patrimonio artistico e storico di pregio, tali attività dispongono di un potenziale di crescita molto significativo. Dunque, oltre a costituire fonte di arricchimento individuale e, conseguentemente, fattore di miglioramento della qualità sociale, l’offerta culturale riveste pure per altri versi un ruolo fondamentale. Infatti, al di là di quanto specificamente ricompreso nel perimetro del settore in discorso, variabile a seconda di chi ne tratti, esistono stretti rapporti di correlazione tra detto settore e altri comparti economici più o meno contigui. Ciò è idoneo a determinare spillover rilevanti, sì che un investimento operato nell’ambito in questione genera incrementi indiretti nell’attività e nell’occupazione di quelli collegati. La cultura rappresenta quindi, un driver di innovazione sociale e di crescita economica al contempo. Al fine di apprezzare appieno il valore attuale che per l’Italia essa riveste, nonché evidenziare ancora una volta l’importanza delle misurazioni di impatto nella materia in argomento, può farsi ricorso alle conclusioni raggiunte da un’apposita ricerca, che ha calcolato l’incidenza sull’economia italiana dell’ambito culturale. Ne ha considerato quattro componenti (industrie culturali propriamente dette, industrie creative, patrimonio storico-artistico architettonico e performing art e arti visive), stimando che da esse provenga il 5,4% (80 miliardi circa) della ricchezza prodotta in Italia; estendendo il calcolo a istituzioni pubbliche e no profit, il valore aggiunto della cultura arriva al 5,8% del sistema economico nazionale. Poiché le molteplici attività all’interno di tale sistema hanno incidenza anche in aree differenti, secondo una logica di filiera, la ricerca citata ha determinato l’impatto diretto e indiretto che essa è atta a sortire. “La cultura ha sul resto dell’economia un effetto moltiplicatore pari a 1,67: in altri termini, per ogni euro prodotto dalla cultura, se ne attivano 1,67 in altri settori. Gli 80 miliardi, quindi, ne ‘stimolano’ altri 134, per arrivare a quei 214 miliardi prodotti dall’intera filiera culturale, col turismo come principale beneficiario di questo effetto volano”. Allo specifico riguardo, la ricerca in discorso sottolinea che “il turista culturale che soggiorna in Italia è più propenso a spendere: 52 euro al giorno per l’alloggio e 85 euro per spese extra, contro i 47 euro per alloggio e 75 per gli extra di chi viene per ragioni non culturali”. Detta ricerca valuta altresì la rilevanza degli investimenti in attività culturali e creative sulle unità di lavoro: le imprese del sistema culturale incidono per il 5,8% sul totale degli occupati in Italia, che diventano il 6,2% includendo anche le realtà del pubblico e del no profit. In precedenza, già un altro studio è stato volto a verificare l’impatto per l’economia di ogni euro di PIL originato nell’ambito culturale, distinguendo gli effetti che restano all’interno dell’ambito stesso e quelli generati nei settori collegati (industria manifatturiera e non, trasporti, commercio, agricoltura, settore ricettivo, delle costruzioni ecc.). Così come per il PIL, il rapporto in discorso ha valutato l’incidenza degli investimenti in attività culturali e creative sulle unità di lavoro, sia all’interno dello stesso settore, sia in quelli collegati. Anche tale rapporto ha, come quello in precedenza citato, calcolato un moltiplicatore dell’investimento culturale: ma, al fine di fornire altre informazioni utili a operare misurazioni e stime – che, come più volte rimarcato, sono essenziali ogni qual volta vengano impiegate risorse pubbliche o private destinate a produrre effetti diffusi – a ciò ha aggiunto un importante dato ulteriore. Ha predisposto, infatti, un indicatore (c.d. Florens index) che consente di analizzare il “sistema cultura” in una prospettiva di benchmarking e, in particolare, di calcolare il potenziale e il dinamismo espresso dal settore culturale e creativo di ciascun territorio considerato, compiendo confronti su base nazionale (20 regioni) ed internazionale (8 Paesi). Per ognuna delle regioni italiane, nonché per i diversi Paesi, esso ha effettuato una valutazione e attribuito dei punteggi a diverse componenti (economiche, artistico-culturali, ambientali e sociali) riguardanti quattro aree (capitale culturale e ambientale, networking, media e sistema creativo), alle quali ha attribuito un “peso” differente. Lo studio ha ricondotto a tali aree una serie di attività economiche attinenti al macro-settore dell’industria culturale e creativa, ponendo in rilievo i punti di forza e quelli di debolezza di ciascun territorio in relazione ai comparti individuati: a questo scopo, si è avvalso di una serie di parametri (key performance indicator) in grado di misurarne i principali elementi. Quindi, mediante la ponderazione dei risultati ottenuti e una lettura sistemica e integrata degli stessi, ha tratto l’indicatore sintetico sopra citato che, misurando il potenziale e il dinamismo dei territori esaminati ed esprimendone il posizionamento in comparazione con gli altri, ne mostra altresì le valenze, gli attori e le prospettive di sviluppo.
Quanto al versante nazionale, in particolare, lo studio ha evidenziato come, combinando i moltiplicatori elaborati relativamente a PIL e occupazione con l’indice suddetto singolarmente attribuito alle diverse regioni, in quelle nelle quali tale indice è più elevato si innescano dinamiche virtuose, che determinano effetti economici migliori a seguito degli investimenti culturali. Quanto al versante internazionale, lo studio stesso ha posto in luce come l’ambito in esame, pur dimostrando un’alta incidenza nell’economia italiana in termini di fatturato, se messo a confronto con Paesi diversi ha rispetto a essi un ampio potenziale inespresso e, pertanto, un notevole margine di sviluppo. Il suo indice di redditività è cioè molto basso rispetto a quello di realtà straniere che non dispongono degli stessi vantaggi comparati. Dette realtà risultano capaci di trarre maggior valore dal pur meno rilevante insieme di beni culturali di cui sono provviste. Tali conclusioni discenderebbero già intuitivamente a seguito di evidenze varie e diffuse. Tuttavia, ricerche come quelle sopra citate dimostrano l’importanza di attribuire con metodi professionali una misura economica al settore culturale, ciò al fine di comprendere come le risorse a esso destinate possano operare, nonché di quantificare i margini di miglioramento eventuali e fornire dati qualitativi al contempo; consentono inoltre di svolgere utili comparazioni, a livello nazionale e internazionale, e di trarre così indicazioni e spunti mediante il confronto con realtà più virtuose.
Dunque, considerate le caratteristiche del settore in argomento e la rilevanza dell’impatto economico che l’impiego di fondi nello stesso può generare anche in altri comparti, appare evidente come esso rappresenti un “giacimento” in molti sensi. Tuttavia, l’effetto moltiplicatore che l’investimento in ambito culturale è atto a generare, come visto, non può costituire motivo per invocare un maggiore intervento da parte dello Stato. Innanzitutto, l’afflusso di fondi pubblici per un ammontare più elevato non migliorerebbe di molto la realtà attuale, in mancanza un’amministrazione più proficua del sistema nazionale dei beni culturali; in secondo luogo, la destinazione a quest’ultimo di maggiori risorse, in assenza di un’adeguata analisi di impatto e, quindi, di un previo esame volto a giudicare se esse potrebbero venire più efficacemente investite in aree diverse, rende sempre approssimativa la politica adottata, così come il risultato eventualmente vantato. I mezzi pubblici carenti non sono il vero problema che caratterizza l’ambito in discorso: una gestione evidentemente inefficiente si accompagna a una sottoutilizzazione dei beni esistenti e, conseguentemente, a introiti scarsi. Ciò comporta, tra l’altro, un danno in termini di mancanza di fondi da re-impiegare nella conservazione degli stessi: la tutela e la valorizzazione del patrimonio culturale appaiono, pure sotto tale profilo, azioni interconnesse. L’apporto di finanziamenti e di “metodi” operativi di soggetti privati andrebbe favorito: da questi ultimi, in particolare,“è possibile ottenere non solo risorse economiche, ma anche competenze per instradare gestioni virtuose”. Purtroppo l’Italia sconta il pregiudizio che quanto attiene all’arte non possa essere inquinato da una sorta di malinteso “profitto” che, in altri termini e più correttamente, esprime invece una conduzione del settore più efficiente, secondo logiche aziendali che perseguono “la massimizzazione del risultato (economico e culturale) e la riduzione dei costi (con risparmi conseguenti a beneficio della collettività)”. “Per la cultura servono manager capaci di far quadrare i bilanci e promuovere il ‘bene’ che è un prodotto”. Invece, “la nobile funzione culturale diventa l’alibi dietro al quale nascondere inefficienze, diseconomicità o veri e propri privilegi”. Non si tratta di snaturare le opere d’arte o di sottoporle a rischi diversi ma, ad esempio, di concedere l’uso di determinati spazi contro il pagamento di un canone, di utilizzare opere depositate in magazzini mediante prestiti idonei a generare ricavi o, comunque, di valutare tra le varie opzioni esistenti come un’opera d’arte possa rendere al meglio: gli esempi sono molti. “La significativa relazione (bidirezionale) tra lo sviluppo culturale di un’area e il suo sviluppo economico in senso lato” e, dunque, la necessità che il settore possa essere sostenuto da fondi diversi da quelli provenienti dalle casse dello Stato, dovrebbe indurre a promuovere in ogni maniera la collaborazione virtuosa tra pubblico e privato nell’ambito in questione.
La cultura, come molti altri comparti del Paese, necessita di analisi idonee a stimare ex ante i costi e i benefici delle politiche di investimento realizzate da pubblico e privato, di monitorare nel tempo l’attuazione dei progetti intrapresi, di fare un serio bilancio ex post degli interventi effettuati, in modo da incentivare i successivi impieghi di mezzi verso le destinazioni migliori. “La ricetta è dunque quella di innescare un circolo virtuoso di crescita, non di sperare di vendere, sic et simpliciter, le struggenti bellezze del nostro paesaggio” o di ritenere che un patrimonio culturale di valore rilevante sia di per sé elemento sufficiente. L’Italia ha bisogno di cultura per la ripresa, compresa la cultura della misurazione dell’impatto: tutto si tiene.
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