La Cina, la Germania, l’Est e Pomigliano
Il mondo s’interroga sulla riduzione del surplus cinese a seguito anche del ritorno al regime di fluttuazione amministrata del renminmbi, già in opera tra 2005 e 2008. La Cina si presenta al G20 canadese avendo sostanzialmente annullato il surplus sull’euroarea, mentre resta forte verso gli USA, ma di fatto bisogna dare atto che lo spazio dato alla sua domanda interna è molto forte, come meccanismo acceleratore della crescita dei Paesi meno forti. Lo stesso non si può dire della Germania nell’euroarea, che pensa però l’indebolimento dell’euro sul dollaro espanda più che ragionevolmente l’export di paesi come l’Italia, senza che essi debbano dunque rompere le scatole in sede europea rimproverando Berlino di non fare in Europa come invece la Cina fa verso tutti i Paesi esportatori del Pacific Ring. Eppure, ai fini dell’exit strategy italiana, c’è un particolare sul quale avrebbero dovuto riflettere tutti, nelle ore immeduiatamente successive al referendum dei lavoratori Fiat a Pomigliano. La questione è: che cosa produce, la delocalizzazione?
Il dibattito italiano è ancora troppo provinciale, alieno dal comprendere davvero come funzioni l’economia globalizzata e quali vantaggi essa produca. Puntualmente si è così riprodotto anche a proposito di Pomigliano il luogo comune che questa volta presenta i lavoratori polacchi Fiat di Tychy come avvoltoi responsabili della schiavizzazione di queste povere vittime del padrone rapace, che sarebbero nell’immaginario collettivo antagonjista i loro colleghi di Pomigliano. Senonché le cose non stanno affatto così. E non stanno così per una delle ragioni più profonde che spingono la Germania a “non” comportarsi come la Cina in sede di Unione europea. E’ proprio la forte delocalizzazione a Est attuata dai tedeschi, a contribuire potentemente alla solidità della posizione tedesca. E quali siano i suoi benefici effetti, in casa italiana l’ha dimostrato proprio la vicenda di Pomigliano.
Per chi volesse, numeri alla mano, approfondire che cosa in concreto ha significato per il sistema produttivo tedesco e il Sistema-Germania la delocalizzazione a Est, Thorsten Hansen dà tutte le risposte del caso, nel suo “Tariff Rates, Offshoring and Productivity: Evidence from German and Austrian Firm-Level Data” (Munich Discussion Paper 2010-21, University of Munich). In realtà è stata l’Austria a fare da battistrada, subito dopo la caduta del Muro. Tanto che nel 1999 la delocalizzazione verso l’Est Europa ammontava al 90% dei suoi investimenti diretti all’estero, mentre per la Germania la quota era ancora ferma a solo il 4%. Le importazioni intra-aziendali, cioè generate da gruppi all’est controllati da aziende austriache, erano il 70% dell’import austriaco, e il 20% di quelle germaniche. Ma tra il 2004 e il 2006 la delocalizzazione tedesca a Est è stata assolutamente travolgente, impennando la quota di IDE originati da Berlino verso i Paesi ex comunisti dal 4% al 30%.
L’effetto di questa ondata è stato stupefacente. Gli investimenti tedeschi in aziende polacche, ceche e ungheresi hanno prodotto in 4 anni un innalzamento della loro produttività pari in media sino a quattro volte quello conseguito da società operanti nello stesso settore ma rimaste a controllo nazionale. E a questo si è aggiunto un effetto altrettanto salutare e strutturale sull’efficienza organizzativa, gestionale e logistica delle loro case madri germaniche, che hanno visto aumentare la loro produttività in media del 20% grazie alle controllate dell’Europa orientale.
Da noi in Italia, basta aprire in una delle tante puntate dedicate alla bassa crescita italiana i microfoni agli ascoltatori di Radio24, che pure è di Confindustria, per sentire una raffica di voci concitate che accusano gli industriali italiani di aver scelto la comoda via di stabilimenti a Est dove i costi sono più bassi, invece di difendere le produzioni nazionali. Queste accuse che cosa testimoniano? Purtroppo – se mi si passa il giudizio un po’ tosto, e chiedo scusa a chi ne fosse ferito se, conoscendo numerio e trend della globalizzazione, resta comunque ideologicamente convinto che il solo fatto che essa funzioni così non significhi affatto che la si debba accettare come “giusta” – comprovano solo l’ignoranza economica diffusa nel nostro Paese, e temo non solo tra chi non ha mai fatto studi di economia. Al contrario, l’evidenza dei dati tedeschi e austriaci prova in maniera irrefutabile che la delocalizzazione a Est, oltre a innalzare i livelli produttivi e di consumo in quei Paesi, ha potentissimamente contribuito a innalzare produttività e crescita potenziale in Germania e Austria.
E anche nel caso Fiat, è andata esattamente così. La produttività dello stabilimento Fiat di Tychy in Polonia ha non solo enormemente contribuito al ritorno dell’azienda torinese a margini positivi e utili nell’auto a livello globale. In altre parole: ha consentito di tenere Pomigliano aperta, mentre lo stabilimento campano bruciava cassa come un forno. Ma ha spinto altresì l’azienda ad innalzare la propria produttività dovunque, mettendo in condizione la Fiat di giocare meglio la sua sfida mondiale, continuando a tenere occupati in Italia. Chiunque attacchi la delocalizzazione considerandola un’abdicazione ai doveri nazionali, o è in malafede, oppure è un ideologo antimercato, oppure, semplicemente, un ignorante. L’exit strategy migliore per la crescita aggiuntiva del nostro Paese pretenderebbe, proprio oggi che i prezzi e i tassi sono bassi, che le imprese italiane siano incoraggiate e non ostacolate a comprare all’estero, non solo a guardarsi l’ombelico in Italia.
Chiaro, PUNTO
Non più tardi di ieri su uno di quei pseudo giornali che ogni mattina ci schiacciano in mano in metro vi era, trionfante, la notizia: “Italiani stakanovisti, dopo i giapponesi siamo quelli che lavorano di più”. Il fatto che, i dati si riferissero ai giorni di ferie godute e non al lavoro effettivo, ovvero indirettamente alla sua produttività, poco importa. Siccome noi italiani non leggiamo più niente altro che questi giornaletti gratuiti, questa è la cultura economica che ci facciamo…
Egr. Dott. Giannino, Lei non crede che la delocalizzare abbia come conseguenza, anche se non immediata, lo smantellamento del sistema produttivo di Pmi sul quale è stato costruito il benessere economico del paese, almeno sino a che la classe politica ha cominciato ad opprimere queste imprese? Tra non molto, se i prodotti realizzati altrove costeranno di più, visto che concorrenza non saremo più in grado di farne, per mancanza di fabbriche e gente specializzata, come potremo acquistarne tutti? Io credo che andremo verso un impoverimento generale, tranne che imporre agli altri paesi prezzi per le merci adeguati alla nostra capacità di spesa. Certo chi ha possedimenti, tv, banche, oro e altro potrà permettersi il lusso di un frigorifero, gli altri no. Contento Lei !!
Egregio dott. Giannino,
la risposta dl sig. Perna al suo ottimo scritto è la miglior conferma dell’esattezza della sua tesi… Alle volte si fa pure fatica a scindere chi vuole ignorare il dato oggettivo x ideologia e chi per miopia..
PS: grazie x l’ossigeno di blog & nove in punto ..
Eh, qui non c’è scampo: o ci si rende conto che siamo nel 2010, in piena rivoluzione tecnologica e globalizzazione economico-finanziaria, o si pensa di vivere ancora negli anni 70, col telefono in bachelite, le telescriventi e le fabbriche okkupate.
Certo, ci vorrebbe una classe dirigente più coraggiosa, che finalmente bonificasse quella palude che è il sistema produttivo italiano. Ma, bisogna pur dirlo, la classe dirigente rispecchia il popolo che rappresenta. Popolo in una larga percentuale, a destra e a sinistra, non pare si renda conto che nel mondo reale sono cambiate alcune cosucce. Solo nel mondo virtuale dell’ideologia e delle chiacchierette, nonostante i disastri epocali che hanno prodotto, tutto è stupidamente e pervicacemente immobile..
@Sig. Perna: capisco che ci sia la paura legittima di ogni cittadino di fronte al fenomeno della globalizzazione. Non è facile, visti gli economisti che ci troviamo, spiegare questi concetti.
E’ vero che delocalizzano le imprese relativamente grandi ed è vero che a soffrirne sono, molto spesso, le piccole imprese subfornitrici italiane, ad esempio nei distretti (si veda il lavoro di Costa e Ferri, 2006), ma a questo fenomeno, che è una scelta imprenditoriale di fronte al contesto esterno, non c’é alternativa. O la chiusura totale del Paese, o col tempo, quel smantellamento del sistema produttivo di cui lei si lamenta (nel senso di uno spiazzamento delle imprese locali). Infatti, come riporta il dott. Giannino, la posizione tedesca è migliore della nostra anche per questo.
Fortuna vuole che il mondo sia molto vario (eterogeneità) e non tutte le imprese devono o possono delocalizzare. La sfida è per i governi e i policy maker. E’ loro compito facilitare l’aggiustamento e la riconversione industriale, attenuare l’uscita dal mercato dei lavoratori e favorire il loro reinserimento. E qui i long-life learning program è meglio del life-long subsidy…
Egr. Sig. Piero, io sono un artigiano, potrò essere ignorante, nel senso che di questioni macroeconomiche ne so ben poco e lo ammetto, ma non mi ritengo ideologico, forse miope, mentre molti dicono di conoscere pur cambiando spesso posizione e dicendo cose che spesso si contraddicono. Non mi riferisco al Dott. Giannino che stimo per il suo lavoro ed anche per la Sua onestà, ma guardandomi intorno non vedo nulla di buono ad aspettarci, a prescindere da tutte le Vs buone analisi, sia siate intellettuali, politici o semplici cittadini. Se affinchè l’economia si riprenda è necessario aumentare la produttivita, licenziando lavoratori, sarà ideologico, antiquato, o cos’altro vogliate dire, ma mi sembra ci sia qualcosa che non quadra. Certo in Italia abbiamo le opere d’arte, il clima buono, il mare , il paesaggio, la gastronomia, ecc. ricchezze da rivalutare, solo che nessuno lo fa, la Sicilia è bellissima, ma i siciliani potendo, vanno via. Comunque, auguri a tutti, vediamo come andrà a finire.
P.S Della gobalizzazione non ho nessun timore, a me preoccupano coloro che credono di aver già capito tutto.
Sig. Perna, lei ha ragione; in realtà non abbiamo capito niente. La ragione è che gli economisti lavorano su dati (truccati) o semplicemente falsi. Non è necessario licenziare lavoratori per aumentare la produttività; la si aumenta o lavorando di più (intendendo che la messe di lavoratori che fanno finta di lavorare…inizino a fare qualcosa) o lavorando meglio (ovvero combinando meglio i fattori disponibili, ad es. team work, strumenti informatici, etc.). Basta essere un semplice osservatore (cosa che gli economisti sono sempre meno) per vedere che in Italia questo è doppiamente vero. E, per ultimo, questa situazione di stallo è ideologicamente determinata per la sinistra e i sindacati, i quali dovrebbero rinunciare a difendere diritti acquisiti, e fattuale per la destra di governo (che dovrebbe mangiare le rendite di posizione degli incumbent che la votano).
Sig. Giannino, mi meraviglio che si stupisca …. gli Italiani sono in gran parte abituati alle “rendite” e la delocalizzazione rappresenta una mannaia che si abbatte su chi pensa che il merito sia quallo di essere “entrato” nel mondo del lavoro e non quello di contribuire ogni giorno a renderlo produttivo.
Io ho delocalizzato in Repubblica Ceca 10 anni fa il 90% della produzione che facevamo in Italia: il risultato è stato eccellente e non solo per l’azienda in generale ma anche per i lavoratori italiani che, inseriti in un sistema di lavoro diverso, sono diventati più qualificati e quindi più produttivi.