La crisi, le nubi persistenti, Friedman e le riforme
Il paper Bankitalia sui 100 trimestri di regresso della produzione industriale italiana sui 12-13 di Francia e Germania – di cui ha ottimamente scritto oggi Mario Seminerio – mi induce a qualche considerazione sul 2010, la crisi e l’uscita dalla medesima. Milton Friedman alla fine dei suoi anni amava ripetere che quanto più nella storia americana erano state severe le recessioni, tanto più vigorosa era stata la ripresa che ad esse era succeduta. Se tendete un elastico, più lo tirate più al rilascio la forza accumulata sarà in grado di svolgere un lavoro maggiore, diceva il grande liberista. L’elastico ideale della sua metafora è naturalmente la domanda, la somma cioè della spesa di famiglie, aziende, stranieri e governo. Alla forte ripresa della spesa, le risorse economiche tendono al pieno impiego, cresce la forza lavoro occupata, il capitale si accumula e la tecnologia avanza, in un processo espansivo che di volta in volta porta più avanti il proprio limite. Poiché ogni recessione spinge tendenzialmente l’offerta al di sotto dei livelli di contrazione della domanda, all’arrivo della ripresa l’economia può crescere a un tasso maggiore di quello normale, finché non raggiunge almeno il punto che avrebbe toccato se la crisi non ci fosse stata. Senonché – mi duole molto riconoscerlo, per me è un maestro – la tesi di Friedman non è sempre vera. Rischia di non esser vera questa volta, o almeno non egualmente per le tre macroaree mondiali, Usa, Ue, Asia.
Se il calo della domanda persiste al di là delle previsioni, la contrazione dell’offerta è ancora maggiore, e si riducono consistentemente l’output potenziale e il tasso di ripresa della crescita. Ciò può avvenire anche in presenza di consistenti iniezioni di spesa da parte dei governi o della componente straniera della domanda. A ciò si collega il fatto che una ripresa che tardi a manifestarsi comporta tutta una serie di danni collaterali di lungo periodo. Per esempio se una consistente fetta della manodopera viene lasciata fuori dal mercato del lavoro per un periodo di tempo troppo lungo, la sua capacità di lavoro e produttività tende a decadere e ad atrofizzarsi. E la ripresa tenderà a lasciarla fuori dai nuovi occupati. La produttività per ULA – unità di lavoro occupata – può magari eguagliare o superare quella del precrisi, ma i disoccupati possono restare tanti. Idem dicasi per la produzione: le aziende tenderanno a non accrescere il proprio stock di riserve in assenza di percezione di una consistente ripresa della domanda, e il livello di capitale immobilizzato tenderà ad adeguarsi a un minor tasso di attività. Se si considera il sistema finanziario, per quanto maggiore possa essere il tasso di risparmio in ogni caso il costo del capitale potrebbe accrescersi, e le imprese tenderebbero ad usare di conseguenza meno capitale per unità di output. E’ un rischio ancora aperto, davanti a noi, nell’Euroarea e negli Usa? La risposta è purtroppo “sì”. Almeno dal mio modestissimo punto di vista.
È un rischio attestato anche dalla ricerca contenuta nell’ultima release del World Economic Outlook del Fondo Monetario Internazionale. I ricercatori del FMI hanno ripassato sotto esame ben 88 crisi bancarie occorse nel mondo negli ultimi quattro decenni. In media, 7 anni dopo l’esplosione della crisi in quasi metà dei casi l’output era ancora a un livello inferiore del 10% rispetto al precrisi. E’ un monito da non prendere alla lettera, poiché in molti casi si trattava di Paesi in via di sviluppo, e di crisi bancarie non globali come quella che abbiamo alle spalle. Ma ciò malgrado – anzi, proprio in ragione della crisi di fiducia globale, e della persistente mancata soluzione ai problemi di fondo della finanza sintetica e strutturata – occorre tenere ben presente che per Europa e Stati Uniti il rischi concreto esiste: anche se l’economia ha preso a ritracciare da uno o due quarters con segno positivo rispetto a quelli precedenti, il livello di output può restare inferiore a quello 2007 per addirittura anni a venire. Ricordo a tutti che nell’estate 2008 Goldman Sachs valutava che la crisi avesse abbattuto il valore dell’equity mondiale nell’ordine di 30 trilioni di dollari, e quello immobiliare nell’ordine di 11 trilioni. Prese alla lettera – cioè se si fosse dovuto valutare quelle cifre a fermo, invece che nel prosieguo degli aggiornamenti verso l’alto dei prezzi di mercato, rivelatisi consistenti nelle Borse ma non nel mattone – si trattava di perdite pari più o meno al 75% del Pil mondiale. Anche in quel caso, la storia dimostra che non per questo bisognava fasciarsi la testa: dopo enormi distruzioni partono ancor più enormi ricostruzioni. Ma qui e oggi la domanda è: per caso o per necessità le cose non vanno diversamente, quando si è vittime di una crisi finanziaria globale? A tale domanda, la risposta divide verticalmente al comunità accademica e quella degli affari. Io sono tra coloro che temono. Dal punto di vista di Chicago, le crisi da sovrainvestimenti e iperspeculazioni condotte con mezzi propri esitano in conseguenze meno gravi, di quelle poste in essere invece con capitali presi a prestito. Perché in quel caso gli asset si riallineano di valore verso il basso, mentre le liabilities al contrario restano altissime. Il caso concreto del Giappone e del suo tetro decennio di stagnazione negli anni Novanta è lì sotto i nostri occhi, a dimostrarci quali conseguenze di lungo periodo possa avere in un’economia avanzata una crisi da bolla immobiliare e stock overprices realizzata con capitali a prestito, e intermediari finanziari non fatti fallire con procedure guidate. La tipica recessione postbellica che aveva in mente Friedman, e che lo indusse a predire che a crisi serie seguono riprese ancor più forti, era una recessione che esitava in crescita dei prezzi, più bassi tassi d’interesse delle banche centrali per sostenere tassi di spesa divenuti troppo bassi e – una volta finanziata un po’ d’inflazione, di solito “troppa” – le autorità monetarie e di governo erano libere di tornare a tassi più alti e politiche meno interventiste. Oggi corriamo il rischio che in grandi Paesi i prezzi restino bassi – quasi deflazionistici – malgrado i tassi d’interesse negativi e le politiche pubbliche enormemente forzate al debito aggiuntivo. Il caso del Giappone mostra che la riluttanza a far fallire – ripeto: in maniera guidata – banche e società i cui attivi non sono più allineabili alle passività ha portato a una condizione per la quale nel 2002 – a 10 anni dall’inizio della crisi – l’output nipponico era ancora inferiore di ben il 23%, a dove avrebbe dovuto essere seguendo la traiettoria precrisi.
La scommessa attuale, dopo due quarters di cessazione della caduta nel mondo sviluppato, sta nel ritenere che le grandi banche siano tornate a tassi overnight nell’interbancario pari allo 0,25%, e la massiccia emissione di corporate bond su ambedue le rive dell’Atlantico siano tutti segni di grande fiducia, tali cioè da far ritenere che nel buon tempo perdurante non sia necessario riallineare traumaticamente attività e passività. Personalmente, ritengo che i casi recenti di Dubai – quanto a debiti privati – e Grecia – per il debito pubblico – mostrino che la scommessa fonda il suo presupposto su basi ancora assai poco solide. Sicuramente per il mondo anglosassone – Usa e Uk – la somma di debiti provati e debiti pubblici eredità della crisi resta troppo alta, per pensare di assistere a rivalutazione degli attivi da prezzi di mercato tali da evitare la prospettiva che milioni e milioni di lavoratori vengano in fretta riassorbiti dalla produzione a livelli precrisi. Per quanto poi riguarda l’Italia, i nostri 100 trimestri di produzione industriale perduta, le prospettive di una ripresa dell’export di gran lunga inferiore alla ripresa del commercio mondiale – si prevede un export di più 4% nel 2010, il commercio dovrebbe riprendersi del 9% -, e infine l’andamento dei prezzi più accentuato di quello di altri Paesi avanzati per colli di bottiglia che riguardano le reti distributive e rendite di posizione sui mercati del lavoro e dei servizi, indicano secondo me chiaramente che avremmo bisogno di riforme strutturali per recuperare produttività, da meno tasse con meno spesa pubblica – parecchio di entrambe le voci in meno – a energiche liberalizzazioni, fino all’intervento straordinario sul debito pubblico di cui l’unico a parlare è sinora Paolo Savona nei suoi inascoltati articoli (vedi anche oggi sul Messaggero). Invece, si preferisce aspettare a braccia conserte, e si annunciano ennesimi dibattiti pluriennali ab ovo con coinvolgimento di attori di ogni ordine e grado in vista di una fumosa nuova riforma fiscale, che a me impostata così invece di riempirmi di speranzosa attesa pare solo una scusa per prender tempo fino a fine legislatura, aspettando magari che Berlusconi cada e si capisca chi o che cosa gli succede, e a quel punto con chi e su che cosa allearsi.
Riguardo le emissioni di corporate bonds, il loro elevato volume deriva dalla sostituzione di debito bancario (loans), che ha covenants rigidi e spesso a scadenza non viene rinnovato, con obbligazioni verso le quali il mercato mostra grande capacità di assorbimento, grazie alla propensione al rischio favorita da prezzi degli asset in rialzo. Si sta riproducendo il solito ciclo di boom-bust, come mostrano i covenant sulle obbligazioni high-yield, che ormai escono con clausole di solvibilità molto lasche, a favore dei debitori, e che quindi in caso di default avranno un recovery value vicino allo zero. La storia non ci ha insegnato nulla, al solito.
Qui bisogna vedere che cosa succede negli US.
Se la via per uscire dalla crisi è quella dell’indebitamento e della spesa pubblica, direi che non se ne esce. Idem in Italia.
Se non riducono tasse e vincoli vari, non se ne esce.
Idem per le banche centrali e il loro credito facile a tassi bassi.
Bisognerà aspettare che qualche stato grosso vada in default.
Diciamo la California.
Nel frattempo sarà interessante vedere come si comporteranno alcuni piccoli attori come l’Islanda.